Concludendo la Prefazione al Tractatus, Wittgenstein scrive: "La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e irreversibile. Io ritengo, dunque, d'avere definitivamente risolto nell'essenziale i problemi". E, in una lettera a Keynes del 1924, aggiunge: "Tutto quello che avevo da dire, l'ho detto e con ciò la sorgente si è inaridita". Gli anni trascorsi nel silenzio maturano tuttavia nel filosofo austriaco nuove riflessioni e nuovi orientamenti, che risentono sia dell'esperienza pedagogica compiuta nel frattempo (in particolare della consuetudine con il linguaggio dei bambini), sia dell'influsso della matematica intuizionistica di Brouwer e della filosofia di Moore (vedi PROFILO STORICO La filosofia anglosassone del Novecento), sia ancora dei colloqui con il logico F.P. Ramsey. Gli appunti di questo periodo - apparsi postumi, nel 1964, con il titolo di Osservazioni filosofiche - rivelano posizioni già considerevolmente lontane dalla sua opera giovanile.
I limiti del Tractatus e la nuova concezione del linguaggio
Wittgenstein ora è del parere che la teoria logica elaborata nel Tractatus renda conto di una parte assai ridotta del linguaggio effettivo. Anche il linguaggio non scientifico può essere sensato; la filosofia, di conseguenza, deve occuparsi dei linguaggi ordinari, non formalizzati (quello morale, quello estetico, quello religioso), trascurati in precedenza. Al progetto di una definizione di un linguaggio scientificamente ideale, ossia logicamente perfetto, subentra così l'interesse per l'analisi degli usi concreti e particolari del linguaggio stesso. Lo svolgimento di questa "autocritica" porterà Wittgenstein, negli anni di Cambridge, a riflettere su quelli che chiamerà i "gravi errori" del Tractatus e a elaborare un cospicuo insieme di note e riflessioni, le più significative delle quali sono raccolte nelle Ricerche filosofiche, la seconda grande opera del filosofo austriaco.
Nelle Ricerche, Wittgenstein modifica sensibilmente numerose concezioni del Tractatus. In particolare, viene abbandonato il punto di vista dell'"atomismo logico"; le proposizioni dotate di senso non vengono più intese in quanto funzioni di verità di proposizioni elementari; queste ultime non sono più analizzate in quanto nessi di nomi che "stanno per" oggetti semplici. Il senso di una proposizione non consiste solo nella sua possibilità di raffigurare uno stato di cose, ma nelle circostanze caratteristiche del suo uso. Il linguaggio, così come è effettivamente usato, non è la raccolta delle proposizioni elementari logicamente ordinate, ma un insieme di espressioni che svolgono funzioni diverse (non solo quella descrittiva, ma per esempio anche quella valutativa) nell'ambito di pratiche e regole discorsive differenti. Dunque, il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio: comprendere una parola vuole dire sapere come è usata e poterla adoperare all'interno di determinate situazioni linguistiche. Il linguaggio, così come ora viene inteso, non nasce più in virtù del principio di denotazione.
Le regole che lo istituiscono nascono invece in relazione a un insieme di circostanze e di bisogni che Wittgenstein chiama forme di vita.
La pluralità del linguaggio e delle sue funzioni
Non c'è un'essenza del linguaggio né, quindi, può esserci una teoria sistematica del linguaggio, ossia un "dispiegamento" completo e definitivo del modo in cui il linguaggio funziona. Con il termine "linguaggio", piuttosto, designiamo una varietà di pratiche che si assomigliano in vari modi, ma non hanno una natura comune. Il linguaggio dunque è plurale. Poiché tutte le nostre pratiche intellettuali sono intrecciate con l'uso del linguaggio, esse sono assimilabili a giochi linguistici. L'idea di Wittgenstein è quella di una irriducibile pluralità di criteri di validità, di regole, di finalità che agiscono nel linguaggio: di qui la negazione di ogni idea di una ragione unica e comune. Non c'è un "concetto universale" di gioco linguistico, ma una rete di somiglianze di famiglia che collega un gioco all'altro. Il metodo corretto dell'analisi linguistica deve, per questo, procedere analizzando i diversi contesti significativi in cui le parole trovano posto, seguendo i concetti nelle sue ramificazioni grammaticali, nelle sue ambiguità d'uso, nelle parentele tra i differenti usi.
Il concetto di "gioco linguistico" è connesso con quello di "regola" e con l'insieme di procedure che determiniamo attraverso l'espressione "seguire una regola". Per Wittgenstein non si può seguire una regola da soli: essa, per definizione, deve essere controllata e il controllo deve essere pubblico.
L'applicazione corretta di una regola dipende dunque dai comportamenti e dal consenso di una comunità linguistica - un consenso pratico, non di opinione. Dalla concezione del Tractatus per cui il linguaggio è il mio linguaggio (ossia una rappresentazione del mondo), Wittgenstein perviene così all'idea per cui esso è il nostro linguaggio, ossia è uno strumento della vita di una comunità.
Il concetto di gioco linguistico
Facendo del linguaggio l'insieme di tutti i possibili giochi linguistici, Wittgenstein modifica in maniera sostanziale il "criterio di sensatezza" delle proposizioni definito nel Tractatus. Ora, il significato di una parola è definito dalla sua grammatica, ossia dalle regole che, all'interno del gioco, ne determinano il suo uso. Una parola o una proposizione si caricano di significati diversi in relazione ai diversi giochi in cui vengono adoperate, ossia in relazione ai diversi contesti linguistici che di volta in volta le comprendono. Essendo i criteri di sensatezza differenti da gioco a gioco, non si può più parlare del linguaggio come di ciò che è definito dalle proposizioni elementari e dalle loro funzioni di verità (come faceva il Tractatus). Si dirà invece che un linguaggio è istituito da determinate regole: regole diverse istituiscono linguaggi diversi, conferendo senso, in un gioco, a espressioni che, in un gioco diverso, non ne hanno o ne hanno uno differente.
La connessione tra linguaggio e forme di vita
Il linguaggio risulta così inteso in modo molto più ampio della semplice ostensione: esso non serve solo a mostrare qualcosa (nella terminologia del Tractatus, a mostrare il mondo inteso come totalità di fatti), ma a domandare, pregare, comandare, recitare, chiedere ecc. All'interno di questa gamma infinita di possibilità, che danno luogo ad altrettanti giochi linguistici, l'ostensione, ossia la descrizione degli "stati di cose", delle "cose come stanno", non è tutto il linguaggio, ma solo una delle possibilità, cioè uno degli infiniti giochi possibili.
La teoria raffigurativa del linguaggio - sostenuta da Wittgenstein stesso nel Tractatus e ripresa in seguito, attraverso il principio di verificazione, dall'empirismo logico (vedi PROFILO STORICO L'empirismo logico) - sosteneva che le parole compiono un solo ufficio: denominare le cose. Al contrario, per il Wittgenstein delle Ricerche, il linguaggio svolge le funzioni più varie, non riducibili alla pura "denominazione di oggetti". I tipi di proposizione sono innumerevoli, così come innumerevoli sono i differenti tipi d'impiego delle parole. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso: nuovi giochi linguistici si affermano, altri invecchiano e vengono dimenticati. Il parlare un linguaggio fa dunque parte di un'attività. Il concetto di gioco linguistico rimanda direttamente a quello - anch'esso caratteristico del "secondo Wittgenstein" - di forma di vita: poiché il "gioco" si fonda su regole semantiche e sintattiche che sono stabilite e condivise da una comunità umana, esso fa parte di una forma di vita, ossia è collegato a una determinata situazione pragmatica, vive e si trasforma in un contesto di istituzioni e di comportamenti umani.
Con la teoria dei giochi linguistici, Wittgenstein non solo apre la via a quell'importante tendenza di ricerca nota come filosofia analitica - la quale, come vedremo, estenderà il campo della propria indagine ben oltre l'ambito ristretto del linguaggio scientifico, assumendo come oggetto di studio privilegiato le diverse forme del linguaggio comune - ma anche si pone, a fianco di Martin Heidegger, come uno dei protagonisti della cosiddetta "svolta linguistica" che caratterizza la filosofia del Novecento.
Lo stile non sistematico delle Ricerche filosofiche
Dopo il Tractatus, si modifica, almeno in parte, anche la scrittura wittgensteiniana. Al posto degli aforismi accuratamente numerati di quest'opera. vi è nelle Ricerche - e in generale nei manoscritti successivi al 1930 (tutti editi postumi) - un susseguirsi di osservazioni dal tono colloquiale e discorsivo: il Tractatus era conciso, astratto; le Ricerche sono fluenti e policentriche, piene di metafore e di esempi concreti. La forma è spesso quella del dialogo maieutico, con domande e risposte. L'autore vuole che il lettore continui la ricerca anche oltre il suo scritto: "Non vorrei risparmiare ad altri - scrive - la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé". Si è colpiti - ma era in parte già così nel Tractatus - dall'assenza di ogni abbellimento letterario, nonché di gergo e di terminologia tecnica. Il libro è una sorta di "album" come si esprime l'autore stesso - composto di "fotografie" scattate nel viaggio di esplorazione del linguaggio, senza alcuna conclusione generale. Al contrario di quanto avveniva nel Tractatus, le osservazioni non vengono radunate attorno a nuclei e frasi fondamentali; si è sempre fluttuanti da un argomento all'altro, nel tentativo di seguire la natura variabile e plurale dei linguaggi in uso senza deformarli. La rapsodicità che ne risulta è, per Wittgenstein, espressione della precarietà costitutiva dei risultati della filosofia.
La filosofia come "terapia" delle malattie del linguaggio
Sarebbe errato contrapporre in modo assoluto il Tractatus e le Ricerche. Nonostante le profonde differenze che corrono tra i due momenti della sua ricerca, Wittgenstein non muta né il suo fondamentale interesse linguistico né, nella sostanza, la sua concezione della filosofia: essa continua a essere intesa non come una dottrina o una scienza, ma come attività di chiarificazione del linguaggio, volta a prevenire i fraintendimenti che nascono nell'ambito dei suoi usi ordinari. Con una importante differenza, tuttavia: ora l'opera di chiarificazione non ha più lo scopo di portare alla luce la struttura formale nascosta delle proposizioni e di fabbricare, su questa base, un linguaggio ideale, ma tende a mostrare il modo in cui parole ed enunciati trovano applicazione entro le regole stabilite dai giochi linguistici. La filosofia non descrive il linguaggio, ma certi suoi usi concreti. Non si tratta di spiegare le cose, di coglierne l'essenza, di scoprire nuove verità. Ciò che può fare il filosofo è descrivere il disordine dei giochi linguistici, liberandoli dai fraintendimenti. La filosofia è una guida al funzionamento dei linguaggi. Essa viene paragonata a una tecnica medica, a una terapia delle malattie del linguaggio (dl filosofo tratta una questione come una malattia").
Permane - rispetto al Tractatus - la clausola antimetafisica: i problemi della metafisica nascono "quando il linguaggio fa vacanza"; ed essi si risolvono "dissolvendoli": "Noi - scrive Wittgenstein - riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano". E ciò in quanto il linguaggio "fa parte della nostra storia naturale, come il camminare, il mangiare, il bere, il giocare".