Karl Marx
(da Cioffi e altri, I libri di diàlogos , vol. E, cit, p.64 sgg.)
Genesi e destino del capitale
La specifìcità storica del capitalismo
"Il capitale - osserva Marx - non ha inventato il pluslavoro": ogni situazione storica caratterizzata dal monopolio dei mezzi di produzione ha visto il lavoratore costretto a conferire al padrone - fosse esso l’aristocratico greco o quello romano, il feudatario europeo o il negriero americano - una quota del proprio tempo di lavoro (basti pensare alla corvée medievale, in cui tale fenomeno appare nella forma della prestazione istituzionale e separata). Ma è nel sistema capitalistico - modo di produzione dominato dai valori di scambio, non dai valori - che il "bisogno illimitato di pluslavoro" sorge ~<dal carattere stesso della produzione". Il capitalismo, dunque. costituisce una realtà economica e sociale qualitativamente diversa da quelle che l’hanno storicamente preceduta.
Il dominio della valorizzazione del capitale fondato sull’estrazione di plusvalore presuppone determinate condizioni storiche, e precisamente: la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione (terra e strumenti) e quindi la necessità di vendere la loro forza-lavoro; la libera disponibilità della forza-lavoro, ovvero l’eguaglianza giuridica di capitalista e operaio come condizione del loro incontro quali scambisti sul mercato. Si tratta di condizioni non puramente economiche, ma insieme sociali e giuridiche, che si danno nella loro forma compiuta solo con la società moderna borghese capitalistica e la cui formazione va indagata storicamente come genesi del capitalismo stesso. Qui vige la separazione, la scissione: del lavoro dal capitale, del lavoratore dai mezzi di produzione e dal prodotto, dell’uomo dall’altro uomo e dalla comunità. Ora - afferma Marx - è proprio tale separazione che va spiegata, non l’unità che caratterizza il rapporto originario tra uomo e natura, uomo e uomo: "l’uomo si isola soltanto attraverso il processo storico".
L’accumulazione originaria del capitale
Marx ricostruisce la genesi del capitalismo come processo di dissoluzione delle condizioni operanti nei modi di produzione antichi (tribale, romano, germanico) e in quello feudale: modi storicamente differenziati, ma accomunati da un rapporto diretto con la terra <(quale condizione naturale di produzione", con gli strumenti (lavoro artigiano) e dal fatto che la relazione dell’individuo con la produzione e con la proprietà è variamente mediata dalla comunità. La figura del lavoratore libero, isolato, che in quanto tale si presenta sul mercato nasce dal lungo processo storico che ha determinato la dissoluzione di quei rapporti. Questo dal lato del lavoro; se si guarda poi la cosa dal lato del capitale e delle condizioni della sua formazione, è ancora la considerazione storica che permette di affrontare il problema della cosiddetta accumulazione originaria: "Denaro e merce - scrive Marx nel Capitale - non sono capitale fin da principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale". Marx contesta la spiegazione dell’economia borghese che rintraccia questa origine nel risparmio, cioè nell’accumulazione di un capitale monetario: la disponibilità di una massa di denaro non è infatti di per sé sufficiente a spiegare il fenomeno (diversamente, anche le economie di Roma e Bisanzio avrebbero dovuto sfociare nel capitalismo). L’accumulazione originaria è in realtà l’interazione delle condizioni economiche, ma anche giuridiche, politiche e culturali che hanno condotto alla dissoluzione del modo di produzione feudale (si pensi, per esempio, al ruolo delle leggi sulle recinzioni nella formazione del capitale industriale e della forza-lavoro disponibile in Inghilterra). Il rapporto tra formazione del capitale, sviluppo delle forze produttive, condizioni storiche è circolare: non è che il capitale abbia accumulato prima i mezzi di produzione da offrire poi all’operaio che ne era privo; piuttosto, è accaduto che lo sviluppo del capitale commerciale nel XVI secolo ha aumentato la circolazione monetaria e gli scambi, creato e imposto nuovi bisogni, innalzato i prezzi, favorendo in tal modo il distacco dei lavoratori dalla propria terra e rendendo costrittivi i vincoli e le garanzie del sistema corporativo, così da determinarne la progressiva dissoluzione.
Accumulazione ed espropriazione sono dunque fenomeni correlativi: accumulazione significa che il capitale si valorizza incessantemente e impiega quote crescenti di plusvalore nella propria ulteriore
valorizzazione (riproduzione allargata). Ciò comporta una penetrazione sempre più completa del capitale all’interno della società, la decomposizione di ogni forma sociale e giuridica ancora inadeguata allo stadio di sviluppo delle forze produttive e infine l’assunzione di quote sempre crescenti di forza-lavoro sotto il dominio del capitale.
La proprietà privata dei mezzi di produzione si traduce, in quest’ottica, in incessante appropriazione privata della ricchezza sociale, in incessante espropriazione della massa della popolazione.
Le contraddizioni dell’accumulazione
Analizzando l’accumulazione capitalistica, Marx vi rintraccia alcune tendenze contraddittorie, la più importante delle quali è la legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto. La necessità di aumentare incessantemente la produttività del lavoro conduce a investimenti tecnologici sempre più massicci e quindi all’aumento della composizione organica del capitale (crescita più che proporzionale del capitale costante rispetto a quello variabile); poiché, come sappiamo, solo il capitale variabile produce plusvalore, il saggio di profitto, misurato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale globale, tenderà a diminuire. Marx stesso enumera alcune "cause antagonistiche, che contrastano o neutralizzano l’azione della legge generale, dandole il carattere di semplice tendenza": l’intensificazione del grado di sfruttamento del lavoro; la riduzione dei salari al di sotto del valore della forza-lavoro; la creazione (per effetto della diminuzione di occupazione conseguente al progresso tecnico) di un "esercito industriale di riserva", cioè di una massa di lavoratori disoccupati in concorrenza con quelli occupati, con l’effetto di spingere verso il basso i salari; la diminuzione del valore del capitale costante per effetto dell’aumentata produttività del lavoro e della possibilità di reperire materie prime a costi più bassi attraverso il commercio estero. Rimane il fatto che tale legge tendenziale è da Marx prospettata come una "necessità logica", conseguenza necessaria dello stesso processo di accumulazione che costituisce la ragion d’essere del capitale. Ugualmente connesse all’accumulazione sono le crisi che ciclicamente si abbattono sull’economia capitalistica, derivanti da un’offerta di beni superiore alle capacità di consumo della società e dalla sovrabbondanza di capitali in rapporto ai profitti realizzabili. Crisi che provocano distruzione di merci e di forze produttive, disoccupazione, aumento della concorrenza, e che vengono superate aumentando la concentrazione del capitale, con il fallimento delle imprese meno concorrenziali e il loro assorbimento da parte di quelle più forti. Ma questi stessi processi ripropongono poi il conflitto in forma più grave e su scala ogni volta più ampia, mentre si accrescono la forza, la compattezza e la coscienza politica dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
II capitalismo, una realtà destinata a essere superata
Queste "previsioni" mostrano come Marx proponga un’interpretazione del capitalismo come realtà intrinsecamente contraddittoria, in quanto fondata sullo sviluppo delle forze produttive non in vista della soddisfazione dei bisogni sociali, ma della realizzazione di plusvalore e dell’autovalorizzazione del capitale; in questa realtà, la ferrea logica organizzativa della fabbrica è accompagnata da una sostanziale "anarchia della produzione" a livello generale; nessuna "mano invisibile" provvede ad armonizzare gli interessi, ma l’evoluzione stessa del sistema porta inevitabilmente con sé lo spreco, la distruzione di ricchezze, l’impoverimento di larghe masse a fronte di una ricchezza sempre più concentrata. Marx enfatizza la straordinaria funzione storica e civilizzatrice assolta dal capitalismo, con l’enorme espansione delle forze produttive e l’universalizzazione dei rapporti economici e sociali. Tuttavia riscontra nel capitalismo stesso un limite invalicabile, poiché lo sviluppo universale delle forze produttive, che fa del capitale una "potenza sociale", è in contraddizione con "il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione". Tale contraddizione implica secondo Marx la "dissoluzione" del capitalismo, che appare in questa luce come un "punto di transizione" verso "condizioni di produzione comuni, sociali, generali", verso un’organizzazione economica e sociale in cui la produzione e la distribuzione della ricchezza siano soggette alla decisione cosciente dei "liberi produttori associati".
A ognuno secondo i suoi bisogni
Rifiutandosi di "prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire", Marx non ha mai espressamente teorizzato le caratteristiche economiche e giuridiche della futura società comunista, e anche sul tema della "transizione" a tale società ha fornito indicazioni sempre collegate a specifici momenti o problemi della- lotta politica del movimento operaio. Nella più celebre ditali prese di posizione marxiane, la Critica del programma di Gotha (1875), vengono prospettate due fasi di realizzazione della società comunista: la prima è la fase di trasformazione rivoluzionaria, caratterizzata, sotto il profilo politico, dalla "dittatura del proletariato" e, sotto il profilo economico, dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e dalla distribuzione della ricchezza in proporzione del lavoro prestato da ognuno.
Benché non esistano più le classi, questa è una società comunista "non come si è sviluppata sulla propria base, ma come emerge dalla società capitalistica" e ne conserva quindi talune caratteristiche negative: in primo luogo il diritto astrattamente uguale nella distribuzione, che fatalmente riproduce le disuguaglianze di attitudini e capacità tra gli individui. Questo "angusto orizzonte giuridico borghese" potrà essere superato solo in una seconda fase, quando gli individui non saranno più asserviti a un lavoro diviso e avranno potuto realizzare il loro "sviluppo onnilaterale", accrescendo insieme le forze produttive sociali; solo allora il motto di questa società potrà essere: "Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni".
I punti chiave
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