La teoria scientifica e la sua "verità"
La riflessione epistemologica del Novecento, che ha portato al costituirsi dell'epistemologia come vera e propria disciplina, si è sviluppata sullo sfondo delle grandio " rivoluzioni scientifiche" del secolo, a cominciare da quelle del primo ventennio, le teorie della relatività e dei quanti e, prima ancora, dall'avvento delle geometrie non-euclidee nel cuore dell'Ottocento. Queste ultime, infatti, avevano posto in anticipo questioni che sarebbero divenute oggetto di discussione all'inizio del secolo successivo. A cominciare da quella del rapporto fra teoria scientifica ed esperienza della realtà. Ricordiamo, infatti, che il Quinto postulato di Eluclide, o "postulato delle parallele" ("per un punto esterno ad una retta passa una sola parallela alla retta data") corrisponde ad un'intuizione immediata. Ma i matematici dell'Ottocento avevano dedotto una serie di teoremi geometrici egualmente coerenti e logicamente non refutabili partendo da postulati diversi da quello euclideo. Ad esempio, prima Gauss poi Lobacevskij e Boylai avevano costruito una geometria iperbolica partendo dal postulato "per un punto passano in finite parallele a una retta data" e, alcuni anni dopo, nel 1857, Riemann aveva elaborato una geometria ellittica partendo dal postulato "per un punto non passa nessuna parallela a una retta data".
In tal modo si ponevano due problemi fra loro collegati: il valore di una teoria sta nel suo rigore logico, nel fatto di essere un sistema ipotetico-deduttivo basato anzitutto sulla coerenza delle sue proposizioni, cioè sulla loro non-contraddittorietà; tale valore non era più basato, quindi, sulla corrispondenza della teoria con la realtà fisica quale è da noi comunemente percepita: ma allora qual è il suo valore di verità? Non è più assoluto, ma frutto di una convenzione, di una scelta e di un accordo fra gli scienziati? Ma ha senso, allora, parlare di verità?
Come si vede, si tratta di interrogativi che appartenevano alla tradizione filosofica e non solo alla scienza.
Nel 1902, nel celebre scritto La scienza e l'ipotesi, Jules-Henri Poincaré afferma ad esempio che né l'esperienza nè, tantomeno, i kantiani giudizi sintetici a priori, sono a fondamento dei principi della scienza. Questi sono convenzioni, ipotesi adottate perché ritenute più semplici, comode e coerenti.
Un altro fisico ed epistemologo, il francese Pierre Duhem, afferma, in questi stessi anni, che il criterio decisivo del successo di una teoria scientifica è la semplicità nella rappresentazione matematica del reale. In ultima analisi, si avanza la tesi che la moderna scienza abbia conseguito un avanzamento nel livello di conoscenza a partire dalla costruzione di sempre più audaci ipotesi teoriche.
Teoria, esperienza, realtà nelle teorie della relatività e dei quanti
A tali questioni, fra loro evidentemente legate, del carattere convenzionale o meno delle teorie scientifiche e dei loro rapporto con la realtà, si aggiunge poi quella, essenziale perle teorie fisiche, del rapporto fra teoria ed esperienza, quindi fra teoria e procedimenti di controllo e verifica della sua validità.
Per Einstein, certamente, il punto di partenza della conoscenza scientifica sono le ipotesi teoriche. Ma queste, sia pure come strumenti di interpretazione generali dei reale, servono a rappresentare la realtà. Il presupposto teorico è quindi realista: la scienza si rivolge sempre ad un "mondo esteriore indipendente dall'individuo che lo esplora", ha il compito di rappresentano e conoscerlo. Ma la conoscenza non è mai definitiva. Le categorie che in essa adottiamo per inquadrare concettuaimente la realtà non sono forme immutabili, degli a priori di tipo kantiano, nè, tantomeno, delle "realtà" immateriali simili alle idee platoniche. Esse sono libere convenzioni, che valgono fino a quando riescono a fornire spiegazioni semplici e coerenti della realtà e che, quando ciò non avviene più, debbono essere messe da parte e sostituite con altre.
Ma qual'è allora il rapporto fra tali quadri concettuali, fra le stesse ipotesi teoriche, e l'esperienza? Qui la risposta di Einstein sembra oscillare: da un lato, infatti, quelle ipotesi si pongono a confronto con i dati dell'esperienza, perché non possono non fare i conti con la realtà che intendono rappresentare e spiegare; ma dall'altro lato il "dato empirico" acquista significato solo se inserito in un sistema teorico.
Einstein oscilla tra empirismo e razionalismo e riconosce l'ambiguità del suo modello metodologico, ma rivendica per lo scienziato, da un punto di vista epistemologico, un atteggiamento di libertà, rispetto a condizioni troppo restrittive nelle quali lo si vorrebbe ingahbiare. Einstein, insomma, costruisce una metodologia eclettica, fondata su un sistema concettuale ispirato alla semplicità, cioè alla sua capacità di rappresentare l'universo in modo lineare, essenziale (in tal senso "economico"), fornendone una rappresentazione il più possibile complessiva ed esauriente.
Sul piano epistemologico, inoltre, sia per la teoria della relatività di Einstein che per il principio di indeterminazione di Heisenberg divengono essenziali, cioè costitutive della stessa teoria, l'osservazione e la misurazione dei fenomeni, la posizione o l'attività dell'osservatore e i metodi e gli strumenti di misura adottati: tutti aspetti che - in precedenza - venivano trattati come premesse "esterne" a una teoria, da valutare quando si trattava di affrontare le possibilità di errore.
Così, se nella teoria della relatività ristretta lo spazio ed il tempo sono grandezze relative all'osservatore che le misura ed al campione che questi adotta per misurarle, nel principio di indeterminazione di Heisenberg si fa riferimento al fatto che, nella micro-fisica, l'energia luminosa necessaria all'osservazione induce nelle particelle osservate dei cambiamenti tali da impedire il conseguimento di una conoscenza complessiva dei fenomeni studiati. Ad esempio, ogni osservazione condotta per determinare la posizione di una particella ne modifica la velocità e viceversa. In tal modo, la probabilità statistica diviene il criterio e il modello interpretativo della "realtà" degli aspetti che sono stati modificati dall'osservazione.
Vi è poi l'insieme dei problemi legati al principio di complementarità formulato da Njels Bohr (e di cui in precedenza si è parlato), che consente di adottare, in alternativa, per determinati aspetti di un fenomeno, sia il modello ondulatorio che quello corpuscolare. Ad essere in questione, in tal modo, non è tanto la convenzionalità o meno di una teoria scientifica, quanto l'immagine stessa della "realtà" che viene studiata.
Le teorie e la loro verificabilità
L'insieme di tali questioni epistemologiche - dei rapporto fra teoria e realtà e del modo con cui sia possibile confermarne o smentirne la validità - sono alla base della nascita, negli anni '20, del Circolo di Vienna e del Neopositivismo. Quest'ultimo, anche alla luce dei problemi posti dalla scienza, pone l'esigenza di una vera e propria rifondazione epistemologica della scienza stessa. il Positivismo ottocentesco (con l'eccezione di Stuart Mill e Mach), non si era posto il problema di un'adeguata riflessione critica sugli statuti teorici delle scienze e sul problema del rapporto fra teoria e controllo sperimentale di essa.
Ricordiamo che una riflessione aggiornata sul concetto di esperienza era stata effettuata, verso la metà dell'Ottocento, da Stuart Mill, che aveva identificato i procedimenti conoscitivi - anche quelli dell'indagine scientifica - con un tipo di inferenza costituito dal passaggio da particolare a particolare e non, come tradizionalmente si era pensato, dal particolare al generale (induzione) o dal generale al particolare (deduzione). Lo stesso principio dell'uniformità della natura che è alla base dell'inferenza viene inteso da Mill come a posteriori e non come una kantiana forma a priori dell'azione ordinatrice dell'intelletto. in tal modo Mill poneva il problema del valore di verità della conoscenza empirica, se, cioè, l'esperienza potesse essere fondamento di se stessa, giustificare se stessa.
Ma un modello più radicale di empirismo critico - cui guarderanno [instein e non pochi filosofi della scienza del '900 - era stato elaborato - fra il XIX e il XX secolo - dal fisico Ernst Mach, il quale, riprendendo da Richard Avenarius l'esigenza che la filosofia si liberi da ogni tipo di metafisica e divenga essa stessa una scienza rigorosa, basata sul riconoscimento che la conoscenza non è altro che esperienza pura, aveva sostenuto che i principi della scienza fossero da considerare solo delle "descrizioni sintetiche" di esperienze, dettate da esigenze di "economia del pensiero", forme astratte con cui si riassumono le esperienze stesse, per eliminare da esse gli aspetti ritenuti non necessari e per ridurle nella forma più abbreviata possibile. Per Mach solo le proposizioni empiriche erano suscettibili di controllo e verifica sperimentale, quindi è ad esse che dovevano essere ricondotte le proposizioni della scienza, trattando come "prive di significato" tutte quelle che non fossero riducibili a quello statuto empirico.
Il Circolo di Vienna trova comunque il suo principale punto di riferimento teorico nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, del 1921. Il presupposto è realistico: il mondo è la totalità dei fatti e il linguaggio è una totalità di proposizioni che "raffigurano" fatti. Il linguaggio, che "rappresenta" il mondo, si articola in proposizioni atomiche e molecolari. Queste connettono fra loro le proposizioni atomiche in base a regole fornite da una data sintassi.
Il fondamento gnoseologico è empirico: solo i fatti sono esprimibili, quindi pensahili. In tal modo, Wittgenstein fornisce agli esponenti del Circolo di Vienna le basi concettuali per la costituzione del criterio di verificazione, il quale asserisce che sono dotate di significato solo quelle proposizioni rispetto alle quali è possibile effettuare una verifica empirica. Una proposizione "ha senso" solo se esiste la possibilità di accertare se essa è vera o falsa, riconducendola agli "stati di cose" che essa denota.
Anche per il Circolo di Vienna, alla base del valore conoscitivo degli enunciati scientifici è il principio di verificabilità, per il quale ha senso solo ciò che può essere confermato o smentito dall'esperienza. Per questo, le proposizioni non verificate e non verificabili (come sono quelle della metafisica) sono prive di senso. L'empirismo neopositivista è radicale Ma da esso vengono eliminati tutti quegli aspetti che rapportavano il dato empirico (l'unico ad avere valore conoscitivo) al soggetto percipiente. Ciò attraverso il forte impianto logico con cui si cerca di giustificare l'esperienza scientifica e dall'uso dei cosiddetti protocolli. Questi sono delle proposizioni nelle quali si riportano i dati sensoriali relativi all'osservazione degli oggetti materiali eliminando ogni riferimento al soggetto, cioè indicando le condizioni in cui chiunque possa osservare i fatti relativi a quegli oggetti ("X nel luogoY nel tempoT osserva che....."). Ma non di sola osservazione dei dati empirici si tratta: le verifiche sono infatti costituite anch'esse da protocolli nei quali si attesta come, in presenza di quelle circostanze, effettivamente si osservi il manifestarsi empirico del fenomeno.
Col fisicalismo sembra compiersi del tutto questa eliminazione della soggettività a favore di una rigorosa forma logica "oggettiva" ("protocollare") delle proposizioni empiriche che esprimono l'osservazione, il controllo e la verifica che appartengono ai procedimenti scientifici. In tal modo, ad esempio, non si ha tanto un rapporto fra una singola proposizione scientifica e un fatto (o "esperienza vissuta elementare"): il confronto è sempre tra asserzioni e asserzioni (quelle, tipiche di una legge scientifica, che descrivono le condizioni in cui un fatto dovrebbe verificarsi e quelle che attestano il verificarsi, su quelle basi, del fatto dichiarato dalla legge), mai tra asserzioni e stati di fatto "esterni" ad esse. Neurath, in tal senso, asserisce il postulato dell'"intrascendibilità del linguaggio": il discorso scientifico, e il suo concetto di esperienza, si svolgono integralmente all'interno del linguaggio, senza potersi riferire ad una realtà esterna in sé e per sé (o "cosa in sé" kantiana).
Aspetti della nuova epistemologia
L'epistemologia della seconda metà del '900 ha affermato spesso un primato della teoria sull'esperienza, quindi criteri di accertamento della validità di una teoria diversi da quello di verificabilità.
Inoltre ha posto in modo diverso il problema del rapporto fra teorie "scientifiche" e saperi extra-scientifici (metafisica, arte, etica, religione, ecc.), talvolta abbandonando la rigida contrapposizione espressa dai neopositivisti.
Soprattutto, ha guardato con grande attenzione alla storia della scienza, in particolare alle fasi caratterizzate da rivoluzioni scientifiche (considerate ad esempio da Bachelard come vere e proprie rotture epistemologiche), in quanto capaci di manifestare con chiarezza sia il fondamento autentico di una teoria ed il modo in cui essa viene confermata o invalidata, sia il rapporto fra tali concezioni ed i contesti storico-culturali e storico-sociali in cui le teorie stesse vengono ad affermarsi.
Si è trattato di un dibattito teorico estremamente ricco - e tuttora apertissimo - di cui si forniscono qui solo alcuni spunti.
Il principio della falsificabilità
La più radicale inversione di tendenza - insieme a quella del "secondo" Wittgenstein - espressa dalla nuova epistemologia nei confronti del Neopositivismo è costituita dall'opera di Karl Popper. L'aspetto essenziale della critica da lui mossa al Neopositivismo è rappresentato dalla critica al principio di verificabilità e all'induttivismo che era alla base di quel principio. Per tale critica egli attinge all'empirismo radicale di Hume, che aveva negato la possibilità di formulare dei principi universali e necessari (cioè delle leggi scientifiche "oggettive") procedendo dai dati dell'esperienza, cioè da singole esperienze. Infatti, per quanto una tesi possa essere confermata da mille esperienze, può sempre accaderne una (la "milleunesima") che la smentisca. Sempre con Hume, anche la proposizione di senso comune come quella che "il sole sorge sempre al mattino e tramonta sempre alla sera" non può mai esaurire la totalità dei casi (cioè tutte le albe e tutti i tramonti constatabili da parte degli uomini) che sarebbe necessaria per verificarla. Infatti l'universalità dovrebbe valere anche per tutti i casi futuri, che, come tali, sono inverificabili, e potrebbero smentire l'esperienza. Le teorie non sono, quindi, tali perché verificate empiricamente.
Il cuore del ragionamento di Popper è filosofico e sembra riattualizzare la grande disputa critica tra Kant e Hume attorno ai princìpi che conferiscono "necessità razionale" ai nostri giudizi sulla natura, cioè attorno al-la validità del sapere. Non c'è alcuna ragione "di diritto", ossia alcuna necessità razionale, che giustifichi le nostre inferenze induttive attorno ai "dati di fatto", aveva detto Kant. La conoscenza scientifica non si fonda su giudizi a posteriori. Ne deriva che non esiste mai una "osservazione in sé" dei dati dell'esperienza. L'osservazione "è sempre selettiva", aggiunge Popper, a partire da uno scopo, da una prospettiva, da una problematica che definisce l'oggetto. Le teorie scientifiche svolgono, per l'appunto, questo ruolo, di costituire il punto di vista determinato in base al quale selezionare la lettura della realtà osservativa.
Più che "convenzioni", le ipotesi scientifiche sono delle congetture, fondate su presupposizioni e illazioni attorno alla natura dei fenomeni. Le conclusioni vengono anticipate dallo scienziato. Ogni teoria, prima di essere una "spiegazione" di determinati fenomeni, è sempre una "interpretazione" della natura. Perciò essa è sempre incompleta, provvisoria, discutibile. Ma allora, come è possibile evitare di cadere in conclusioni di tipo irrazionalistico? Come si può distinguere tra verità scientifiche e speculazioni intellettuali prive di senso? Popper risponde proponendo un nuovo tipo di demarcazione fra teorie scientifiche e teorie non scientifiche. Una teoria, cioè, per quanto provvisoria, è degna del nome di scienza nel momento in cui la sua costruzione logica è strutturata in modo tale da essere falsificabile dall'esperienza. Una teoria scientifica, se non può mai essere "verificata" dall'esperienza, può essere falsificata (cioè confutata, dimostrata falsa) da essa. Ogni teoria scientifica è una proibizione, in quanto preclude l'accadimento di certi eventi. Ebbene, la teoria cade quando nel corso di un esperimento si verifica l'evento "proibito" dalla teoria stessa. Ed i controlli sperimentali che non riescono a confutare la teoria, sebbene non siano in grado di verificarla, tuttavia la corroborano, poiché dimostrano la sua capacità di resistere ai tentativi di falsificarla.
L'esperienza, quindi, serve non a fondare una teoria ma a falsificarla, a confutarla.
Il primato spetta alla teoria, al modello ipotetico disposto in modo da poter essere - eventualmente - falsificato. C'è un'asimmetria logica tra verificazione e falsificazione: mentre per la verificazione di una teoria occorrerebbero infinite conferme (non basterebbero quindi, milioni, miliardi di conferme), per la sua falsificazione basta una sola prova negativa.
La visione "falsificazionista" della scienza, secondo Popper, è una reinterpretazione della visione della verità scientifica che Kant delinea nella Critica della ragion pura: noi non ricaviamo le leggi scientifiche dall'osservazione della natura ma, attraverso i nostri schemi mentali, le imponiamo ad essa. L'errore di Kant, secondo Popper, non risiede nell'attribuzione di un primato alla mente nella conoscenza del reale, ma nell'aver caratterizzato come universali e necessarie, quindi come definitive, le categorie dell'intelletto.
La scienza, per Popper, si manifesta come una successione di ipotesi teoriche sempre più penetranti e coerenti attorno alla realtà dei fenomeni.
Egli, inoltre, vede nella falsificabilità la via verso una conoscenza che non solo è sempre più "logicamente coerente", più "semplice" ed "elegante", ma che è, altresì, conoscenza vera, ossia approssimazione progressiva nei confronti della realtà effettiva delle cose, indipendentemente dai nostri sguardi mentali. Egli, quindi, si schiera per una nozione non solo "razionalista", ma realista della conoscenza scientifica.
Paradigmi e rivoluzioni scientifiche
Le tesi di Popper provocano un vivace dibattito tra i filosofi e gli storici della scienza. Una critica ad esse viene da Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Kuhn propone un mutamento di prospettiva: per capire le strutture delle scienza e le ragioni delle rivoluzioni scientifiche occorre partire dalla storia della scienza. Questa mostra che, se è vero che il "falsificazionismo" e un procedimento rigoroso e razionale per te "demarcare" le teorie scientifiche dalle altre, è anche vero che la scienza non procede affatto attraverso "congetture e confutazioni". Se fosse così, le rivoluzioni sarebbero all'ordine del giorno, mentre esse costituiscono solo delle eccezioni - e non la regola - dello sviluppo scientifico.
La pratica scientifica, invece, è dominata da "tradizioni" o "scuole", le quali, nella storia della scienza, si dedicano alla produzione di conoscenze sulla base di presupposti - espliciti e impliciti -, che fungono da capisaldi della ricerca e, come tali, non vengono mai messi in discussione. Kuhn definisce tali presupposti del discorso della scienza come paradigmi. Essi sono modelli di spiegazione, insieme, scientifici e non scientifici, formati cioè da teorie scientifiche e procedimenti metodologici consolidati, ma anche da credenze e da presupposti metafisici, da modi di organizzazione del lavoro scientifico e da convinzioni extra-scientifiche. Le tradizioni, definite da Kuhn come "scienza normale", dominano gran parte del corso della storia della scienza. Le basi su cui viene edificata la conoscenza scientifica non corrispondono, quindi, ad una razionalità scientifica "pura". Diventa difficile stabilire una chiara linea di demarcazione tra i fattori scientifici e quelli che non lo sono nelle rivoluzioni scientifiche.
Al concetto di paradigma si lega inoltre quello di comunità scientifica, che costituisce il soggetto di produzione delle conoscenze. Sono queste comunità le effettive portatrici delle diverse tradizioni, che "lo storico descrive con etichette quali "astronomia tolemaica" (o "copernicana"), "dinamica aristotelica" (o "newtoniana"), "ottica corpuscolare" ("ottica ondulatoria")".
L'approccio di Kuhn, che è di tipo sociologico, appare molto lontano da quello neopositivista e da quello popperiano. Cosi il dibattito epistemologico, che sino all'uscita dello scritto di Kuhn (1962), aveva guardato soprattutto al problema e alla ricerca di un criterio della verità e dei fondamenti delle proposizioni della scienza, tende ad estendersi a considerazioni storico-sociologiche, nelle quali si tiene conto anche di credenze condivise dalle comunità degli scienziati in una data epoca storica.
Nelle epoche di scienza normale il paradigma di riferimento di una comunità scientifica non viene messo in discussione, ma è costantemente utilizzato per accrescere le conoscenze e per risolvere i problemi rimasti aperti, i rompicapo (veri e propri puzzles). Di fronte ad un'esperienza che la "falsifichi" la teoria non viene abbandonata ma solo adattata, corretta in qualche suo aspetto. Il paradigma è un criterio per selezionare come scientifici solo quei problemi i quali, "nel tempo in cui si accetta il paradigma, sono ritenuti solubili". Il criterio di demarcazione, quindi, è molto diverso da quello popperiano.
È la stessa scienza normale, nella sua attività incessante dedicata alla soluzione di rompicapo, a preparare la rivoluzione scientifica. In essa emergono, nel corso delle ricerche, anomalie - sperimentali o teoriche - che non possono essere incluse nel paradigma precedente. Quando la massa di rompicapo e di anomalie diventa insostenibile, si pone il problema della sostituzione del paradigma, cioè del quadro consolidato, tradizionale delle conoscenze. Si ha allora una "rivoluzione scientifica' un'epoca di scienza straordinaria, che porta alla sostituzione del vecchio con un nuovo paradigma, considerato da Kuhn incommensurabile con il vecchio, e quindi il sorgere di una comunità scientifica connotata in modo nuovo, cui segue un nuovo periodo di "scien-za normale" dedicato alla soluzione di nuovi tipi di "rompicapo".
Programmi di ricerca e difesa della razionalità oggettiva
lmre Lakatos assume una posizione mediana tra Popper e Kuhn. Egli, infatti, da un lato cerca di conservare il presupposto della "razionalità" unitaria e obiettiva della conoscenza scientifica, affermando che lo sviluppo di questa deriva da una continua tensione tra dimostrazioni e confutazioni, fra elaborazione di ipotesi e loro falsificazioni, come aveva affermato Popper. Ma dall'altro, a differenza di Popper (e d'accordo con Kuhn), sostiene che non ogni falsificazione determina una rivoluzione scientifica. Tutt'altro: vi sono periodi "normali" anche molto lunghi, durante i quali si verificano solo aggiustamenti interni a una teoria.
Lakatos è fautore di un falsificazionismo sofisticato (o metodologico) che contrappone al falsificazionismo dogmatico. Lo sviluppo della scienza avviene attraverso un continuo confronto (o "duello") non fra una teoria ed i fatti con cui si cerca di falsificarla, ma fra programmi di ricerca contrapposti, cioè fra due o più sistemi teorici in competizione fra loro. Ciascun sistema si confronta con i fatti. Prevale quello meno "falsificato" dai fatti stessi.
Ogni "programma" contiene un nucleo essenziale ("metafisico") ritenuto non confutabile, perché considerato asse portante dell'intero sistema teorico. Intorno a quel nucleo vi è una cintura protettiva di teorie che sono invece confutabili, falsificabili, e che vengono continuamente sostituite con altre. Così le "anomalie" producono solo "slittamenti di problema", adattamenti, migliorie, non la sostituzione del programma di ricerca. Nella storia della scienza la crescita della conoscenza avviene sempre attraverso la convivenza e la competizione di teorie rivali. Tuttavia il criterio razionale per decidere qual è, in un dato momento, nella contesa, la teoria "migliore" esiste, e si tratta di un criterio obiettivo: la teoria migliore è quella che scopre dei "fatti" nuovi, prima ignoti alla scienza. Vi è rivoluzione scientifica quando un programma viene sostituito da un altro, capace di presentarsi come portatore non solo di una critica negativa nei confronti del programma egemone, ma anche di una "critica costruttiva", cioè da un sistema teorico alternativo, contenente un nucleo diverso e capace di fornire spiegazioni migliori dell'altro sistema.
Contro Kuhn, dunque, Lakatos ritiene che una teoria scientifica dipenda essenzialmente da fattori razionali e non extra-razionali ed extra-scientifici, come avveniva invece col paradigma kuhniano. La spiegazione delle rivoluzioni scientifiche deve essere interna alla scienza, legata cioè all'effettivo spessore teorico dei programmi, non a fattori socio-culturali ad essi esterni.
La "non neutralità" della scienza
Portatore di una visione radicalmente diversa è invece Paul Feyerabend, fautore del cosiddetto anarchismo metodologico. Egli critica radicalmente l'intera epistemologia del '900, accusata di aver seguito l'utopia di un metodo tale da costituirsi come "modello", capace cioè di fornire una conoscenza "obiettiva". Egli rifiuta inoltre sia l'idea di "scienza normale" sociologicamente connotata di Kuhn, sia la tesi di Lakàtos della neces-sità di individuare una misura obiettiva del sapere e delle sue possibilità di sviluppo.
Non esistono un ordine e uno svolgimento lineari, razionali, nelle rivoluzioni scientifiche. Così esistono contenuti dogmatici e non solo motivazioni razionali nell'affermazione delle teorie: lo dimostra quella di Copernico, che riuscì a trionfare proprio grazie all"'uso antiscientifico di idee antidiluviane", come quelle costituite dal Pitagorismo e dal Platonismo.
Questa critica del metodo implica una critica non della scienza in quanto tale, ma della razionalità scientifica dominante, basata sul presupposto di una "razionalità" obiettiva, di una sorta di "neutralità della scienza". Feyerabend, invece, sottolinea la presenza, in ogni attività di ricerca, accanto ai mezzi che sono ritenuti necessari per conseguire una conoscenza valida, di finalità ispiratrici della ricerca stessa. Egli quindi critica Kuhn, perche questi, quando descrive le epoche di "scienza normale", fa, in realtà, un'apologia del conformismo di ricercatori che si dedicano alla "soluzione di rompicapo", isolando la scienza dalla valutazione critica degli scopi etici e sociali che essa persegue. Ma critica anche Popper e Lakàtos, perché questi, nell'illusione che esista una norma oggettiva della ragione, tendono a escludere dalla scienza tutte le linee di ricerca che non si adeguano alla nozione "ufficiale" della verità.
Altre caratteristiche della posizione di Feyerabend sono il pluralismo, cioè la convinzione che il progresso della scienza sia caratterizzato dalla competizione di teorie rivali, e il primato della teoria sulle osservazioni empiriche. In questo secondo caso, è di particolare interesse la tesi che ogni fatto o gruppo difatti assuma un significato specifico proprio all'interno del sistema teorico in cui essi vengono interpretati: ad esempio, il concetto di "massa" ha due significati completamente diversi in Newton e in Einstein. Non esistono quindi "fatti" che siano del tutto "indipendenti" dalle strutture del pensiero nelle quali essi acquistano un significato.