Kierkegaard stesso divide la sua opera in rapporto alla modalità comunicativa:
1) alla comunicazione diretta appartengono gli scritti di carattere direttamente religioso, pubblicati a sua firma (dalla serie dei Discorsi edificanti agli interventi polemici del "Momento");
2) alla comunicazione indiretta appartengono tutte le grandi opere pseudonime, e cioè: Aut aut (Enten-Eller, 1843) edito da Victor Eremita; Timore e tremore, di Johannes de Silentio, e La ripresa di Constantin Constantius (1843); Briciole di filosofia, di Johannes Climacus, e Il concetto dell'angoscia, di Vigilius Haufniensis (1844); Stadi sul cammino della vita (1845), editore Hilarius Bogbinder; Postilla conclusiva non scientifica (1846) di Climacus; La malattia mortale (1849) e Esercizio del cristianesimo (1850) di Anti-Climacus.
3) Bisogna poi aggiungere la grande massa delle carte non destinate alla pubblicazione, la cui parte più importante è costituita dal Diario.
Kierkegaard lavora costantemente su questi tre piani.
L'uso degli pseudonimi come maschere della verità
La pseudonimia, in Kierkegaard, è in realtà una polionimia e ha, come ci dice egli stesso, un rapporto "non casuale" con l'intera sua produzione. L'artificio letterario tipicamente romantico dello pseudonimo diviene in Kierkegaard un vero e proprio "teatro delle maschere" che il filosofo mette in scena e guida con regia puntigliosa. Sceglie per gli pseudonimi nomi bizzarri e al tempo stesso allusivi, vere e proprie chiavi interpretative dell'opera di cui figurano autori (ne vedremo qualche esempio trattando dei singoli testi); fa dialogare le sue maschere fra loro da un'opera all'altra, le incastra una nell'altra come in un gioco di scatole cinesi. Scopo fondamentale di questa complessa macchina è realizzare quella comunicazione indiretta che Kierke&aard ritiene l'unica in grado di parlare della verità: non si tratta, per lui, di trasmettere una dottrina compiuta ma di realizzare una comunicazione d'esistenza, che ha di mira l'attivazione, nell'interlocutore, di un poter fare. Il cristianesimo stesso, che è la più alta verità, non è per Kierkegaard dottrina, ma comunicazione d'esistenza, comunicazione che trasforma.
Il dialogo fra molteplici possibilità d'esistenza
La pseudonimia e l'ironia sono gli strumenti fondamentali di questa scelta comunicattva. Ciascuno pseudonimo esprime esistendo - sia pure solo letterariamente - un'idea: "nello stesso tempo che il libro sviluppa un'idea - annota Kierkegaard nel Diario - si viene delineando anche l'individualità corrispondente". Lo schermo degli pseudonimi non serve a Kierkegaard per proteggersi dal giudizio esterno ma per distanziare sé, il suo proprio punto di vista, da quelli espressi dalle sue maschere. In questo modo, ciascuno pseudonimo acquista l'autonomia necessaria per rappresentare una possibilità d'esistenza. Tutte queste possibilità sono presenti in Kierkegaard, ma egli non si identifica pienamente con nessuna di esse. E l'universo degli pseudonimi finisce per delineare una sorta di mappa o di geografia dell'esistenza tracciata dall'interno di figure e individualità determinate.
Contro la falsità e l'anonimato della comunicazione sociale
L'obiettivo è in primo luogo polemico nei confronti di una situazione comunicativa che Kierkegaard giudica radicalmente falsa. La falsità non dipende dalla maggiore o minore verità dei contenuti dei messaggi, ma dal rapporto tra "emittente" e "ricevente" che si istituisce nella comunicazione sociale. La situazione eomunicativa è essa stessa comunicazione; come e chi comunica è in primo luogo importante, non che cosa. Nella "modernità" regna l'anonimato, anche quando la firma compare in testa al frontespizio o in calce all'articolo, poiché il filosofo, il pastore, il giornalista non sono mai "in carattere", cioè non "reduplicano" il loro messaggio nell'esistenza: "reduplicare è essere ciò che si dice". Così, il filosofo (da Kierkegaard identificato con Hegel) costruisce il grandioso palazzo del suo sistema, ma, quanto a lui, "abita nel fienile". I grandi maestri di comunicazione sono invece Socrate e Cristo: "il merito infinito di Socrate è precisamente di essere stato un pensatore esistente, non uno speculante che dimentica ciò che è l'esistere", mentre in Cristo troviamo la verità stessa che si fa esistenza, mostrando quel paradosso che costituisce l'essenza del cristianesimo.
All'anonimato del mittente corrisponde quello del ricevente, che lo sviluppo della stampa ha trasformato nell'Io impersonale che si chiama Pubblico: "il pubblico è un astratto che non esiste". Nella realtà, esso corrisponde a quell'essere "come gli altri" in cui ogni individualità è persa in cambio della rassicurazione, poiché "la maggior parte degli uomini non ha paura di avere un'opinione errata, bensì di averne una da soli". L'estensione della comunicazione non genera maggiore chiarezza e consapevolezza, "perché più cresce la comunicazione, più tremenda diventa la confusione, più disumano e sovrumano è il compito che si pone per il singolo".
La comunicazione d'esistenza e l'autoappropriazione della verità
Dunque, per attuare una comunicazione d'esistenza in un tempo che adora il feticcio dell"'oggettività", che ha dimenticato "che cos'è esistere e che cosa significa l'interiorità", non si può usare la forma diretta, propria di quel sapere "oggettivo" che è il principale responsabile ditale dimenticanza: occorre servirsi della forma indiretta. "E alla personalità che occorre arrivare" e questo si può fare "portando degli Io in mezzo alla vita. Perché il nostro tem-po manca completamente di uno che dice: Io. Tali Io [degli pseudonimi] so-no ora bensì degli Io poetici, ma questi sono comunque sempre qualcosa". Occorre ridurre l'estensione a favore dell'intensità della comunicazione: "lo scrivere è e dev'essere un'azione e perciò un esistere personale" che si rivolge non a un Pubblico, ma al Singolo, come da esistente a esistente: "In questo pensiero ("Il Singolo" opposto al "Pubblico") è concentrata un'intera con-ezione della vita e del mondo".
Si tratta di "costringere gli uomini a diventare attenti" alla verità. La verità infatti non è approssimazione a un oggetto, ma "l'autoattività dell'appropriazione". Ecco perché Kierkegaard non fissa mai un risultato, non scrive mai il "paragrafo che conclude il sistema". Egli vuole aprire, non chiudere:
"tutta la mia attività di scrittore è una domanda ai contemporanei". "Quel Singolo" al quale Kierkegaard si rivolge come al suo lettore, dovrà potersi guardare nelle sue opere, nelle possibilità di esistenza in esse rappresentate, "come in uno specchio", riconoscersi o distanziarsi, vivere l'esperienza di uno sconcerto, di uno scarto, di una "respinta", purché la sua attenzione sia risvegliata. Solo la comunicazione autentica "rende libero l'altro".
La finalità religiosa della comunicazione esistenziale
La cristianità ha bisogno di un Socrate che comunichi in questo modo. La cristianità è "un'enorme illusione", poiché tutti sono cristiani, ma poi "conducono la loro vita, in stragrande maggioranza, in tutt'altre categorie". Per lo "scrittore religioso" che Kierkegaard dichiara di essere "dal principio alla fine", il compito è dunque di lavorare per rompere questa illusione, "colpendo alle spalle" chi si trova in essa. "Tutta la mia feconda attività di scrittore - dice Kierkegaard - si riduce a quest'unico pensiero: colpire alle spalle".