Il brano che segue è tratto dall'articolo Meaning and Verification (Significato e verificazione) , scritto nel 1936 da Moritz Schlick per la rivista "The Philosophical Review". Nel saggio, di cui riportiamo qui la parte iniziale, l'autore chiarisce - in polemica con il logico e filosofo C. I. Lewis che, in un articolo del 1934, aveva affermato l'inadeguatezza del la criterio di significanza empirica - come debba essre correttamente inteso il principio di verificazione e come, sulla base di quest'ultimo, possa essere fondata una teoria del significato coerentemente empiristica.
Con una formulazione destinata a diventare classica, Schlick afferma che "il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazìone". Assai importante è la precisazione che egli fa circa il prporpio criterio di significanza:
la condizione che viene richiesta per assicurare la significanza di una proposizione non è la sua verificazione effettiva, ossia "qui e ora", quanto piuttosto la possibilità logica della verificazione, cioè la possibilità che essa possa avvenire in linea di principio.
Questa clausola consente di non intendere il principio di verificazione in un senso eccessivamente restrittiva.
I problemi filosofici, paragonati ai normali problemi scientifici, sono sempre stranamente paradossali. Ma che il problema del significato di una proposi-zione costituisca una seria difficoltà filosofica sembra un paradosso particolarmente bizzarro. La vera natura, il vero scopo di ogni proposizione non è forse quello di esprimere il suo significato? In effetti, quando ci troviamo di fronte a una proposizione (in una lingua che ci sia familiare) di solito ne Co-nosciamo immediatamente il significato(1). Se ciò non accade, possiamo farcelo spiegare, ma la spiegazione consisterà in una nuova proposizione; e se questa è in grado di esprimere il significato, perché non avrebbe dovuto es-serlo la prima? Così, se le si chiedesse che cosa ha voluto dire con una certa asserzione, una persona dai modi bruschi avrebbe perfettamente il diritto di rispondere: "Volevo dire esattamente ciò che ho detto! " (2).
È logicamente giustificato, ed è altresì una consuetudine normale nella vita quotidiana come pure nella scienza, rispondere a una domanda riguardante il significato di una proposizione semplicemente ripetendo quest'ultima in modo più distinto o con parole appena differenti. In quali circostanze può dun-que avere qualche senso chiederci qual è il significato di un'asserzione che abbiamo letto o udito bene?
Evidentemente la sola possibilità è di non averla compresa, e in questo caso ciò che leggiamo o udiamo non è nient'altro che una sequenza di parole che non siamo capaci di maneggiare; non sappiamo come usarle, come "applicarle alla realtà". Una tale sequenza è per noi semplicemente un complesso di segni "senza significato", una semplice successione di suoni o di segni sulla carta, e non abbiamo nessun altro diritto di chiamarla "una proposizione"; al massimo possiamo parlare di essa come di "un enunciato" (3).
L'origine di queste difficoltà va individuata nel fatto che molto spesso non sappiamo come maneggiare le nostre parole; parliamo o scriviamo senza esserci prima accordati su una grammatica logica ben definita, con cui costruire la significazione dei nostri termini. Commettiamo l'errore di credere che conosciamo il significato di un enunciato (cioè lo comprendiamo come una proposizione) se abbiamo familiarità con tutte le parole che occorrono in esso. Ma ciò non è sufficiente (4). Una situazione simile non provocherà confusioni o errori finché rimarremo nell'ambito della vita quotidiana, in cui le nostre parole sono state formate e a cui sono state adattate, ma diverrà esiziale nel momento in cui cercheremo di pensare a problemi astratti per mezzo dei medesimi termini, senza fissare attentamente la loro significazione rispetto ai nuovi scopi. Il fatto è che ogni parola ha una significazione definita solo all'interno di un contesto definito in cui è stata adattata; in ogni altro contesto essa non avrà significato finché non forniremo nuove regole per l'uso della parola nella nuova situazione, il che può essere fatto, almeno in linea di principio, in maniera del tutto arbitraria (5).
Pertanto, ogniqualvolta ci domandiamo di un enunciato "che cosa significa?", ciò che noi attendiamo è un ragguaglio circa le circostanze in cui esso va usato; vogliamo una descrizione delle condizioni in cui l'enunciato formerà una proposizione verae di quelle in cui ne formerà una falsa. Il significato di una parola o di una combinazione di parole è così determinato da un insieme di regole che presiedono alloro uso e che, seguendo Wittgenstein, possiamo chiamare regole della loro grammatica, nel senso più ampio del ter-mine (6). Stabilire il significato di un enunciato equivale a stabilire le regole secondo cui l'enunciato va usato, e questo, a sua volta, è lo stesso che stabilire la maniera in cui esso può essere verificato (o falsificato). Il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione (7).
Le regole "grammaticali" consisteranno in parte in comuni definizioni, cioè spiegazioni di parole per mezzo di altre parole, e in parte in quelle che sono chiamate definizioni "ostensive", cioè spiegazioni per mezzo di una procedura che associa una parola al suo uso attuale. La forma più semplice di defi-nizione ostensiva è un gesto di indicazione combinato con la pronuncia della parola, come quando insegniamo a un bambino la significazione del suono "azzurro" mostrandogli un oggetto azzurro. Ma per lo più la definizione ostensiva è di forma più complicata; non possiamo indicare un oggetto corrispondente a parole come "perché", "immediato", "caso", "ancora" ecc. In questi casi richiediamo la presenza di certe situazioni complesse, e il significato della parola è definito dal modo in cui la usiamo in queste differenti situazioni.
È chiaro che per la comprensione di una definizione verbale dobbiamo già conoscere la significazione delle parole usate per definire, e che la sola spiegazione che si può dare senza alcuna conoscenza precedente è la definizione ostensiva. Ne possiamo concludere che non vi è modo di comprendere alcun significato senza riferirci, in ultima istanza, a definizioni ostensive, il che vuoi dire, in senso ovvio, riferirci alla "esperienza" o alla "possibilità di verificazione" (8).
Tale è la situazione, e niente mi sembra più semplice o meno problematico. E questa situazione, e nient'altro, che noi descriviamo affermando che si può dare il significato di una proposizione solamente dando le regole della sua verificazione nell'esperienza. (In realtà, l'aggiunta dell'espressione "nell'esperienza" è superflua, dato che non è stato definito nessun altro tipo di verificazione).
Questa concezione è stata chiamata "teoria sperimentale del significato"; ma'non si tratta assolutamente di una teoria, perché il termine "teoria" si usa per un insieme di ipotesi su un certo argomento, mentre nella nostra concezione non sono comprese ipotesi: essa si propone di essere una semplice asserzione del modo in cui il significato è realmente assegnato alle proposizioni sia nella vita quotidiana che nella scienza. Non c'è mai stato un altro modo, e sarebbe un grave errore supporre che noi crediamo di aver scoperto una nuova concezione del significato, contraria al senso comune, che vorremmo introdurre in filosofia. Al contrario, la nostra concezione non solo concorda completamente con il senso comune e con la procedura scientifica, ma anzi ne de-riva (9).
da M. Schlick, Significato e verificazione, cap. I, trad. it. di U. Volli, in Aa.Vv., La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, Bompiani,Milano, 1973.
1 - Si tratta della ripresa di un'importante tesi sostenuta da Wittgenstein nei Tractatus, secondo cui noi comprendiamo il significato di una proposizione prima ancora di sapere se essa sia vera o falsa, sulla base dell'evidenza del significato dei termini che la compongono (vedi PROFILO STORICO Ludwig Wiugenstein).
2 - La teoria schlickiana del significato concepisce fra proposizione e fatto un rapporto di corrispondenza univoco, "uno a uno". Il linguaggio svolge una funzione ostensiva. ossia mostra, descrive le cose e i fatti di cui parla.
3 - Nel PROFILO STORICO L'empirismo logico non ci siamo attenuti alla distinzione, che qui l'autore introduce, fra "proposizione" ed "enunciato". L'enunciato differisce dalla proposizione in quanto è una formazione segnica (un segno o un gruppo di segni); la proposizione invece è il contenuto logico designato dall'enunciato stesso (la medesima proposizione dunque può venire formulata con enunciati diversi).
4 - Qui e nel prosieguo l'autore si riferisce a quelle che nel PROFILO STORICO abbiamo indicato come le due condizioni a cui deve sottostare il criterio di significanza così come viene definito dal Circolo di Vienna.
5- Per spiegare il fatto che ogni parola riceve un significato solo all'interno del contesto alinguisuico e delle regole in cui viene usata, Schlick ricorre al seguente esempio: "se un amico mi dicesse "portami in un paese dove il cielo sia tre volte più azzurro che in Inghilterra!" la sua frase mi sernbrerebbe priva di senso, perchè la parola "azzurro" è usata in una maniera che non è prevista dalle regole della nostra lingua. La combinazione di un numerale con il nome di un colore non occorre in questa lingua; perciò l'enunciato del mio amico non ha si-gnificato, anche se la sua forma linguistica esteriore è quella di un ordine o di un desiderio. Ma ovviamente egli può dare all'enunciato un significato. Se io gli chiedo 'che cosa intendi dire con tre volte più azzurro" egli può indicare arbitrariamente certe circostanze fisiche definite concernenti la serenità del cielo, circostanze che egli vuole siano descritte dalla sua frase. E allora forse io sarò in grado di seguire le sue indicazioni".
6 - Il concetto di "grammatica" appartiene alla riflessione di Wittgenstein posteriore al Tractatus
7 - Viene enunciata qui la tesi fondamentale del brano. Si tratta, anche in questo caso, di uno sviluppo di tesi wittgensteiniane: il significato di una proposizione riguarda le circostanze del suo uso; quest'ultimo rimanda sia all'esperienza, sia alle regole convenzionali attraverso cui i termini della proposizione stessa vengono combinati. L'esperienza, a sua volta, si compone di "definizioni ostensive", le quali associano i termini alle cose.
8 - Perché una proposizione sia significante, basta che essa sia verificabile in linea di principio, ossia basta che esistano circostanze logicamente possibili, non obbligatoriamente attuali, che verificandosi ne determinino la verità (o la falsità).
9 - Sccondo Schlick, il rimando all'esperienza non presenta alcunché di problematico: che il linguaggio esprima la realtà viene spontaneamente affermato sia dal senso comune, sia dalla concreta pratica scientifica.