IL
"SAGGIO" DEL CESAROTTI E LE POLEMICHE LINGUISTICHE DEL
'700
di
MARIO PUPPO
I motivi animatori del Saggio sulla filosofia delle lingue sono l'affermazione del carattere dinamico della lingua e la difesa della libertà dello scrittore; nell'illustrare queste tesi il Cesarotti mette soprattutto l'accento sull'aspetto individuale della lingua, sulla funzione del genio e del gusto del singolo scrittore, piuttosto che sui condizionamenti della tradizione e della società. Il problema del rapporto fra lingua e società, unità linguistica e unità culturale e politica è però fra i più sentiti nelle polemiche settecentesche ed è quello che dà ad esse un particolare rilievo di novità nei confronti della tradizionale questione della lingua. L'esigenza di una lingua viva e comune a tutti gli italiani emerge e viene vivacemente trasmesso all'età romantica.
Il sentimento della vita inesauribile del linguaggio e la difesa della libertà dello scrittore sono i due motivi fondamentali del Saggio sulla filosofia delle lingue del Cesarotti. Due motivi, com'è chiaro, strettamente legati fra loro, in quanto il primo costituisce la premessa del secondo. Come abbiamo detto in principio, il Saggio sulla filosofia delle lingue non è essenzialmente un'opera teorica sulla natura delle lingue, e nemmeno un'opera storica sulla natura e lo svolgimento della lingua italiana. Esso contiene in realtà molte cose diverse: un complesso di vedute teoriche sulla natura del linguaggio; una visione della storia e della natura dell'italiano col connesso problema toscanesimo-antitoscanesimo; una trattazione di altri particolari problemi dibattuti dalla cultura del tempo, come i rapporti fra italiano e latino, italiano e francese; una personale poetica o rettorica. È in relazione a quest'ultima che tutto il resto finisce per acquistare il suo preciso significato. E in ciò.. il Cesarotti antitradizionalista si colloca anch'egli sulla linea più vitale della nostra tradizione, che aveva considerato il problema linguistico sempre in funzione letteraria e nella lingua aveva dato soprattutto rilievo ai valori estetici e individuali, anche nel corso del razionalistico e universalizzante salizzante Settecento. Conferma di questo orientamento e della personale intensità con cui il Cesarotti lo vive è una pagina della lettera al conte Napione: tanto píù significativa in quanto, per esplicita dichiarazione dell'autore, essa si presenta come definizione e interpretazione dell'«oggetto» e dello «spirito» del Saggio sulla filosofia delle lingue.
Il Cesarotti si rivolge agli scrittori italiani e, dopo averli ammoniti a studiar prima la lingua «da filosofi» se vorranno «maneggiarla da maestri», ed averli esortati a diventar «possessori tranquilli delle ricchezze e dell'indole» della propria lingua, li invita a coltivare saggiamente il commercio con le straniere, dove troveranno forse «di che aggiungere all'idioma nazionale qualche tinta pellegrina che dia rilievo alla sua bellezza senza alterarne le forme». Quindi così eloquentemente conclude: «allora provveduti d'un corredo inesausto di segni, di colori, di torni ben distribuiti e graduati nelle loro classi, colla facoltà abituale di paragonare e di scegliere, colla molteplicità degli esempi, allora, dico, sappiate pensare e sentire, e la figura del concetto verrà a stamparsi nell'espressione, che sarà conveniente, vivace, italiana e vostra: voi non sarete più schiavi né dei dizionari né dei grammatici, non sarete né antichisti né
neologisti, né francesisti né cruscanti, né imitatori servili né affettatori di stravaganze; sarete voi; voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d'una lingua libera e viva, e la improntano delle marche caratteristiche del proprio individuale sentimento».
Non c'è bisogno di sottolineare la forza e la modernità di queste ultime affermazioni, che racchiudono senza dubbio la convinzione più profonda del Cesarotti, ed esprimono nella maniera più efficace lo spirito animatore dei suoi studi linguistici: i quali tutti convergono nel dar rilievo all'individualità dello scrittore, alla sua posizione di indipendenza rispetto alla tradizione e alla società, alla sua funzione rinnovatrice e formatrice nei riguardi della lingua. La mentalità illuministica portava ad attribuire all'individuo singolo un potere quasi demiurgico. Ciò accade anche nel campo linguistico. Alla norma esterna, sia spaziale (l'uso di una determinata società), sia temporale (l'autorità degli scrittori del passato) si sostituisce la ragione, il gusto, l'arte del singolo.
Del valore e della legittimità di un termine il Cesarotti, in ultima istanza, fa sempre decidere dallo scrittore di genio. Questa tendenza può anche arrivare a posizioni puramente arbitrarie ed astratte, come quando sia il Cesarotti sia il Bettinelli immaginano la possibilità che gli scrittori costituiscano una nuova lingua, «ottima», trascegliendo i vocaboli migliori dei vari dialetti. Nel rapporto, che perennemente condiziona la vita delle lingue, fra individuo singolo e tradizione-società, essi mettono l'accento sul primo termine: qualche volta trascurando eccessivamente il secondo. Un estremo opposto sarà rappresentato nell'Ottocento dal Manzoni, quando vorrà sottoporre totalmente il singolo alla norma sociale, i diritti dell'individuo a quelli della collettività.
Insieme con lo studio delle fasi iniziali della nostra lingua e letteratura, come era accaduto nel Cinquecento, le polemiche linguistiche del Settecento stimolarono quello per i rapporti fra lingue e culture diverse. Dal Muratori al Napione non c'è alcuno dei disputanti che non sia stato costretto, e sia pure attraverso il raffronto dei «pregi» rispettivi delle lingue, a considerare i particolari atteggiamenti mentali e gli orientamenti culturali delle altre nazioni e a porsi il problema del significato positivo o negativo dell'incontro fra di essi e quelli della nostra nazione. Ne risultano posizioni polemiche o in un senso o nell'altro, con varie gradazioni: e fra i termini estremi dell'apertura cosmopolitica di un Cesarotti e della chiusura nazionalistica del Napione può stare per esempio un Baretti, che, mentre invoca l'esempio della Francia e dell'Inghilterra per combattere l'accademismo culturale e linguistico, è avverso all'«infraciosamento» del nostro idioma. E al Baretti si può avvicinare il Bettinelli quando afferma che
«è ver che la lingua e i libri francesi hanno ritardato il progresso del nostro linguaggio; ma forse han giovato, destando il gusto di leggere cose intelligibili a ognuno; han disingannato molti dalla superstizione verso i maestri di lingua morta, i
quali volevamo che avesser fatto tutto, e hanno sgombra la strada di molti impacci e sterpi». Ma la polemica avviava a poco a poco alla considerazione critica e storica. II «francesismo», per esempio, induceva a riflettere su di un fenomeno analogo di secoli precedenti e di questo stesso «francesismo» moderno si tentava, una spiegazione storica, indagando il rapporto fra due culture di diverso vigore e capacità, espansiva. Analogamente veniva prospettato non soltanto il problema pratico dell'uso del volgare in luogo del latino, ma quello storico dell'influsso della lingua e della cultura latina sulla lingua e la cultura volgare, cosí in riferimento allo stile latineggiante del Boccaccio e dei suoi imitatori come al rifiorimento delle lettere classiche nel periodo dell'umanesimo. Nazionalismo e cosmopolitismo, latinismo e volgarismo erano inizialmente termini di polemica; ma finivano anche per diventare categorie d'interpretazione dei fenomeni linguistici e letterari.
L'antitesi nazionalismo-cosmopolitismo, che le discussioni linguistiche del Cinquecento ignoravano, trasportava il problema della lingua sul terreno politico. La difesa di una tradizione linguistica comune, come simbolo di una comunità di spirito e di cultura e di un'esistenza autonoma di popolo, non era del tutto nuova. Questo motivo affiora nelle discussioni cinquecentesche, sia quando si combatte il fiorentino come dialetto municipale, al quale si contrappone tanto come realtà storica quanto come ideale l'italiano comune, sia quando di fronte agli attardati difensori del latino si esalta il volgare, lingua di un popolo nuovo, con propria fisonomia e propria storia, anche se figlio ed erede del latino. Ma nel Cinquecento tale motivo resta marginale e mai approfondito; l'ambito in cui si svolgono le dispute è essenzialmente letterario e rettorico, dominato dal principio della «norma» linguistica e stilistica e dalla concezione dei «pregi» intrinseci delle lingue. E anche nel Seicento la rivolta di certi autori contro la Crusca è quasi soltanto una manifestazione del generale antitradizionalismo dell'epoca. Ma nel Settecento, e in maniera sempre più chiara via via che si procede dalla metà del secolo in poi, appare evidente la connessione fra problemi linguistici e problemi politici e sociali. Il rapporto fra svolgimento della lingua e svolgimento della cultura, e della vita in genere, domina le menti degli scrittori più acuti e più moderni, i quali avvertono che le infelici condizioni della lingua in Italia sono il riflesso della situazione politica e sociale e, inversamente, invocano un mutamento della lingua che contribuisca a cambiare quella situazione. Paragonando le condizioni dell'Italia con quelle dei paesi più progrediti e civili, come la Francia e l'Inghilterra, da una parte si osserva che la mancanza di una unità di vita politica e sociale impedisce lo sviluppo della cultura e della lingua; dall'altra si lamenta che l'attaccamento agli atteggiamenti linguistici e stilistici tradizionali, sia nel senso spaziale (esclusivismo toscaneggiante) sia nel senso temporale (purismo e accademismo trecentistico e cinquecentistico), ostacola la diffusione della cultura e il rinnovamento della società. Il senso dell'importanza sociale e politica della lingua è così diffuso nel Settecento che persino un tradizionalista come il Salvini afferma che l'unità della lingua «influisce nell'unità de gli animi, necessaria al ben essere de gli uomini, de le case, e de gli stati». Quello che il Salvini, agli inizi del secolo, appena intravede, si fa sempre più consapevole nel corso di esso: e questa consapevolezza culmina nel libro del Napione, alle soglie del secolo seguente, il quale la arricchirà di altri motivi e vibrazioni passionali.
L'unità spirituale e culturale, per la quale è necessaria l'unità linguistica, è interpretata non soltanto nel significato geografico (donde la polemica contro il toscanesimo e la richiesta di un italiano «comune»), ma in quello sociale, e sia pure ancora entro notevoli limiti (che nel resto, di fatto, nemmeno il romanticismo riuscirà a superare del tutto). Rispetto alle polemiche precedenti è questo uno degli aspetti più nuovi e più vivi. Si vuole una lingua moderna, più semplice e agile della lingua tradizionale, perché per mezzo di essa la cultura possa uscire dall'ambito ristretto degli studiosi specialisti e diffondersi in più larghi strati della società. L'Algarotti lamenta che la lingua dei nostri antichi, quella che fu perfezionata da Dante, Boccaccio, Villani, Petrarca e dai loro seguaci del Cinquecento, non sia mai diventata comune a tutta l'Italia, ma ai soli studiosi e letterati, e oggi suoni agli orecchi di « tutte le ben educate persone, e ben nate », e specialmente delle donne, come morta o straniera. E il Bettinelli, commentando questo passo, osserva con parole che si direbbero manzoniane in anticipo, che «resta dunque a fissarsi la lingua viva, ed a farsi universale, ad uso di tutti». Ma il motivo, come s'è visto, ritorna, con maggiore o minore insistenza e intensità, in tutti i disputanti, dal Muratori al Napione. In quest'ultimo l'aspetto politico e quello sociale del problema mostrano con chiarezza la loro connessione. Infatti egli invoca contemporaneamente unità e integrità linguistica come difesa dell'integrità nazionale di fronte alle altre nazioni, e l'adozione dell'idioma volgare e comune (contro latino e dialetti, oltre che contro le lingue straniere) nella vita culturale e sociale, per cementare in profondo l'unità e la stabilità della nazione, avvicinandone le classi sul piano della cultura: meglio si governano i popoli illuminati, ma «la cultura universale non si diffonderà mai in una nazione, il popolo sarà sempre rozzo, feroce, indomabile dove non sia sparsa quella certa cognizion di lettere, che ottener non si può se non mediante la lingua propria». Siamo naturalmente molto lontani dalle posizioni romantiche del Manzoni, il cui democraticismo linguistico e culturale è sorretto da un profondo sentimento cristiano dell'uguaglianza di tutte le anime e della necessità, che diventa per lo scrittore un dovere, di far penetrare in tutte la luce della verità: sentimento cristiano che non traspare per nulla dalle parole del Napione, il quale guarda al popolo con distacco, dall'alto, e non è tanto preoccupato di una sua intima elevazione morale quanto di un semplice suo raffinamento d'istruzione e di costumi che lo renda più docile, più facilmente governabile. Eppure è significativo che anche lo spirito meno aperto forse fra i principali attori delle dispute linguistiche settecentesche, si volgesse più o meno consapevolmente verso un ideale di comunione spirituale entro- l'ambito della nazione. E non bisogna dimenticare che il Napione combatte l'uso di una lingua diversa da quella nazionale anche perché ritiene più vantaggioso per tutti il fatto che ogni singola nazione, usando della propria lingua, progredisca nella cultura e abbia un suo carattere e scrittori originali, di quel che non sia la possibilità per alcuni dotti di comunicare piú facilmente fra di loro. Qui egli sembra preannunziare vagamente, oltre il cosmopolitismo del Cesarotti, fondato su di un'aristocrazia culturale dall'accento fortemente individualistico, la concezione romantica, e specialmente mazziniana, delle nazioni che organicamente collaborano, ognuna con la propria personalità, a formare una grande «famiglia» per un ideale di comune perfezionamento. L'aspetto politico-sociale del problema della lingua, al quale il Settecento dava già tanto rilievo, era comunque quello che avrebbe dominato le discussioni linguistiche
dell'Ottocento. |