Di professione fa il medico chirurgo,
Marco Cafferati. Ma i cinque mesi trascorsi in Aghanistan, con Emergency,
vanno ben al di là di una normale esperienza di lavoro. "Segnano"
in profondità. Utilizzando Internet, Marco Cafferati ha raccontato
in diretta le sue esperienze afgane agli amici che lo hanno seguito e sostenuto.
Anche noi del Risveglio abbiamo intercettato alcuni di questi vividi e
intensi resoconti, e ne abbiamo pubblicato alcuni stralci nelle scorse
settimane.
Ora che è tornato a Torino
ed ha ripreso il suo lavoro all'Ospedale di Chieri, l'abbiamo contattato
direttamente. Questa sera sarà a Rivarolo, a raccontare quanto
ha vissuto.
Dottor Cafferati, quali sono i ricordi
più vivi che si è portato a casa dall'Afghanistan?
Certamente l'aver toccato con mano
che cosa vuol dire la guerra. Come vive un paese che esce da 23 anni di
guerra, e ne ha ancora addosso i segni… Questa è la cosa più
grossa: arrivare a contatto con la guerra. Finirci in mezzo è la
cosa che, a livello interiore, ti fa più riflettere.
Quale idea si è fatto dell'Afghanistan?
Quale ruolo, nella ricostruzione, possono giocare le organizzazioni internazionali,
sia quelle statali, istituzionali, sia quelle non governative?
La situazione, dopo 23 anni di guerra,
non è ancora stabilizzata. Soprattutto al Sud c'è ancora
una feroce guerriglia. I talebani stanno rialzando la testa. E' già
un miracolo che da un anno e mezzo circa non ci sia la guerra 'classica'.
Che cosa deve fare l'Occidente? Certamente deve promuovere seriamente la
pace. Aiutare economicamente - e non solo - questo paese ad uscire dalla
guerra. Manca totalmente un qualsiasi tessuto sociale e civile, una
presenza dello Stato, nelle cose più basilari. Penso non ci sia
nemmeno una vera anagrafe. I morti se li portano a casa in braccio e tutto
finisce lì! Il paese è totalmente da ricostruire, e, da solo,
non ce lo può fare! Le organizzazioni umanitarie, sia quelle governative
che non governative, devono stargli vicino. A dire il vero, a Kabul queste
si vedono dappertutto: si vedono transitare macchine delle Nazioni Unite,
della Croce Rossa, di Médicins sans frontière, di Emergency…
Ce ne nono tantissime e, certamente, fanno molto. Anche come cristiani
dobbiamo portare avanti un'idea di pace. E' praticamente impossibile che
la guerra risolva qualcosa. I talebani sono scomparsi. Ma quelli erano
soltanto l'ultimo problema, in ordine di tempo. Io sono convinto che la
pace vada portata avanti con più energia, più decisione,
da parte di tutti.
In Afghanistan c'è un forte
conflitto etnico locale. Che cosa si può fare dall'esterno, per
aiutare a comporre i conflitti?
Veramente poco… Soprattutto aiutare
lo stato ad essere stato. Gli scontri che ancora ci sono al Sud sono fra
le truppe governative ed i talebani. Occorre essere vicini allo stato,
per aiutarlo ad addestrarne l'esercito, e contrastare i signori della guerra
locali. Se lo stato è debole, viene travolto da questi “commander”,
questi signori della guerra che fanno il bello ed il cattivo tempo, e tiranneggiano
la popolazione.
E, a livello sanitario, la situazione
è la stessa?
Nel 2001 l'Afghanistan è
stato classificato come il paese peggiore, a livello di mortalità
infantile, e di presenza di rifugiati. Il disastro è totale, anche
a livello sanitario: come mancano le strade ed i servizi, così manca
l'assistenza sanitaria. Adesso si sta ricostruendo, ma i bisogni
sono enormi. La gente arriva in Ospedale dopo ore, talvolta giorni di viaggio.
Torniamo alla sua esperienza
personale come medico, in Emergency. Quali sono stati i lati positivi,
e quali le difficoltà?
Momenti difficili ce ne sono stati,
senza dubbio. Io sono una persona decisa, e cerco di andare fino in fondo
alle cose. Tuttavia devo ammettere che momenti difficili ne ho vissuti
più di uno. Per cominciare, la durata del servizio. Non ero mai
stato cinque mesi lontano da casa. Anche se sono single, ho moltissimi
amici, e sono attivo nella mia parrocchia di San Benedetto, a Torino. Starne
lontano mi è pesato molto. Questa per me non era una scelta di vita
duratura, a differenza di molti altri collaboratori, medici ed infermieri,
che lo fanno per professione, nella Croce Rossa, in Medicins sans Frontière…
Da questo punto di vista, è mancato più a me l'affetto delle
persone lontane. A livello professionale, poi, mi hanno messo a fare delle
cose che non avevo mai fatto. Lo sapevo… Ho passato alcune notti insonni,
nell'ansia di quello che avevo fatto. Per cinque mesi la routine è
sempre stata casa - ospedale, senza quasi possibilità di staccare.
Ti manca la possibilità di 'ricaricare le batterie'.
E le cose belle…?
Ne potrei parlare per ore! Tra queste,
il rapporto con gli afgani, a cominciare dal personale dell'ospedale.
Ci siamo lasciati fra le lacrime. Il rapporto è stato veramente
piacevole, pur nelle differenze, anche di religione e di cultura. Abbiamo
fatto delle discussioni amichevoli ma vivaci, per il fatto che non condividevo
alcune idee dell'Islam. Da cristiano, dicevo loro: non è possibile
che mettiate in bocca al vostro Dio delle idee così sciocche! Dio
non la pensa così! Anche il rapporto con i pazienti, i bambini in
particolare, è stato spesso affettuoso. I bambini venivano a chiedere
un po' di tutto: penne, batterie per la radio…
Questa esperienza, nella forma in
cui l'ha vissuta lei, si sente di proporla ad altri? Intendo dire quella
di un periodo limitato…?
La consiglierei a chiunque. Ma non
è una cosa da tutti, penso. Non è come andare a passare tre
settimane di missione in Africa. Occorre essere convinti di ciò
che si fa, e consapevoli delle difficoltà che si incontreranno.
Che è un esperienza dura, quanto al lavoro e alle difficoltà
di ordine psicologico. Con Emergency si lavora davvero in prima linea,
fra pochi confort e molte difficoltà. In ogni caso, lo consiglio
a chiunque, ma sappiate che lavorerete forte; non sarete in posti comodi…
Comunque non posso non consigliarlo, a chi si sente pronto, e mette
in conto il tutto.
d.p.a.