Un virtuosismo. Un affascinante virtuosismo. Questo è Il segreto di Giuseppe De Santis. Sicché il racconto si colloca in una dimensione atipica e perfino inospitale per la critica letteraria. Il virtuosismo, come si sa, è un genere a sé. In poesia, in musica, in retorica, in fotografia, nello sport. Ma anche nella dialettica dei contrari e dei paradossi. Anche nella metodologia quantitativa. Il virtuosismo – l’assolo del jazzista, l’arringa del principe del foro, l’ardita correlazione statistica, il numero del campione – ha infatti un valore che trascende la finalità generale dell’agire. Esprime e trasuda uno specifico sapere, una specifica abilità del protagonista, che va apprezzata non per un risultato che consegue o per la sua coerenza con il contesto, con le attese fondamentali di chi ascolta o legge o guarda. Il virtuosismo è un esercizio a sé. Compiuto d’improvviso dentro una trama ordinata e prevedibile, senz’altro scopo che di rimarcare la diversità dell’attore. Oppure inventato proprio per sfidare l’ambiente ostile e diffidente. O ancora trasformato in spettacolo autonomo perché quello si intende proporre, nella sua interezza, come distillato di storia, di bravura e di estro. Leggere Il segreto come fosse un’altra cosa equivarrebbe dunque a precludersi la possibilità del suo godimento estetico e letterario. Perché nella narrazione, nell’accostamento dei suoni, nella scelta raffinata delle parole, nel rimescolio incessante delle ascendenze nobili della moderna letteratura italiana, si muovono le informazioni apprese e delibate con il palato dell’intenditore da un professore di italiano aduso a navigare con animo critico e contemplativo nell’oceano della parola, della parola plasmata dentro le altre e alle altre riannodata in miliardi di combinazioni. L’Autore è d’altronde esplicito: Manzoni e Gadda soprattutto, spremuti con delicatezza incuriosita sopra una trama di inumane ingiustizie e di eterne disuguaglianze sociali. Una trama che non appare affatto estranea alle sensibilità e alle intuizioni che egli ha potuto elaborare attraverso la sua più diretta tradizione di vita. Sicché il virtuosismo prende talora il volo verso l’esperimento letterario, quello del matrimonio tra il timbro del grande romanzo del nord lombardo e la vita sociale del sud raccontato da Verga o da Silone, lo stesso sud che l’Autore trasporta da decenni con orgoglio nella sua quotidianità padana. Ha ragione De Santis a dire che il proprio racconto esce dai filoni e dagli stilemi della narrativa odierna. Come non vederlo, come non capirlo dopo solo due righe ? Né si fa fatica a capire come mai lo stesso racconto non abbia propriamente suscitato l’entusiasmo di editori e critici letterari. Questi ultimi cercano prodotti per un mercato definito; sul quale non c’è, sembra almeno non esserci spazio per il virtuosismo di un’opera prima, per il pezzo di bravura di un autore sconosciuto. Essi hanno dunque alcune buone ragioni. Ma per quale ragione il lettore colto dovrebbe a sua volta vietarsi il piacere raffinato e felicemente ozioso di misurare la capacità di un autore di giocare con le parole, di ammaestrarle al cambiamento di epoca e di ambiente, di stenderle su trame a loro estranee ? Anche perché sotto il gioco prezioso si muovono e baluginano, come serpentelli inquieti e fosforescenti, i concetti veri, realissimi, rielaborati dall’Autore nella sua generosa esperienza di impegno sociale, culturale e politico. De Santis professore di italiano e giocoliere di vocaboli è infatti anche De Santis animatore instancabile di scuole e circoli, inventore inesauribile di luoghi e strumenti espressivi, trascinatore appassionato di cittadini con l’uzzolo monello della civiltà e della democrazia. Lo sperimentatore del linguaggio fa tutt’uno con l’uomo che impara la corposità e le sfumature della vita sociale e che, imparandole, continua ad aggiustare – con pazienza, con duttilità – le sue categorie intellettuali. Tanto che, alla fine, è forse questa la maggiore ragione di interesse del libro. Di essere scritto da un Autore continuamente proteso verso il futuro, che si avvicina alla dimensione narrativa sprigionando con naturalezza dalla mente modernissima il linguaggio del romanzo preunitario. Basta capirlo, basta saperlo, perché la curiosità diventi spinta piacevole e invasiva. |
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