Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali
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Assuntina Morresi,
Il Foglio, 16.03.2007 Per leggere l'articolo fai clic qui: 20070316_morresi_bambini_terminali.pdf
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Aborto: «Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali», Assuntina Morresi, Il Foglio, 16.03.2007. «Sta a Minneapolis […] uno dei quaranta hospice perinatali ai quali ci si può rivolgere per essere accompagnati e sostenuti quando il figlio che si ha in pancia ha una malattia genetica “incompatibile con la vita”, un figlio che sicuramente morirà prima o poco dopo la nascita. […] Gli hospice sono estranei alla logica pro choice contro pro life, e molti non sono neppure affiliati a movimenti antiabortisti: propongono solamente di sostenere le famiglie in circostanze così drammatiche, di aiutare a vincere l’isolamento che inevitabilmente arriva, quando amici e familiari non sanno più cosa dire per confortare, insegnano come spiegare a fratellini e sorelline che il nuovo arrivato non crescerà con loro, e soprattutto “ci hanno dato la possibilità di capire che questo non è qualcosa al di fuori dell’ordinario, che questa è la vita e che le persone perdono i propri figli”. […] Alaina Kilibardas ha la trisomia 18, e fa parte di quel 10 per cento di bambini con questo tipo di malattia che sopravvive oltre i due mesi. Adesso ne ha venti, e i suoi genitori sanno che difficilmente arriverà all’età prescolare. […] “La sua vita sarà quel che sarà, se vive due settimane questa è la sua vita. È la nostra bambina”, dice il padre». |
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INTERRUZIONE
VOLONTARIA DELLA RAGIONE
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Dopo
l’ennesimo caso in cui i medici hanno mostrato la loro fallibilità, si è
tornati a parlare di aborto e di legge 194. A Firenze, infatti, un
errore nella diagnosi su un feto ha condotto i medici e la madre a praticare
un’interruzione di gravidanza alla ventiduesima settimana. Il bimbo è
sopravvissuto e non aveva alcuna malformazione. Provava dolore, piangeva e
respirava autonomamente. Era perfettamente vivo e per questo forse ha dato
così tanto fastidio e ha suscitato così tante domande. I dottori lo hanno
rianimato, sebbene in ritardo. È riuscito a rimanere in vita per sei giorni.
Per evitare il “rischio” che altri feti resistano all’aborto, Veronesi propone di abbassare il limite massimo per l’interruzione volontaria di gravidanza da ventiquattro a ventidue settimane. Il San Camillo di Roma invece avanza l’ipotesi di far firmare alla donna un consenso informato, per rinunciare alle cure nel caso il piccolo sopravviva, in modo da raggiungere l’obiettivo: la soppressione del feto. L’approccio alla vita e alla morte è dunque ridotto a un mero tecnicismo legislativo o relegato alla decisione soggettiva della madre, che sollevi i medici da ogni responsabilità. Soluzioni comode che non impegnano la ragione nella fatica di riconoscere l’evidenza: la vita di quel feto di ventidue settimane non è un’opinione, non appartiene all’esercizio della dialettica, ma è una realtà visibile a tutti. Negli hospice statunitensi questo è chiaro, addirittura nel caso di feti malformati. Le famiglie con bambini malati e destinati alla morte poco dopo la nascita sono accompagnate nel portare a termine la gravidanza e nel compiere così un’esperienza incomparabilmente più umana. Non si tratta di difendere l’ideologia del pro life, ma quell’uso ampio della ragione che non censura nessun aspetto della realtà. Anche se doloroso. |