Se Timore e tremore e Il concetto dell'angoscia segnalano il congedo dall'etica, le ultime quattro opere pseudonime sviluppano la "resa dei conti" critica con la filosofia speculativa e tracciano le linee di una nuova filosofia dell'esistenza, ponendo lo stadio religioso come ultima e più alta sfera dell'esistenza stessa. Si tratta delle Briciole di filosofia e della Postilla conclusiva non scientifica di Johannes Climacus, seguite da La malattia mortale e dall'Esercizio del cristianesimo di Anti-Climacus.
La disposizione e il significato degli pseudonimi rivelano il rapporto di Kierkegaard con queste opere e con le modalità di esistenza in esse delineate. Climacus è mutuato dal soprannome del monaco bizantino Giovanni (VI secolo) autore dell'opera ascetica Scala Paradisi (in greco, Klimax tou paradeisou): lo pseudonimo indica dunque l'aspirazione, la tensione verso l'ascesa. Climacus non è cristiano, ma si pone il problema della verità e del cristianesimo, del rapporto fra ragione e Assoluto. Di contro, Anti-Climacus è il "cristiano straordinario", che ha già compiuto il movimento dell'ascesa.
La posizione esistenziale di Kierkegaard è intermedia fra queste due figure (e infatti egli si firma come editore di queste opere): "nel contrasto Climacus-Anti-Climacus io riconosco me stesso e la mia natura". Kierkegaard si pone "un po' più in alto di Climacus, un po' più in basso di Anti-Climacus", nella posizione di chi ha già compreso che l'autentica verità è nel rapporto con il trascendente, ma non ha ancora compiuto il passaggio decisivo in questa dimensione.
LA CRITICA DELLA FILOSOFIA HEGELIANA
La tonalità polemica antihegeliana è già trasparente nei titoli delle prime due opere: le briciole di filosofia e la loro postilla non scientifica ironizzano sul "Sistema" e sulla sua pretesa di una comprensione razionale della totalità.
Il punto decisivo di dissenso con Hegel è che, per Kierkegaard, "un sistema logico è possibile, ma non è possibile un sistema dell'esistenza". Infatti nella logica, che è la sfera del pensiero puro, non può esservi movimento, mentre l'esistenza è precisamente continuo divenire.
E infondata, secondo Kierkegaard, la pretesa hegeliana di dedurre il divenire dalla dialettica di essere e nulla, nei primi paragrafi della Logica: essere e nulla sono pura quiete, e da essi non può dunque sorgere il divenire. In realtà, il pensiero non è privo di presupposti: esso presuppone l'esistenza. Lo sforzo dell'astrazione, per quanto condotto al suo massimo grado, non può mai eliminare il fatto che l'astrazione stessa è l'atto di un esistente.
Il tema di fondo della critica kierkegaardiana è che l'essere non può venire dedotto dal pensiero.
Il pensiero astratto e oggettivo, nella pretesa di comprendere razionalmente l'esistenza sub specie aeterni, la fraintende completamente. L'esistente non si lascia pensare. L'esistenza "è sempre la realtà singola, l'astratto non esiste". Non appena viene ricondotta nell'universalità del pensiero astratto, l'esistenza si volatilizza: essa è movimento, contraddizione, discontinuità, possibilità, e non può essere compresa nelle categorie della mediazione e dello sviluppo necessario dell'idea. Perciò il pensatore oggettivo, il filosofo speculativo, parla della vita, ma non vive. Raggela la vita nel pensiero, nella comprensione razionale, mentre l'esistenza è "passione infinita" e "interesse", quelli propri di ogni Singolo infinitamente interessato al proprio esistere (vedi TESTI, Unità 9 - testo 5).
La verità come appropriazione soggettiva dell'interiorità
Il sistema è identità di soggetto e oggetto, di pensiero ed essere: "l'esistenza è invece precisamente la separazione".
Ciò non vuol dire che essa escluda il pensiero: Kierkegaard, come Hegel, vede l'esigenza del superamento dell'immediatezza. Tutto il percorso dell'esistenza è riflessione, è dialettica. Ma l'esistenza richiede, per essere pensata, "un esistente concreto che si rapporti in concreto alla verità", un pensatore soggettivo, che accolga nel pensiero il proprio dell'esistenza, la sua ambiguità costitutiva.
Che cos'è infatti l'esistenza? "E quel bambino che è generato dal finito e dall'infinito, dal tempo e dall'eternità, ed è perciò sempre aspirante", come l'Eros del Simposio platonico.
La verità, allora, non è qualcosa di oggettivo che debba essere raggiunto, non è identità astratta di pensiero ed essere: "la verità è soggettività", cioè appropriazione di una interiorità autentica. Appropriarsi la verità significa divenire se stessi, dunque la soggettività non è un dato, ma un compito che va realizzato, un'aspirazione.
La via verso la verità e la dialettica qualitativa
Come può avvenire questo movimento verso la verità?
Intanto, il fatto che l'esistente ponga la questione della verità indica già che egli è nella non-verità. Qui Kierkegaard vede il limite del socratismo e la necessità di andare ol-tre esso. Per il maestro Socrate ciascuno porta la verità dentro di sé, e dunque l'appropriazione di essa è un atto di reminiscenza. Per Kierkegaard, invece, il Singolo è fuori della verità: l'appropriazione richiede dunque una rottura, un salto, una discontinuità rispetto all'immanenza, che è non-verità.
Vi è una differenza assoluta fra uomo e Dio, finito e infinito: "Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno. L'uomo pensa ed esiste e l'esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l'uno dall'altro nella successione". Si possono mediare differenze relative, non la differenza assoluta, Hegel tenta di assorbire la coscienza finita nel movimento dell'infinito, di ricomprendere il relativo nel movimento dell'Assoluto: la sua è una dialettica quantitativa, in cui le differenze di grado sono ogni volta ricapitolate nella continuità del processo.
Ma l'Assoluto è assolutamente Altro, è trascendenza:
perciò la via del Singolo verso l'assoluto non può che essere una dialettica qualitativa, in cui ogni posizione esistenziale è rottura rispetto alle altre.
La decisione e la ripresa come categorie dialettiche
Le categorie fondamentali di questa dialettica sono la decisione e la ripresa.
Nella decisione il Singolo compie il salto, la scelta in favore dell'infinito che è in lui; nella ripresa egli realizza la sua vera essenza, riprendendo il suo passato in vista dell'avvenire: la vera ripresa, infatti, è "un ricordare procedendo", mentre nella reminiscenza greca "ciò che si ricorda è stato, ossia si riprende, retrocedendo".
Le diverse posizioni dell'esistenza attuano tale dialettica in modi differenti.
Per l'esteta, che non conosce la decisione, la ripresa è impossibile, e si risolve nel vano tentativo di attualizzare il passato nella ripetizione del momento.
Nella vita etica vi è scelta e vi è ripresa, cioè continuità dell'Io nella sfera dell'immanenza, il cui limite abbiamo già descritto. Solo nell'accettazione della trascendenza, quindi nella decisione in favore della fede, la ripresa si configura come una vera "rinascita". Solo il rapporto con l'Assoluto genera un uomo nuovo, che ha scelto sino in fondo la propria infinità e quindi ritrova la propria essenza.
Nella dialettica qualitativa - ironizza Kierkegaard - uno stadio non "inghiotte" il precedente "come il titolo di cavaliere assorbe quello di commendatore". Ogni stadio ha autonomia propria e il passaggio dall'uno all'altro non è necessità di sviluppo della ragione, ma possibilità della decisione. Vi è un movimento verticale di ascesa e il passato viene ripreso, ma la disgiunzione qualitativa dell'aut-aut è sempre aperta. La sintesi è provvisoria, mantiene sempre in sé i termini della contraddizione. Leggiamo nella Malattia mortale che l'Io "è un rapporto che si rapporta a se stesso": non puramente rapporto di anima e corpo, infinito e finito, eternità e tempo, ma coscienza di questo rapporto, unità riflessa e sempre dialettica.
LA DISPERAZIONE, IL PARADOSSO, LA FEDE
La disperazione è la condizione esistenziale che l'uomo incontra nel suo rapportarsi a se stesso: nella Malattia mortale, Kierkegaard torna a riflettere su una situazione che aveva già descritto in Aut-aut come momento dialettico terminale della vita estetica.
Ora la disperazione è vista come radice della condizione esistenziale propria dell'uomo in quanto tale.
La disperazione è malattia mortale non perché dia la morte, ma anzi proprio in quanto in essa l'individuo prova il tormento "di non poter morire".
La disperazione accompagna tutta la vita e costringe l'Io a vivere la propria morte spirituale. Perciò l'Io dimora costantemente nella disperazione, anche quando non se ne accorge, anche quando è felice, perché la disperazione abita "nell'intimo dell'anima, nel nascondiglio più segreto della felicità". Apparentemente l'uomo si dispera per una cosa determinata, ma in verità non è così: la disperazione è sempre di se stessi.
Se un ambizioso non raggiunge il potere, non è disperato per il potere che non ha, ma per il suo Io, che gli è divenuto insopportabile: "vorrebbe sbarazzarsi di se stesso" ma non può, perché l'eterno che è in lui non può essere spento. La disperazione nasce dal fatto che "quell'Io, che egli disperatamente vuole essere, è un Io che egli non è". Dunque, alla base della disperazione c'è un fraintendimento: il fatto che l'uomo non accetta la propria natura di essere derivato, di essere posto da altro. "Il disperato vuole separare il suo Io dalla potenza che l'ha posto".
Da qui si generano lo squilibrio, la mancanza della sintesi e lo svanire della speranza, il disperare. Così, il disperato cerca l'infinito attraverso l'illusione del pensiero e della fantasia, negandosi come finitezza; o al rovescio, si getta a capofitto nel finito della temporalità e della mondanità, negandosi all'infinità. Corrispettivamente, vive nella possibilità pensata come infinita, fuori della realtà; o piega il capo sotto il giogo della necessità, nel fatalismo e nel determinismo.
La disperazione "per non voler essere se stessi" e "il voler essere disperatamente se stessi", assolutamente padroni di se stessi, sono le forme di una medesima malattia.
L'accettazione del paradosso e la decisione eterna
La via d'uscita dalla disperazione - che si identifica col peccato - consiste nella decisione eterna del credere: con questa decisione "l'Io si fonda in trasparenza nella potenza che l'ha posto". Il Singolo, "proprio lui, il suo Io", sta davanti a Dio: è questa la conquista dell'infinità "che non si raggiunge se non attraverso la disperazione".
La disperazione è un fatto vissuto nella coscienza, cresce qualitativamente con il crescere di questa. Quanto più il Singolo è cosciente della propria disperazione, tanto più è vicino a Dio e insieme consapevole della propria lontananza da esso. Ma alla soglia della decisione infinita, il passaggio avviene attraverso l'accettazione del paradosso, di ciò che precisamente ripugna al pensiero. "L'idea della filosofia è la mediazione, quella del Cristianesimo è il paradosso" dice Kierkegaard.
Cristo stesso è il paradosso, perché è l'eterno venuto nel tempo, l'istante che è "la pienezza del tempo". Che l'eternità si faccia tempo in un esistente è una contraddizione che il pensiero non può accettare.
Cristo come segno di contraddizione
La non accettazione del paradosso è lo scandalo: "la vera ragione per cui l'uomo si scandalizza del cristianesimo è che esso è troppo alto".
L'uomo, da solo, non può nulla: non può che essere peccato e disperazione infinita, se Dio non si muove per amore a colmare l'abisso. Dio si abbassa in Cristo verso l'uomo, diviene Maestro, Redentore e Riconciliatore; viene in incognito e viene come servo; è dono gratuito di salvezza e insieme possibilità dello scandalo.
Scandalizzarsi è non accettare l'assurdo che "il peccato dell'uomo interessi Dio". Scandalizzarsi è non accettare il rischio, l'incertezza della fede, che nessuna prova storica può togliere.
La cristianità, riducendo il cristianesimo a dottrina; la filosofia, pretendendo di comprendere tale dottrina, hanno voluto abolire la possibilità dello scandalo, facendo del cristianesimo "un paganesimo amabile e sentimentale".
La boria professorale ha ridotto Cristo "all'unità speculativa di Dio e dell'uomo sub specie aeterni, mentre l'Uomo-Dio è l'unità reale di Dio e di un uomo singolo in una situazione storica reale".
Cristo non è momento di mediazione, ma segno di contraddizione: segno che risveglia, attraverso la contraddizione che è in lui stesso, l'attività di chi lo riceve in direzione della verità.