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di
Maurizio Corsetti
KABUL
- Rahimullah
figlio di Habibullah spinge il lurido portone in legno del
cimitero cristiano, e il suo primo pensiero è per chi l'ha
preceduto e non può raccontarlo. «Khalid faceva il
guardiano, come me, e una sera i Taliban l'uccisero. A quel
tempo il muro di cinta era basso. Si prese una fucilata in
testa. Non importa che Khalid fosse un perfetto musulmano e
pregasse Allah
cinque volte al giorno. Per i Taliban, avere a che fare con
i cristiani era peggio che essere atei».
Da
allora, e sono ormai quattro anni, il muretto giallo che
disegna il perimetro delle tombe del "dio
sbagliato" è alto più di due metri. Rahimullah fa la
guardia e dice che
la pietà umana, così come un'offerta di cinque dollari («Vivo
di elemosina, signore») non hanno la presuntuosa esattezza
del dogma religioso: «Ogni essere umano che muore ha
diritto al rispetto, appartenga egli al vostro Dio o al
nostro. E io ho bisogno di mangiare».
Questo è forse il luogo in cui gli studenti coranici
impazziti sfogarono il loro spregio con la massima intensità.
E siccome i Taliban erano specialisti nell'ammazzare, e qui
erano già tutti morti (a parte il guardiano, per il quale
rimediarono in fretta), ecco che trovarono il modo di
offendere anche i cadaveri. Come, lo indica l'ampio gesto di
Rahimullah quando dal mantello sbuca una mano che sembra di
statua: «Loro misero quel tubo sopra queste tombe». Lo
scarico parte dalla fognatura delle casupole sul lato più
corto del muro, e rovescia il liquame puzzolente proprio
sopra il camposanto. L'acqua va a cadere sulla lapide del
tenente dei lancieri Cecil Gaisford, «ucciso in azione» si
legge, il 14 dicembre 1879. Ma gli schizzi non risparmiano i
resti del capitano John Hursey, morto in battaglia tre
giorni prima, e neppure evitano di sporcare la lapide di
Giovanni Leoni, 23/7/1952 - 11/8/1972: uno dei quattro
italiani sepolti in questo Spoon River della vergogna.
Più in basso c'è un secondo tubo di scarico. «Ma da lì
esce meno acqua» racconta Rahimullah, che non conosce
neppure la sua età esatta. «Ho circa sessant'anni», dice
il custode del cimitero più triste del mondo. Non un filo
d'erba né un fiore. Alberi stecchiti, lapidi spezzate,
tombe senza nome. «C'erano statue e targhe di bronzo: hanno
portato via tutto». Ma alcune date restano. Gli anni di
nascita e morte incisi sulla pietra raccontano storie di
ragazzi dimenticati, quasi tutti tra i venti e i trenta,
arrivati chissà come fin qui e chissà come scomparsi dal
mondo. Tra i solchi riarsi dal sole, un'altra tomba
italiana: solo un nome, Ottavio, e un pezzo di data: 1968.
Il resto è stato rubato. Nell'altro lato del camposanto, in
tutto 168 tombe, c'è una lapide dove si legge: Ennio
Bonaveglio, 2/11/1949. La furia dei ladri di Allah ha
risparmiato il disegno di un angelo con una piccola palma.
Tra Ennio e Ottavio, il quarto italiano sepolto qui. Si
chiamava Vincenzo Gliubich, e almeno lui non
morì ragazzo: 1899-1950.
Tra le tombe dimenticate sono venuti anche i soldati
italiani, gli uomini del genio guidati dal capitano Giuseppe
Boffa e un gruppo di incursori del Col Moschin. «Vedremo di
mettere a posto quell'orribile conduttura, e scaricheremo
l'acqua all'esterno» dice il capitano. I suoi militari
camminano tra le lapidi e leggono le date. Nessuno ha voglia
di parlare. Solo Rahimullah continua il suo racconto. «Ora
dormo in una baracca appena fuori dal cimitero e mi
piacerebbe avere un tetto più solido sulla testa. Tanti
vengono a fare promesse, poi nessuno ritorna». Dicendolo
mostra un quaderno nero su cui ha scritto nomi e cognomi dei
visitatori europei, quelli dei 5 dollari e via.
«Ho anche scavato un pozzo sperando di trovare un po'
d'acqua: un giorno vorrei vedere l'erba tra queste tombe.
Però mi sono fermato al sesto gradino, sono vecchio, da
solo non ce la faccio». Lapidi spezzate riflettono la luce
della sera che scivola morbida dalla coliina di Kalai
Fatullah. Sulla pietra, altri nomi e altre storie. Eberard
Butow che morì nel '74 a soli sette mesi. Ritchie Dwight,
«auto accident in Kandahar». Charles e Wendy, vent'anni,
morti insieme il 4 settembre 1971. Andrew Flahant, meccanico
della delegazione archeologica francese, ucciso nel 1936.
Dormono sulla collina, baciati dal sole e dall'acqua di
fogna.
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