Nella vita di Søren Kierkegaard c'è un grande scarto tra l'esiguità degli avvenimenti esteriori e la complessità di un'esperienza interiore che rimane in più punti indecifrabile, nonostante le migliaia di pagine del Diario e i numerosissimi spunti autobiografici presenti nelle opere. Il filosofo stesso ha voluto che così fosse: "dopo la mia morte, nessuno troverà fra le mie carte (e questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che propriamente ha riempito la mia vita".
Non si può quindi utilizzare meccanicamente la biografia di Kierkegaard per spiegarne il pensiero; tuttavia, quest'ultimo si può accostare solo come pensiero di "quel Singolo" che Kierkegaard avrebbe desiderato come epigrafe sulla sua tomba: l'idea di Kierkegaard è "l'Idea che ho espresso esistendo".
Accanto al rapporto con l'esperienza biografica (per la quale rimandiamo all'ampia BIOGRAFIA Vita e opere di Kierkegaard), interpretata nella sua irriducibile singolarità, un secondo elemento caratterizza la filosofia di Kierkegaard, conferendole una tonalità assolutamente originale: la teorizzazione e la pratica, costanti e ricercate, di un tipo di scrittura filosofica capace di aderire alle articolazioni e alle finalità, addirittura ai compiti, che Kierkegaard attribuisce al proprio pensiero. Possiamo dire che il primo sguardo che occorre rivolgere a Kierkegaard debba mettere a fuoco il "come" della sua filosofia, prima del "che cosa". Le scelte di scrittura, il rapporto con la scrittura, implicano profondamente il pensiero e la vita di Kierkegaard.
La sua opera è di mole enorme; di più, se si eccettuano la prima fase del Diario (iniziato nel 1833) e la dissertazione di laurea, essa si concentra in un tempo assai breve, dal 1843 al 1855. Vivere e scrivere, in Kierkegaard, coincidono. Ma il suo rapporto con la scrittura non è imme-diato: al contrario, esso è il frutto di una riflessione continua e sofferta, che si rivela, oltre che nelle pagine e nei testi espressamente dedicati a questo tema, nell'estrema varietà e ricercatezza delle forme. Come se Kierkegaard cercasse faticosamente, in odio ai "paragrafi" dei trattati in cui gli pare condensarsi il pensiero astratto e morto della filosofia accademica, una scrittura filosofica capace di riprodurre la mobilità, la concretezza, la vicinanza alla vita del dialogare socratico.
È discutibile che vi sia riuscito: tra le contraddizioni e le ambiguità della sua opera vi è anche quella di aver cercato di "imitare" i suoi grandi maestri senza scrittura, Socrate e Cristo, in un'epoca - la modernità - che lo costringeva a combattere essenzialmente attraverso la parola scritta.
Ma la tematica della comunicazione, del rapporto tra pensiero e comunicazione, è una chiave fondamentale della sua filosofia. Inizieremo perciò da questo tema la trattazione del pensiero di Kierkegaard.
Un'infanzia difficile
Il padre di Kierkegaard, Michael, era un commerciante giunto al benessere dopo una fanciullezza dura e solitaria trascorsa tra i pascoli gelidi dello Jutland. Uomo profondamente religioso, severo, "l'uomo più malinconico che io abbia mai conosciuto". Dopo la morte della prima moglie aveva sposa-to la cameriera, avendone sette figli. L'ultimo, Spren, nacque il 5 maggio 1843, quando il padre aveva cinquantasei anni e la madre quarantacinque. Kierkegaard descrive la sua infanzia come un'età infelice: si manifesta subito quel "non essere come gli altri" che costituisce la cifra della sua intera esistenza. Un ragazzo fragile fisicamente e acuto spiritualmente, lacerato da una "sproporzione fra l'anima e il corpo" che sarà sempre il suo "pungo-lo nella carne", "fin dai primissirni anni inchiodato a una forma di sofferenza confinante con la pazzia". Una sofferenza abilmente mascherata di fronte al mondo e al padre, l'uomo più amato, che lo ha reso infelice "per amore", sottoponendolo a "un'educazione cristiana, umanamente parlando direi pazza", che scambiava "un bambino per un vecchio". Che meraviglia allora - commenta Kierkegaard - "se alle volte il cristianesimo mi appariva come una crudeltà disumana? Ma non ho mai rotto col cristianesimo, né mai lo ho abbandonato; anzi avevo deciso di impiegare tutto per difenderlo ed in ogni caso per esporlo nella sua vera figura".
Gli studi universitari e il periodo della vita estetica
Nel 1830 Kierkegaard si iscrive alla facoltà di teologia dell'università di Copenaghen: impiegherà dieci anni per concludere gli studi. In questo decennio, all'esistenza tipica di un giovane e brillante intellettuale in una capitale di provincia fa da contrappunto il novello, rivelato dal Diario, di uno spi-rito malinconico e travagliato. Il peso emotivo del padre e dell'ambiente famigliare grava sul giovane Kierkegaard in modo decisivo. Le sciagure che si abbattono sulla famiglia a partire dal 1832, con la morte della madre e di tre fratelli nel giro di due anni, sono interpretate dal padre, e di riflesso da Søren, come punizione divina per una colpa commessa. Non è certo di quale colpa si tratti: forse della bestemmia pronunciata dal padre, quando era pastore, in un momento di solitudine e di disperazione; forse della relazione avviata con la cameriera, poi seconda moglie di Michael, mentre la prima moglie era ancora in vita. Ma certamente, la parziale rivelazione di questa colpa provoca in Kierkegaard il "gran-de terremoto" del 1835. cui seguono l'allontanamento dal padre e una crisi di sfiducia religiosa.
Kierkegaard, in questo periodo, deve in qualche modo fare l'esperienza di quella che poi chiamerà la vita estetica, con le sue componenti di sensualità, di dubbio e di disperazione. E un "fallo" in cui lo stesso Kierkegaard deve essere incorso (forse con una prostituta) assume per il suo spirito la portata di una colpa inconfessabile, al punto da fargli ritenere preclusa una vita "normale": il matrimonio, la carriera di pastore.
La formazione intellettuale
Dal Diario - sterminata raccolta di aforismi, appunti, riflessioni e sfoghi personali, progetti di scrittura che Kierkegaard incominciò a compilare nel 1833 ricaviamo alcune informazioni sulle sue letture, i suoi interessi, la sua formazione intellettuale.
"Ciò che in fondo mi manca - annota nel 1835 - è di veder chiaro in me stesso, di sapere "ciò ch'io devo fare", e non ciò che devo conoscere. Si tratta di comprendere il mio destino. di vedere ciò che in fondo Dio vuole ch'io faccia, di trovare una verità che sia una verità "per me", di trovare "l'idea per la quale io voglio vivere o morire"." Questo testo, emblematico non solo della fase di formazione di Kierkegaard ma dell'intero suo pensiero, ci dice con quale intenzione egli avvicini i testi e gli autori della sua biblioteca. Più che il "colosso enorme" della teologia e i "gustosi frutti" dell'albero della scienza lo interessa "scandagliare e risolvere gli enigmi" della vita interiore: la letteratura romantica (in particolare Goethe, con il Faust e il Willaelm Meister, paradigma del Bildungsroman, il "romanzo di for-mazione"), l'ermeneutica biblica, i grandi mistici, i testi pietisti, la filosofia dell'idealismo tedesco sono al centro dei suoi studi. Legge Hamann, Les-sing, Jacobi, Fichte e Schelling, conosce Hegel (ma lo approfondisce, probabilmente, solo verso la fine di questo decennio); studia Trendelenburg (del quale apprezza la critica alla logica hegeliana), Aristotele, Platone. Ritorna però costantemente a Socrate, al suo "conosci te stesso", al modo ironico e inautentico del suo filosofare. La sua diffidenza nei confronti della filosofia (è la balia asciutta - afferma - della vita: veglia sui nostri passi, ma non per allattarci) matura assai presto, come pure la sua avversione per la "teologia speculativa". Formatosi in ambiente hegeliano, con maestri orientati ad accordare filosofia e religione, ragione e fede, già nel 1835 si dice convinto che "la filosofia e il cristianesimo non si lasciano mai conciliare".
Ricerca e rifiuto della normalità esistenziale
Nell'agosto 1838, alla morte del padre, Kierkegaard prende con se stesso l'impegno di completare gli studi universitari: nel luglio 1840 si licenzia in teologia, entra nel Seminario pastorale; nel settembre 184v ottiene il grado di magister artium della facoltà di filosofia con la tesi Sul concetto di ironia con riferimento costante a Socrate (vedi TESTI, Unità 9 - testo 1). Giusto un anno prima si era fidanzato con una giovane di famiglia borghese, Regine Olsen.
Questi eventi configurano una prospettiva nuova per la vita di Kierkegaard: la laurea, il matrimonio, la carriera ecclesiastica significano una sorta di "riconciliazione con l'universale", ovve-ro con le regole di una ordinata moralità sociale, e l'abbandono della propria radicale "diversità". Ma è Kierkegaard stesso a distruggere tale prospettiva, rompendo, con scandalo di tutti, la promessa fatta a Regine (che nel 1847 si sposerà); né darà mai seguito ai reiterati propositi di ritirarsi in una parrocchia di campagna.
Il tema di Regine, profondamente amata eppure abbandonata, ritorna quasi ossessivamente in tutta l'opera di Kierkegaard, senza che tuttavia si possa avere certezza circa i motivi dell'abbandono. La consapevolezza, o il timore, della propria inadeguatezza ai compiti della vita matrimoniale; l'oppressione della colpa del padre e sua; il senso di avere un "destino" diverso e assolutamente singolare, forse una sorta di "missione" da compiere nella certezza di essere frainteso: tutti questi elementi confluirono probabilmente nella decisione. Al fondo, c'è la complessità dell'uomo Kierkegaard, che confessa: "Credo di avere il coraggio di dubitare di tutto e di lottare contro tutto, ma non di riconoscere, di avere, di possedere cosa alcuna".
Il conservatorismo politico di Kierkegaard
Certo è che la rottura del fidanzamento segna una svolta nell'itinerario di Kierkegaard: grazie alla cospicua rendita ereditata dal padre avvia un'esistenza dedita esclusivamente alla scrittura (e non priva di agiatezze), pubblicando in rapida successione, dal 1843 al 1850, tutte le sue grandi opere pseudonime, a cominciare da Aut-aut (En-en-EIler) .
Kierkegaard intende la sua opera come un servizio di testimonianza reso all'Idea, al cristianesimo. Oltre all'attività "privata" della scrittura, ciò lo impegna anche in battaglie pubbliche che segnano a fondo la sua vita e il suo già difficile equilibrio. A partire dal 1846, si trova esposto agli attacchi del "Corsaro", un giornale che ne mette alla berlina con articoli e vignette il pensiero, il temperamento, l'infelice aspetto fisico. Al fondo della polemica, che amareggia profondamente Kierkegaard, c'è il contrasto politico tra l'orientamento radicale del giornale e il conservatorismo del pensatore danese. Nelle sue uscite politiche, Kierkegaard si professa difensore della monarchia e dell'ordine costituito, attacca quello che giudica la confusa demagogia dei liberali, l'esaltazione del suffragio universale e della volontà popolare, il rivoluzionarismo quarantottesco. Il suo orientamento politico è soprattutto di manifesta sfiducia nella politica stessa; questa gli sembra incapace di cogliere il problema vero dell'uomo, che è di natura etico-religiosa. Le masse e il loro consenso - Kierkegaard parla con esecrazione di "folla" - sono anzi per lui gli elementi pericolosissimi della perdita di centralità dell'individuo e del suo valore, della sua assoluta irriducibilità al collettivo.
La battaglia contro la chiesa luterana danese
Ma la più violenta battaglia polemica è condotta da Kierkegaard contro la chiesa luterana danese, ed è la battaglia estrema della sua vita.
All'inizio del 1854 muore il venerato vescovo Mynster e il suo successore, Martensen, ne tesse l'elogio funebre come di un "testimone della verità". In un articolo, Kierkegaard attacca violentemente Martensen: Mynster non era un testimone della verità, perché la sua vita di prelato non era stata una vera imitazione di Cristo. La polemica divampa: Kierkegaard, pressoché isolato, la alimenta e la inasprisce. Fonda e redige integralmente una rivista, "Il momento", in cui si lancia in modo sempre più violento e radicale contro la burocratizzazione e la mondanizzazione della chiesa ufficiale, che tradisce, a suo giudizio, l'autentico spirito cristiano. Il cristianesimo da benpensanti che la chiesa professa non è quello autentico, che è "lotta aperta con il mondo", via "aspra" e "stretta", percorribile da pochi, è sofferenza segnata da un amore di Dio che è "nemico mortale" della naturalità immediata dell'uomo.
Il 2 ottobre 1855 Kierkegaard è colpito da paralisi e muore il successivo 18 novembre.