LORENZO
"DILETTANTE" DI GENIO
di EMILIO CECCHI
È un animato ritratto del Magnifico nella partecipazione sempre un po' distaccata, da grande dilettante, alle esperienze poetiche e artistiche della Firenze del Pulci, del Poliziano, di Donatello, ecc. Lorenzo passa attraverso tutte le forme e i contenuti di questa cultura letteraria, trovando il momento più felice e personale là dove, come nell'Ambra, nel Corinto e nelle Selve, riuscí ad esprimere appieno il suo gusto vitale delle cose unito con l'accorata malinconia del loro perire.
In venti anni, e malgrado il carico dell'azione politica, Lorenzo scrisse di tutto. Sonetti d'un giovanile Canzoniere amoroso per Lucrezia Donati, dove l'imitazione petrarchista si amalgama con i nuovi modi del volgare quattrocentesco. Canzoni divote e canzoni lascive. Parodie dantesche. Poemetti ed ecloghe classicheggianti, ed ottave vernacole. Platoniche e teologiche controversie in terza rima. E la Sacra rappresentazione di San Giovanni e Paolo, a volta a volta religiosa e parodistica. Sembrò dunque aver buon giuoco il De Sanctis, additando in lui il tipico letterato quattrocentista, indifferente al contenuto, senza idee né convinzioni morali, e soprattutto ambizioso di sfoggiare belle frasi ricalcate sui classici.
Era la prima volta che, nella sua Storia della Letteratura, trasportato dall'impeto del suo nobile ideale civico, il De Sanctis gravava un po' troppo la mano. Noteremo incidentalmente che, per le stesse ragioni, la seconda volta doveva succedergli, non molte pagine dopo, trattando del nostro massimo storico, un altro fiorentino: il Guicciardini. E se nel Magnifico egli aveva visto il letterato che non crede più a nulla, lo smaliziato e raffinato cittadino che nella Nencia avrebbe creato il suo capolavoro, beffandosi della ingenuità e rozzezza campagnuola: nel Guicciardini, con diminuzione ancor più inesplicabile, vide il fallito all'azione che si ritira in disparte, tetramente ruminando i frutti della sua esperienza, a profitto, quanto ancora sia possibile, del proprio utile materiale.
Ma né in Guicciardini è cinismo e utilitarismo, a meno che non sia cinico l'intrepido e disinteressato amore della verità. Né in Lorenzo è freddezza e viziosità di letterato indifferente e professionale. Si ritorni, un attimo, a quell'osservazione del Poliziano: non avere Lorenzo potuto dedicare alla poesia che ritagli di tempo. E si vegga, fra tante altre cose, come il suo mestiere poetico, effettivamente, non sia nemmeno gran che solido e agguerrito; e piuttosto che dalla severità ed ampiezza del tirocinio, che fu pure ottimo, si avvantaggi d'una grazia fluente e un po' vaga di doni naturali. La sua fantasiá non respinge nessun invito, come il suo stile aborre da ogni mortificazione e astrazione formale. Qualunque sia l'oggetto ch'essa tocca, la sua ispirazione ne deriva un affettuoso divertimento, a tratti ostentando come una ironica distrazione, e sempre con una saporosa naturalezza, con una leggera sensualità smussata dal sorriso. Ma non era egoismo d'esteta o di pennaiuolo, che tira a sfruttare sulla carta gli incontri della fantasia. Era schietto ardore e allegrezza di vivere. Chiamatelo pure un superiore dilettantismo; benché la parola mi sappia di non so che boria moralista e romantica; e non per ciò sarà detto che il dilettante, nella sua modestia, non ami con sincerità e gratitudine di sentimento la cosa di cui si diletta.
Una considerazione è qui conveniente, a meglio chiarire il rapporto fra il Magnifico e il tempo che fu suo. Col suo complesso d'arte e di pratica, la personalità del Magnifico impronta di sé, nell'opinione corrente, quell'epoca della Rinascenza ch'è più fatta per toccare le immaginazioni: l'epoca tumultuosa, colta e fastosa, in cui comuni e repubbliche si vengono ampliando e organizzando nelle nuove signorie; e superandosi lo stretto regionalismo, cominciano a formarsi gli embrioni degli stati moderni.
Su quest'epoca, e sulle innumerevoli individualità artistiche che la popolarono, la personalità del Magnifico, nella comune opinione, si riflette ed irradia con qualcosa della sua versatilità luminosa, della sua miracolosa facilità. Ma occorre distinguere. E soprattutto distinguere fra quella che, nel tardo Quattrocento toscano, era la condizione ormai subordinata della poesia e della letteratura, e la contemporanea condizione delle arti figurative. Perché nel Quattrocento, come aveva visto il Leopardi, non fu corruzione né raffinamento letterario, rispetto al secolo precedente; ma piuttosto, appunto egli dice, un sonno della letteratura (che aveva dato luogo all'erudizione). «Il Quattrocento, in letteratura, restò dal fare», continua il Leopardi, «ma conservava l'idea del bello incorrotta»; mentre l'impulso creativo s'era tutto superbamente investito nelle arti plastiche, e cominciava ad apprendersi alla musica.
Ora non è dubbio che i grandi scultori e pittori quattrocentisti, in ispecie fiorentini, furono ingegni di molte curiosità e di ricche risorse espressive. Ma furono anche artisti di ispirazione consequentissima. Ed il loro stile si svolse con un rigore che, quasi più che ad attività estetiche, sembrava proprio alle scienze. Che dette anzi luogo a ben note e non oziose interpretazioni di tutto il Rinascimento toscano, come di una civiltà e d'una cultura a fondo naturalistico, in cui gli interessi ed i metodi dell'osservazione e deduzione scientifica vennero per la prima volta applicati alle arti. Oltrepassata appena la fase d'un suo giovanile accademismo, per oltre mezzo secolo d'invenzioni e fatiche quanto mai varie, il maggiore e piú violento tra questi geni del Quattrocento toscano: Donatello, non fa che sviluppare e approfondire fino all'esasperazione un suo unico ideale plastico. E altrettanto potrebbe dirsi d'artisti quasi coevi, e poco meno longevi, quali il Pollaiuolo e il
Botticelli.
Il Magnifico apri gli occhi della mente alle cose dell'arte, e forse cominciò a tentare qualche verso, mentre il vecchio Donatello attendeva all'estrema impresa dei pulpiti in San Lorenzo.
A suo tempo, che del resto giunse prestissimo, fece largamente lavorare per sé e la sua casata, il Botticella, il Verrocchio e il Pollaiuolo. Il poemetto delle Selve d'Amore suole riferirsi al momento fantastico della Giostra polizianesca e della Primavera del Botticelli, in un getto più rozzo. Ma si pensi ai contorni del disegno pollaiolesco, scavati come nell'acciaio. Alla scontrosa, nevrastenica malinconia bottícelliana. E si pensi alla cristallina preziosità del Poliziano; alla franca e massiccia brutalità e beceraggine del Pulci. Ciascuno di questi artisti e poeti s'era buttato a capofitto nella propria scelta. Vi s'era chiuso come in un fortilizio, o magari come in una gloriosa prigione. L'ideale estetico di Lorenzo è meno esclusivo.
I limiti della persona artistica di Lorenzo, più o meno, sono questi. Ma dentro a tali limiti non è luogo che ad un'ammirazione più aperta, in quanto suscitata con tanta serenità di mezzi, con un tratto cosí sensibile anche in certe imperfezioni, e con una qualità di successi sempre superiori all'intensità dell'impegno. Dalla sintassi mobilissima e quasi parlata, dai vocaboli, piú che in fermi contorni lineari, adoperati per sovrapposizioni, impasti e trasparenze, si producono straordinari. effetti di musica.
In confronto al Poliziano, si avrà talvolta un senso di lieve sfocatura, quasi d'un impercettibile strabismo, che ha pure una sua grazia curiosa. E se tali condizioni determinano una minore unità del linguaggio, un che d'incerto e poco saldo nella costruzione di poemi come l'Ambra e le Selve, più ambiziosi e più vasti; se il verso non ha il gemmeo stacco e nitore del verso polizíanesco, tanto peggio alla fine per tutte queste e altre cose: purché al tempo stesso non pretenda farsi di Lorenzo come artista il prototipo e la somma del genio rinascimentale fiorentino, che risponde ad altre leggi, ed ha altra coesione e prepotenza.
Freddezza e un certo stento qua e là trapelano nel Canzoniere per la Donati. Altrettanto si dica, per diversi motivi, delle Laudi divote e dell'Altercazione. Ed il fiore di questa poesia sta nelle Selve, sta soprattutto nel Corinto e nell'Ambra, che Lorenzo aveva passata la trentina, già piena età per una esperienza di vita come la sua: l'Ambra e il Corinto, frondosi innesti sul bel platano ovidiano, e lievemente li ombreggia una mestizia come di occaso. Mai forse l'immaginazione plastica di Lorenzo e il suo senso della vita si mescolarono intimamente, come nelle terzine delle rose, che chiudono il Corinto:
Sonvi piantati drento alcun rosai,
a' quai rivolsi le mia vaghe ciglie,
per quel che visto non avevo mai.
Eranvi rose candide e vermiglie ...
... Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men d'un'ora.
Quando langueenti e pallide vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne a mente
che vana cosa è il giovenil fiorire... |
E' il poeta dell'azione felice e della fiorente giovinezza, che d'improvviso si raccoglie su se stesso, nell'accoramento della beltà moritura, del desiderio, dello slancio fatalmente delusi. È lo stesso accento del famoso: «Quant'è bella giovinezza», dove più forte dell'entusiasmo epicureo trema il presentimento di cotesto destino. Ed è lo stesso tema, rovesciato nella nota elegiaca, di quel grido sublime e quasi forsennato di Goethe: «Rendimi la mia giovinezza» . Se non che anche di Goethe si sente dire, sottovoce, che lui pure, in fondo, fu un dilettante.
La pacata onda malinconica che percorre tutto il poemetto del Corinto, come deliziosamente s'increspa, si frange e spumeggia in brevi tocchi realistici e carnali, che derivano un vezzo di più dalla loro leggiadra
sforzatura.
Vedrei per l'erba il candido pie' muovere
ballando e dare al vento qualche calcio. |
E quell'odore di latticini, quel belare di pecore, e il vivo rosso delle fragole sul prato. Nell'Ambra o Descrizione del verno, il disegno è più ampio, con certe sbavature ed approssimazioni che Lorenzo concede alla propria fretta o repugnanza a organizzare e costruire. E anche nell'Ambra, come nel Corinto, è il lamento dell'amore, dello slancio deluso; benché con minore ansietà di passione, e con qualche compiacimento di particolari ornativi e situazioni episodiche, come quella, conosciutissima, della piena improvvisa nel torrente. Ma basterebbero le ottave della ninfa che vien cangiandosi in sasso:
... Cosí lo dio ferma la veloce orma;
guarda pietoso il bel sasso crescente,
il sasso, che ancor serba qualche forma
di bella donna, e qualche poco sente... |
Lorenzo è in questa trepidítà di segno; in questo accennare il fantasma poetico più che fissarlo e rifinirlo. Che ci spiega come altre sue cose più felici debbano ricercarsi fra le canzoni a ballo e i canti carnascialeschi; dove la parola è sollevata e portata da un soffio musicale, e quasi vi si dissolve oltre il proprio significato figurativo e
ideologico. |