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Punta Giordani - Monte Rosa

Cresta del Soldato (cresta sud-est)

28 giugno 1998
Mirko, Andrea (Barbara, Tiziana)

Per la prima uscita in quota della stagione abbiamo scelto una montagna che sulla carta dovrebbe essere piuttosto semplice: la Punta Giordani, sul Monte Rosa, se affrontata come pensiamo di farla noi, da Punta Indren e per la Cresta del Soldato, è sempre facile tecnicamente e non supera gli 800 metri di dislivello in tutto il suo percorso.
La affrontiamo in giornata: partiamo la domenica mattina abbastanza presto per arrivare ad Alagna in tempo per la prima funivia; alle cinque e mezza Galis, Barbara e Tiziana arrivano a casa a prendermi e in due ore siamo a Alagna. Barbara e Tiziana non salgono con noi, ma rimangono in paese; hanno in programma una passeggiata in direzione di un rifugio e una cascata di cui ignoravo e continuo ad ignorare il nome, più addentro nella Val Sesia. La giornata sembra bella: spesso intravediamo squarci di cielo grigio, tra le montagne che ci oscurano l’orizzonte, ma quando arriviamo sotto al Rosa la nostra meta ci appare limpida; tanto basta per farci decidere di salire.
Alle otto sale con noi la prima funivia; così in una quarantina di interminabili minuti arriviamo a Punta Indren; facciamo due passi fuori dalla stazione e quindi ci dirigiamo in direzione del ghiacciaio che dobbiamo attraversare per raggiungere la Cresta della Giordani. Speriamo di trovare neve decente, anche se non ci contiamo perché in funivia il manovratore ci ha raccontato della pioggia che è caduta nei giorni passati fino sopra ai 3400; in questi giorni lo zero è intorno ai 3600 metri. La neve poi è abbondante e la cresta non è nelle condizioni migliori: in piena estate la si troverebbe sempre completamente rocciosa, a parte pochi tratti sul filo del ghiacciaio: la roccia sempre pulita; ora, invece, appare molto incrostata.
Per prepararci

Punta Giordani e Piramide Vincent da Punta Indren

andiamo al termine dei pochi metri di stradina che dalla funivia scende verso il ghiacciaio; ci va bene perché arriviamo al filo della neve e possiamo metterci subito gli inutili ramponi, e poi siamo riparati dal vento che appena fuori dalla stazione ci aveva infastidito parecchio. Fin dalla stazione della funivia di Alagna avevamo notato un tipo particolare, un esibizionista incredibile, che fin dal paese partiva attrezzato di tutto punto: aveva una tuta d’alpinismo integrale, della Charlet Moser, una piccozza tecnica da ghiaccio, l’imbragatura già addosso con friends, dadi e rinvii di ogni genere, un otto luccicante, il casco fuori dallo zaino; sembrava un tipo al campo base del K2 al momento della partenza. Io me ne stavo lì con i miei jeans bucati sulle ginocchia e gli scarponcini leggeri a pensare dove diavolo aveva intenzione di andare e chissà per quale via. Galis mi aveva detto: “vedrai che va anche lui alla Cresta del Soldato”. Non ci credevo, mi sembrava esibizionismo troppo ostentato per uno che andava a fare una via di III di 2 ore. Invece adesso ce lo troviamo di fianco: lui e il suo socio si preparano in fretta anche perché hanno già tutto addosso e partono per primi, una ventina di minuti buoni prima di noi, che ce la prendiamo con molta calma.
Siamo in tanti, sul limite del ghiacciaio, a prepararci per la Cresta del Soldato; e dire che io pensavo che non ci avremmo trovato nessuno. Va bene, non importa; tanto se ne vanno tutti in fretta; se sono veloci non li vediamo più, se li raggiungiamo e li dobbiamo superare su un II non dovrebbe essere difficile. Così facciamo tutto con tranquillità e alle nove e un quarto, un buon quarto d’ora dopo gli ultimi partiti prima di noi, ci incamminiamo seguendo le loro comode impronte. E’ singolare, ma tutti – siamo in quattro cordate – abbiamo un passo tale da farci arrivare all’inizio della cresta più o meno insieme. Io e Galis, ovviamente, siamo i più veloci: in una cinquantina di minuti di cammino abbiamo recuperato dai quindici ai venti minuti alle cordate che ci precedevano (vantaggi del percorso tracciato). Quello che io ho iniziato a chiamare “il dio della montagna”, ovvero quel ragazzo super attrezzato partito per primo, attacca un primo salto roccioso proprio mentre io e Galis ne raggiungiamo la base; un’altra cordata è tra loro e noi, mentre l’ultima cordata – una cordata a tre formata da una guida e due clienti – arriva poco dopo di noi: l’abbiamo superata da pochi minuti sul ghiacciaio.
Sappiamo che le prime rocce si potrebbero superare aggirandole a sinistra, ma la neve è un po’ marcia e non ci piace, così restiamo un po’ ad aspettare che le due cordate che ci precedono si spiccino lungo la roccia; è deprimente però vedere quanto sono lenti: procedono a tiri di corda con assicurazione a spalla lungo una rampa di I grado. Galis parte per seguirli, ma quando arriva l’ultima cordata e ci sfila tutti quanti lungo la neve di sinistra, decidiamo di fare lo stesso: Galis ridiscende i pochi metri che aveva già arrampicato e insieme, io in testa, seguiamo la guida – che ancora però non sapevamo tale – lungo la neve. Arriviamo al di sopra del salto roccioso poco prima delle altre due cordate. Per la cronaca: ci accorgeremo solo qualche minuto più tardi che il capocordata del gruppo che ci aveva superato era una guida; e solo più tardi ancora capiremo che si trattava di Silvio Mondinelli, uno dei più forti e famosi himalaisti italiani.
E’ a questo punto che per me iniziano i problemi: tanto per cambiare alla prima uscita dell’anno in alta quota – strano però per me iniziare subito a 3400 metri – soffro la quota e inizio a sentire un po’ di nausea; per tutta la giornata gli effetti della quota andranno peggiorando, tanto che non riuscirò a bere nemmeno una goccia d’acqua e tanto che nemmeno una volta ridisceso a Alagna riuscirò a sentirmi meglio, se non dopo un paio d’ore buone.
La cordata

Andrea sulla Cresta del Soldato

della guida procede normalmente in cresta; noi, invece, per un momento ci fermiamo sulle prime rocce per toglierci i ramponi (siamo stati gli unici a usarli) e sistemare la corda: la teniamo di una decina di metri. Le altre due cordate, invece – ci accorgiamo che sono insieme – sono ferme al termine del primo salto roccioso, non capisco a fare cosa. Ripartiamo e raggiungiamo la cordata che ci precede su un nuovo salto di roccia; ci chiedono se vogliamo passare; per il momento rimaniamo dove siamo, ma appena finito il salto e raggiunto un nuovo filo di cresta nevosa li superiamo senza farli rallentare. A questo punto siamo noi davanti, poi la cordata della guida e poi le due col “dio della montagna”. Io sto sempre peggio e non posso accelerare il passo: rimaniamo sempre a stretto contatto con la guida prima di tutto perché non riesco a non fermarmi ogni minuto per farmi passare il mal di testa, e poi perché le poche chiacchiere che scambiamo con la guida ci sono utili per scovare con facilità la linea di salita migliore che – anche se è vero che è quasi sempre ovvia – in un paio di tratti poteva anche condurre a ravanamenti indesiderati – tipo su un II+ invece che su un II-. E poi faceva bene sapere con certezza di essere nel posto giusto. Siamo davanti dai venti ai cinquanta metri e ci fermiamo ad aspettarli dopo ogni tratto in cui sappiamo che la guida farà assicurazione ai clienti: in questo modo rimaniamo a contatto stretto e non li rallentiamo mai. Le altre due cordate, invece, rimangono sempre più in dietro.
Tutta la cresta è un’alternanza di fili di neve, salti rocciosi e semplici tracce per sfasciumi; a volte la neve da fastidio e minaccia un po’ la sicurezza, ma nel complesso le cose vanno sempre per il meglio. L’arrampicata tocca appena il II, forse II+, e alcuni salti rocciosi sono davvero divertenti,

Mirko sulla Cresta del Soldato

un paio strapiombanti di ottime lamone manigliate. Il tratto più bello dell’intera cresta è una placca levigata ai tre quarti di via che le relazioni danno di III-, ma che a me è sembrata più difficile, almeno di un grado; non so se sia perché l’ho affrontata nel posto sbagliato o perché l’appannamento fisico me l’ha fatta trovare brutta. La placca è da affrontare sempre lungo il suo margine sinistro, in prossimità del suo evidente spigolo; si inizia a salire dalla base per tre o quattro metri fino ad una nicchia piccolissima in cui si può sistemare un’assicurazione decente: un chiodo permette di assicurarsi e c’è persino la possibilità di integrare la protezione con un buon friend numero 2. Sono davanti io, qui, e arrivato alla nicchia faccio salire anche Andrea, assicurato al chiodo; quando arriva sistemiamo anche il friend – lo aveva lui – e dalla scomoda sosta riparto ancora io per affrontare la placca vera e propria. Un secondo chiodo protegge ulteriormente il tiro un metro e mezzo più sopra, poi basta; la placca è liscia e compatta, saponosa a tratti, e con gli scarponcini con le suole ancora nuove e rigide riesco a sfruttare le piccole scagliette che permettono di risalirla. Arrivato al termine di quei sei o sette metri faccio sicura a spalla per Galis: non c’è di meglio ma sono in un posto sicuro e ben piazzato. Andrea sale non senza difficoltà: con i Koflach deve avere più problemi di me, ma almeno fisicamente sta bene. Le altre tre cordate, intanto sono arrivate insieme: la guida arriva alla nicchia proprio mentre Galis sta ripartendo; vedo che anche lui fa sosta nello stesso punto e inizia a fare salire i due clienti quasi simultaneamente. Quasi mi spavento quando vedo il “dio della montagna” che attacca il tiro proprio dietro all’ultimo dei due, al pensiero di come crede di fare a stare in sosta su quella nicchia microscopica già troppo angusta per due persone, figuriamoci per quattro. Non rimaniamo, però, a vedere la scena e ripartiamo appena mi sono riposato abbastanza.
C’è da dire che questo è stato il tratto in cui mi sono sentito meglio, perché l’attenzione che mi è stata necessaria ha tolto completamente il ricordo del malessere fisico; adesso, invece, che siamo tutti e due in cima alla placca sto male di nuovo; cerco di vomitare ma ho lo stomaco completamente vuoto e non ci riesco.

Mirko e Andrea in cima alla Giordani

Poco per volta, però, cerco di farmi forza; lasciamo le altre cordate alla loro placca e ripartiamo in direzione della cima. La raggiungiamo dopo un’altra mezz’ora e qualche fotografia. La guida arriva più di venti minuti dopo. Delle altre cordate nemmeno l’ombra. In tutto abbiamo impiegato tre ore da Punta Indren di cui due di cresta. Sono molto sorpreso di constatare come un tipo in blue jeans in piena crisi di vomito abbia potuto rispettare i tempi delle guide e dare quasi un’ora di distacco al “dio della montagna” dell’ultima cordata. In condizioni normali, ovvero con meno neve e con il giusto acclimatamento, io e Galis potremmo ripetere la stessa via in un paio d’ore, senza troppi sforzi. Mi fa piacere poi constatare che di conserva possiamo andare bene: la cosa ci sarà utile a breve.
Nel complesso abbiamo fatto una bella via, divertente; peccato che nelle mie condizioni non ho potuto goderla come avrei voluto, ma andrà meglio la prossima. C’è una cosa sopra a tutte che non mi piace, il fatto di averla vissuta così distrattamente, da lontano, senza vedere veramente dove mi trovavo e cosa facevo; è strano dirlo, ma il vivere quella salita mi aveva dato la sensazione di trovarmi come in un sogno, sospeso e distante, senza iniziativa, assente; lo star così male fisicamente mi aveva a tal punto tolto le forze che ogni cosa in più dell’inerzia della salita non ero in grado di farla; è incredibile pensare come mi costasse meno fatica arrampicare piuttosto che muovere un braccio per prendere in mano la macchina fotografica. Ad ogni modo il punto che non mi piace è che ogni azione richiesta da un’emergenza non sarei stato in grado di compierla, ogni reazione a un pericolo; sapevo benissimo, razionalmente, di essere in condizioni di sicurezza pressoché nulle da questo punto di vista, ma non potevo farci niente e mi adeguavo compiendo ogni movimento d’arrampicata con calma e attenzione.
La discesa lungo la normale è semplice e completamente priva di difficoltà, ma mi costa sempre fatica. La guida riparte dalla cima quasi subito, noi invece restiamo ancora: non solo prima eravamo rimasti ad aspettarla, ma anche dopo che se ne era andata con i suoi clienti, perdiamo qualche altro minuto per metterci i ramponi. Sempre con la dovuta calma. Partiamo con cinque minuti di ritardo sulla prima cordata, intanto le due che ancora mancano in vetta continuano a non vedersi. Raggiungiamo la guida molto presto e facciamo tutta la discesa dietro la sua cordata, ad eccezione di una piccola deviazione: facciamo direttamente un pendio ripido che i tre avevano deciso di aggirare sulla destra. Arriviamo lentamente a Punta Indren intorno alla una e mezza; ci fermiamo a lungo sui sassi prima della stazione; Galis nel frattempo sistema la sua roba, io invece non ce la faccio e rimango accovacciato per un po’; mi riscuoto solamente quando mi accorgo che mi gira troppo la testa e per un attimo vedo annebbiarmisi la vista. Vado nel locale della funivia a sistemare la mia roba, al riparo dal vento; intanto Galis finisce con la sua e mi raggiunge in tempo per prendere la funivia delle due.
Spero di migliorare scendendo, ma vedo che come non ero migliorato passando dai 4000 della cima ai 3200 di Punta Indren, non sto meglio nemmeno una volta a Alagna. Il passaggio repentino in poche ore dai 300 metri di casa ai 4000 della Giordani alla prima uscita stagionale mi è stato davvero fatale.
A Alagna ci sono ad aspettarci Barbara e Tiziana, sedute al sole di una piazza, di fianco alla fontana in centro al paese. Tiziana è lì a prendere il sole, Barbara ha in mano una rivista di enigmistica; si lamentano perché sono arrivate lì da poco e dicono che siamo scesi troppo presto: è la prima volta che arriviamo secondo gli orari prestabiliti e erano sicure che saremmo arrivati più tardi. Rimaniamo lì parecchio, facciamo un paio di foto insieme, restiamo al sole. Galis compra un libro di Gnifetti. Io riesco a bere qualcosa: sto un po' meglio solo adesso. Poi facciamo un giro per il paese insieme e ci fermiamo parecchio nella piazza principale dove è in corso una bella manifestazione a cui partecipano numerosi gruppi di danze folcloristiche arrivati da tutta Europa: non solo dall'Italia, ma anche dalla Francia, dalla Spagna, dalla Scandinavia, dal Kazakistan, dalla Polonia... E' splendida la danza dei coltelli del gruppo di Kazaki.
Partiamo per il ritorno solo alle cinque passate.


Mirko Sala Tesciat
1998

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