CRITICA LETTERARIA: IL QUATTROCENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
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Malinconia e idillio nell'Arcadia

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MALINCONIA ED IDILLIO NELL' "ARCADIA"

di
ATTILIO MOMIGLIANO



In un'atmosfera di idillio il Sannazzaro attua la sua esile vena di poesia, tutta nutrita di fonti letterarie, che trova il suo accento originale nell'evocare una sottile suggestione di tristezza e nella classica evidenza delle descrizioni del paesaggio e degli aspetti della natura.

Nell'Arcadia c'è una sottile vena di sentimento, un'aura d'elegia che qualche volta affascina ancora. Il tempo l'ha scolorita: ma essa conserva, nelle sue pagine più sincere, una grazia molle, una sfumatura di raccoglimento triste. Sopra il suo orizzonte troppo uguale passa talora l'ombra lieve di una nube, nel suo disegno svanito risalta ancora qualche linea lieve. Citare, qui, è più difficile del solito: perché quel velo di malinconia vi si dissolve fra mani, e quasi dappertutto si vedono le tracce o i ricalchi di un modello. Ma certo i motivi patetici di Virgilio risonavano come sospiri nell'anima del Sannazaro, e la mestizia che spira sul libro come un fiato di nebbia è - dovunque venga - un sentimento delicato e non mentito.
Si sente qua e là per il romanzo pastorale e amoroso la presenza di una fantasia meditabonda che riempie dell'immagine amata ogni solitudine.
Un'eco della melodia di pianto che erra per le rime del Petrarca, risuona ancora in questa prosa lenta e raccolta. E quella pacata malinconia d'amore che noi abbiamo disimparato, ci attira come l'immagine d'una vita più composta e più intima.
Insieme con questo rimpianto della donna lontana mormora in queste pagine la nostalgia della patria: e i due temi elegiaci confluiscono in una sola musica triste.
Aveva certo un'anima sentimentale; e la sua insistenza soverchia sopra le tinte fosche, e la scena esagerata di desolazione che egli descrive nella chiusa, ne sono una prova.
Ma era, insieme, un classico: due pagine della prosa ottava hanno, qua e là, con l'impeto della passione, l'evidenza di contorni della poesia antica. Carino racconta il suo disperato dolore, quando, abbandonato dalla sua pastorella, esce di notte per boschi senza sentieri e per monti aspri e, postosi a sedere ai piedi d'una quercia testimone della sua lontana felicità, si lamenta della giovinetta crudele. Il soliloquio comincia patetico, sparso dei ricordi affettuosi e semplici della vita comune in mezzo alla campagna; poi si alza in un'invocazione lirica e dolente alle divinità pietose dei miseri amanti: alle Napee che sfiorano con le bionde teste le onde chiare, alle Oreadi che cacciano ignude per le alte ripe, alle Driadi; poi si abbandona in un desiderio ardente di morte.
La tenue vena di tristezza e l'evidenza di alcune linee descrittive sono i piccoli pregi superstiti di questo libro. La vita pastorale dell'Arcadia non è tutta frusta come si dice. Nel paesaggio passa di quando in quando una voce viva, un alito fresco: il mattino i greggi con le loro campane risvegliano per le tacite selve gli uccelli addormentati: un ruscello si move, appena, tra le piante, non turbato da rami o da fronde, fra rive non tocche da piede di uomini o da animali; un gruppo di pastori riposa sui lentischi: gli alberi sibilano sul loro capo, le onde mormorano veloci fra l'erbe, cicale calandre tortore cantano e piangono intorno, «ogni cosa redole de la fertile estate». Questi tocchi brevi e rari dicono che il poeta aveva il senso dell'idillio.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it