SOREN KIERKEGAARD
da Cioffi.., Corso di filosofia.., cit., p. 137 sgg,


2. Le possibilità e la scelta: vita estetica e vita etica

Tre sono, per Kierkegaard, i fondamentali "stadi sul cammino della vita", le "sfere di esistenza" che marcano un itinerario individuale: l'estetico, l'etico e il religioso.
Aut-aut esprime, già nel titolo, l'alternativa fra le prime due possibilità.
L'esteta vive immediatamente il rapporto con la vita come godimento e come rappresentazione del godimento. La sua sfera è il gioco, l'immaginazione, e la sua vita è come un teatro.
La differenza fra vita estetica e vita etica è definita nel modo più chiaro dal giudice Wilhelm, che incarna in Aut-aut il paradigma dell'etico: "l'estetico che è nell'uomo è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è; l'etico è ciò per cui egli diventa ciò che diventa".

LE FIGURE DELL' ESTETICO
Kierkegaard rappresenta l'estetico in figure, in modelli "puri": sono i due miti letterari di Don Giovanni e di Faust e il personaggio del seduttore Johannes, che il filosofo crea fondendovi elementi della propria esperienza autobiografica.
Don Giovanni rappresenta il potere e il piacere della seduzione immediata, che allinea le proprie conquiste l'una accanto all'altra come un'indefinita successione di istanti; è la pura forza dell'eros, il cui medio espressivo ideale è la musica di Mozart (vedi TESTI, Unità 9 - testo 2).
Faust, nell'interpretazione di Kierkegaard, incarna invece il gioco della conoscenza, il po-tere dissolutore del dubbio radicale; il patto demoniaco stretto con Mefistofe-le costringe Faust alla ricerca inesausta della conoscenza assoluta, e quindi a dubitare di tutto, a non potersi mai arrestare ad alcunché. Anche Faust è seduttore, ma di una donna sola, Margherita, poiché nel potere assoluto sopra una donna, che egli conquista grazie alla sua superiorità intellettuale, egli trova "un momento di presente", un "istante di riposo" di fronte al nulla che lo minaccia e che il suo scetticismo continuamente gli ripropone.
Johannes, infine, si colloca, nell'arco della seduzione estetica, al polo opposto rispetto a Don Giovanni: il suo diario - il Diario del seduttore che rese celebre Kierkegaard - racconta la trama sottile in cui egli avvolge la giovane Cordelia per conquistarla e poi abbandonarla.
La seduzione diviene qui scrittura, forma letteraria. Johannes non gode del possesso, ma della rappresentazione della conquista; anzi, evita il possesso, perché la riuscita della seduzione mette fine al piacere, implica in qualche modo l'impegnarsi con la realtà, mentre ciò che interessa è l'idea, l'immaginazione.
La categoria estetica in cui Johannes vive è quella dell'interessante: è una categoria della riflessione, perché in essa il soggetto non guarda ai contenuti, ma ai modi, non vive e non gode delle cose, ma della loro anticipazione e del loro ricordo. Johannes trasforma il suo desiderio e la sua seduzione in un'opera d'arte: "Introdursi in immagine nell'intimo di una fanciulla è un'arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro". Non appagandosi che in idea, non traducendosi mai in realtà, il suo desiderio può rimanere indefinitamente aperto. Johannes rappresenta la vita estetica nel suo grado più raffinato e più alto.
L'esteta è privo di un contenuto reale della propria soggettività: è qualcosa solo nell'immaginazione, perché non ha mai scelto se stesso nella realtà. Egli vive nell'orizzonte della possibilità infinita, senza mai compiere il movimento della realizzazione. La sua personalità è dispersa perciò nella molteplicità, l'unità del suo Io è illusoria ed evanescente.
Non si rivela mai al mondo, non getta mai la maschera: si rappresenta e si mostra come un enigma, del quale rimane egli stesso costantemente prigioniero. La sua vita è priva di durata, perché si esaurisce nella fissità di istanti successivamente dileguanti.
Egli rimane dunque sempre ciò che già è, senza poter divenire.


LA VITA ETICA
L'atto della scelta è il movimento che istituisce la personalità morale, poiché in essa non viene scelto un oggetto, buono o cattivo, ma la persona stessa nel suo valore assoluto (vedi TESTI, Unità 9 - testo 3 da Aut-aut p.382 e 384 Aut-aut )
Nell'atto della scelta l'Io diventa Sé, la personalità immediata si trasforma in personalità riflessa; dal piano della possibilità si passa a quello della realtà, dal non-essere all'essere. La scelta caratterizza l'etico al punto che non è possibile parlare di "scelta estetica", poiché l'estetico consiste appunto nel non scegliere.
La non-scelta presuppone l'insussistenza del principio di contraddizione, è l'indifferenza che annulla le distinzioni: l'etica, in quanto si fonda sulla scel-ta, assume invece la disgiunzione, l'aut-aut, come quell'atto che fonda la personalità e che deve essere continuamente rinnovato: "la scelta originaria è presente senza tregua in ciascuna seguente scelta". L'illusione di libertà che caratterizza l'estetico rivela allora la sua inconsistenza, perché mentre l'individuo rifiuta o rimanda la scelta, "altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso".
Nella scelta, invece, e solo in essa, è possibile l'esperienza della libertà. Ugualmente, al fittizio controllo di sé che l'esteta pretende di avere attraverso il pensiero, sottentra, con la scelta, la trasparenza a se stessi. Chi si è scelto è ciò che è divenuto, e quindi si conosce nella concretezza dell'azione. La scelta è un rivelarsi a sé e al mondo, uscendo dall'ermetismo della maschera.
Ciò che infine caratterizza l'etico rispetto all'estetico è un diverso rapporto con il tempo: la vita etica ha consistenza temporale, ha durata, ha sviluppo.
Solo nell'etica vi è storia, perché la scelta ha istituito la personalità e ha fissato il punto che dà senso al passato, al presente, al futuro. L'esteta invece non ha memoria, perché non ha storia, e ripete se stesso in istanti sempre uguali, senza mai potersi riprendere nella profondità del proprio Sé.
Lo si vede a proposito del matrimonio, il cui valore il giudice Wilhelm difende appassionatamente dalle critiche romantiche dell'esteta.
Quest'ultimo cerca disperatamente ogni volta il "primo amore" senza accorgersi del-la vanità di questo tentativo, perché il "primo", in cui ciò che ha valore per la prima volta compare, non può essere ripetuto. L'esteta ne gode ogni volta in un pallido riflesso, mentre chi ha compiuto la scelta del matrimonio rinverdisce il primo amore nella continuità.
Il matrimonio sostituisce al mistero l'intesa, alla conquista il possesso: "il veramente grande non è il conquistare, ma il possedere" perché nella conquista si è fuori di sé, nel possesso presso di sé. Il matrimonio presuppone l'amore, e poi dà a questo la continuità di una storia interiore attraverso la rassegnazione, "dove non si fa conto di ciò che si perderà, ma di ciò che si guadagnerà perseverando". Perciò il matrimonio è sintesi dell'immediatezza sensuale del primo amore e della riflessione, della speranza e del ricordo: esso rappresenta la serietà della vita, che non annulla l'estetico, ma lo ricomprende in una superiore bellezza, in cui "l'individuo ha in se stesso il suo fine".
Attraverso il giudice Wilhelm, marito e funzionario esemplare, Kierkegaard parla di una possibilità d'esistenza che egli ha già rifiutato, o che gli è ormai preclusa, anche se forse pensa ancora di poterla ricostituire con Regine.
L'etica qui prospettata ha fondamento individuale, perché si istituisce nella scelta assolutamente libera del Singolo, ma trova poi attuazione nel quadro di una moralità sociale molto vicina all'eticità hegeliana.
L'eccezionalità, la straordinarietà, l'autoesclusione dalla comunità, dal generale, sono da condannare. Anche l'isolamento del mistico va rifiutato, perché egli sceglie se stesso, ma non "nel modo giusto", sceglie se stesso "astrattamente". La scelta deve invece concretizzarsi e rinnovarsi negli istituti del quotidiano ordinario e comunitario, come appunto il matrimonio (che possiede anche una dimensione e sanzione religiosa), il lavoro, l'amicizia: le possibilità infinite del seduttore Johannes sono divenuti i compiti del borghese Wilhelm.

IL PECCATO E L'ANGOSCIA
Che questa dimensione di operosa eticità, di comprensione del singolare nel generale, non possa considerarsi conclusiva, deriva già in Aut-aut dal modo in cui Kierkegaard pone il problema della scelta.
Da un lato la scelta dà vita al Sé, poiché senza scelta, come abbiamo visto, il singolo rimane un puro Io immediato; dall'altro, "ciò che è scelto già esiste, altrimenti non si trattereb-be dì una scelta". Dunque, "io non creo me stesso in quanto scelgo me stesso". Ciò che è scelto è già posto: è l'individuo che esiste nel tempo all'interno della specie.
Lo scacco dell'etica nasce dal fatto che essa "addita l'idealità come scopo e presuppone che l'uomo sia in grado di raggiungerlo". Così non è, perché l'uomo si dà nel tempo come ineliminabilmente gravato dal peccato, che lo riguarda come singolo e come specie; l'etica è perciò destinata. naufragare "contro lo scoglio della peccaminosità dell'individuo".
Ecco in fatti che la vera scelta etica di sé deve passare attraverso l'accettazione dolorosa della colpa propria e della specie: in una parola, attraverso il pentimento, che è espressione dell'amore per Dio.
Il limite superiore della sfera etica è segnato dunque dal rapporto con Dio.

L'assurdo e il paradosso imposti dalla fede
Questa critica dell'eticità di Aut-aut, che conduce all'analisi della vita nella sfera religiosa, è impostata da Kierkegaard in due opere del 1843-44, Timore e tremore e Il concetto dell'angoscia. Il "timore e tremore" è quello di Abramo, al quale, secondo il racconto biblico (Genesi, 22) Dio richiede di sacrificare il figlio Isacco (vedi TESTI, Unità - testo 4).
Abramo è posto di fronte alla contraddizione, che non si può mediare, fra i comandi della morale del suo popolo e la volontà di Dio. Il dramma della sua scelta, proprio perché non è condivisibile con alcuno, avviene nel silenzio e nella solitudine assoluti, a differenza di quella dell'eroe tragico.
Che cosa assicura ad Abramo che alzando il coltello su Isacco compirà un atto di fede e non un assassinio? Nulla, salvo l'angoscia della scelta.
Questa scelta avviene nell'assurdo e nel paradosso: Dio ha prima spinto Abramo, uomo della fede, a ramingare alla ricerca di una terra; poi gli ha promesso una discendenza, dandogli un figlio quando ormai è vecchissimo; ora gli impone di sacrificarlo.
Abramo compie la scelta della fede: obbedisce al comando divino. Allora l'angelo ferma la sua mano, ed egli riprenderà molto più di quan-to era disposto a sacrificare. Riavrà Isacco e sarà riconciliato con Dio.

Il peccato e l'angoscia come costitutivi dell'essenza dell'uomo
Se Timore e tremore mostra in Abramo la collisione di etica e religione, di immanenza e trascendenza, il Concetto dell'angoscia esplora, a partire dalla tematica del peccato originale, la dimensione dell'angoscia come costitutiva dell'esistenza dell'uomo. Il peccato originale presuppone il peccato come possibilità, che si è attualizzata in Adamo e poi ogni volta rivive in ogni uomo. Il peccato è una rottura rispetto a una condizione di innocenza.
Ma che cos'è l'innocenza? Essa non può essere definita che negativamente, perché chi la definisce è già fuori di essa.
L'innocenza è ignoranza, la condizione della naturalità in cui l'uomo non è determinato come spirito, non è ancora consapevole del bene e del male. Il primo peccato di ogni uomo, dunque, non è scelta del male, poiché il male stesso, e il bene, sono posti solo con il peccato.
Come si passa allora dall'innocenza al peccato? Di questo passaggio, che è discontinuità assoluta, atto di volontà, non si può dare per Kierkegaard una spiegazione; se ne può solo indicare la condizione, il presupposto: è questa e l'angoscia.
Nello stato di innocenza la quiete della naturalità immediata è attraversata dalla tensione dell'angoscia: "questo è il profondo mistero dell'innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia". L'angoscia "è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità", vale a dire è il sentimento che deriva all'uomo dalla libertà di potere.
L'angoscia non ha come oggetto qualcosa di determinato, ma il nulla: essa è "la vertigine della libertà", che si fonda in ciò che l'uomo stesso è, una sintesi sempre dinamica tra anima e corpo, finito e infinito, sintesi che Kierkegaard designa con il termine di spirito. "Se l'uomo fosse animale o angelo, non potrebbe angosciarsi" quindi non potrebbe peccare: è l'angoscia la condizione che mette Adamo di fronte alla trasgressione del divieto divino, di fronte alla scelta e al peccato.

L'angoscia come pedagogia della libertà
Con il peccato, Adamo - e come lui ogni individuo - prende coscienza di sé e inizia la sua storia.
L'angoscia, ora, si configura propriamente come possibilità del male e del bene. Essa accompagna l'uomo in tutte le sue culture e situazioni: è angoscia di fronte alla potenza del destino per i greci, angoscia della colpa per il popolo ebraico. Anche in quella completa "insensihilità spirituale" che, secondo Kierkegaard, caratterizza la cristianità moderna, che sembra non angosciarsi di nulla, "l'angoscia tuttavia c'è: solo che essa aspetta". E c'è, indistruttibile, entro ogni tentativo che l'uomo compie per occultarla. chiudendosi nella propria non-libertà: c'è nella mancanza di comunicazione e nella chiacchiera, nel vuoto e nella monotonia, nella viltà e nell'orgoglio, nell'attaccamento al banale della vita quotidiana.
L'angoscia è insopprimibile come la possibilità da cui si genera. Essa, tuttavia, è condizione di apertura verso la libertà, perché "distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni": per questo, "più profonda è l'angoscia e più grande è l'uomo". Solo "colui che è formato dall'angoscia è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità". La possibilità è "la più pesante di tutte le categorie", ma solo in essa si attua l'autentica pedagogia della libertà.

Premessa e biografia
1. Le possibilità e la scelta: vita estetica e vita etica
3. Dialettica dell'esistenza e vita religiosa
Testo: "Il silenzio di Abramo"
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