Erano passati tanti anni e mi accorsi,
proprio quel giorno, di come il tempo avesse cambiato le cose. Ci ritornavo,
in quel luogo, come per cercare qualche segno: quell’albero, quell’umile
lampada gialla sull’alto palo di legno che, nelle notti estive, serviva
solo a rischiarare il gioco mortale dei moscerini, oppure l’orto dalle
grosse zucche gialle, il grosso cane mutilato a tre zampe che saltellando
cercava, senza riuscirci, di abbaiare. Cercavo quei muri, lebbrosi per
le ferite aperte nei quali il rosso sangue di qualche mattone si era imposto
ed aveva rotto la gabbia opaca della calce.
Mi stupii di grossi alberi messi
in filare ma poi pensai che avevano avuto tanto tempo per crescere. Lo
spazio dell’orto c’era, ma era uno spazio inerte, vuoto, senza senso. Il
vecchio cane, muto e zoppo naturalmente non c’era più; altri, ben
nutriti, abbaiavano annoiati al mio passaggio. Quello che veramente desideravo
ritrovare, erano quei vecchi muri che avevo lasciato solo alla memoria.
Erano stati compagni di giochi, e spesso pensavo che erano così
vecchi da essere da sempre esistiti; come quei pochi mattoni uscenti da
quella grezza superficie che, oramai non interessavano più a nessuno,
nemmeno al tempo. Alcuni li rividi e mi accorsi che ne avevano cambiato
più volte l’utilizzo: resi schiavi di un compito che non avrebbero
mai voluto, come parti di recinzione, di magazzino, improvvisati “garage”
o più tristemente, semplicemente integrati in nuove costruzioni,
privati insomma della loro libertà. Mi ricordo di quando, ragazzo,
camminavo rasente ai muri miei, percorrendoli col dito indice e del piacere
sottile che ricevevo da quel contatto rude e continuo senza interruzione.
Costeggiandoli dall’esterno, i vecchi
muri slabbrati, solo loro, lasciano trasudare smorzati rumori antichi;
sono invecchiati insieme ad essi, oramai quei rumori appartengono ai mattoni
ed a coloro che, come me, li sentono familiari. Sono suoni di arnesi, per
campi o vitigni, mescolati ai rumori di sempre, dei cortili ove guazzano,
quasi allo stesso modo, uomini e animali, rumori che, a seconda della stagione,
variano, ora esplodendo, ora attenuandosi, ma sempre filtrati e riproposti
all’infinito con monotona successione. Sono gocce di rumore quelle che
paiono scendere da quei mattoni, senza cadere mai, strisciando lentamente
su di essi, fino a farsi cogliere da quelle lunghe e ricurve foglie d’erba
addossate al muro, che già tendono ad esse. Quel giorno, erano passati
più di quarant’anni, mi ricordai di un piccolo e antico campanile
ai bordi di un prato declinante a valle; e anche le stanche viti che tentavano,
da sempre, di arrampicarsi su quelle antiche pietre, finendo solo per abbracciarle
inutilmente. Era, il campanile, costruito con pietre esposte, strutturalmente
semplice, ma molto diverso da quelli che già conoscevo (seppi, più
tardi che il suo stile era “romanico” e che il suo tempo era dell’anno
mille o poco più). Aveva due serie di bifore che lo rendevano meno
severo e, fors’anche più bonario degli altri.
Una piccola chiesa cadente, ricordavo,
gli si aggrappava ai fianchi, quasi a chiedere protezione e aiuto contro
l’incuria e il tempo. Sapevo che non era lontano e gli andai incontro sperando
quasi di essere atteso, da tanto tempo, anch’io; il ricordo univa ora più
cose, tanto diverse, ma ugualmente interpreti di una vecchia storia, strana
e già antica. Ero con mio padre e mia madre, ricordavo, avevamo
pedalato tanto, quel giorno, per arrivare fin là, in alto, su quella
lunga collina morenica da cui saremmo poi scesi, per ritornare a casa solo
verso sera. Guardavamo sempre stupiti e con timor reverenziale, quella
piccola chiesa malandata che aveva, in una lotta impari coi rovi e il tempo,
perso la metà di se stessa e quel campanile che invece resisteva
integro nella sua struttura anche se, certe piante rampicanti gli si erano
attorcigliate intorno, e ne avevano poi raggiunto la sommità dove,
stanche pure loro e sconfitte, erano poi morte. Tutti gli anni, quando
facevamo lo stesso percorso, ci fermavamo ed entravamo in mezzo ai rovi
per vedere se quel piccolo pezzo di affresco un po’ nascosto dall’edera,
esistesse ancora: era un pezzo di muro antico affrescato di non più
di due palmi per lato, dove era dipinta una grossa mano tozza, che tratteneva
con forza un grande libro, ogni volta oggetto della nostra curiosità.
Di quel lontano giorno, mi ricordai anche una vecchia e piccola donna dai
molti vestiti messi uno sull’altro, che abitava una casa con una bassa
porta, come se tutto, casa e porta, fosse stato costruito appositamente
per lei. Quella piccola casa era, allora, lambita dall’ombra del campanile
e unita ad esso da una trasandata rete metallica. Quella vecchia donna
sembrava quasi ci attendesse, offrendoci, quel giorno, un po’ d’ombra di
quel suo campanile come cosa preziosa di cui approfittare.
Non mi detti ragione, allora, di
un lunghissimo nudo tavolo di castagno, che stava sotto il pergolato; forse
un giorno quella donna aveva apparecchiato per tanti, che poi l’avevano
salutata e lasciata in sola compagnia di quell’ombra.
Rinvenni da questi ricordi pensando,
con un po’ di timore e tristezza, che forse stavo andando, senza volerlo,
ad uno strano appuntamento, non cercato, non voluto; stavo andando verso
quel miscuglio di cose che avevo lasciato da tanti anni, quasi a voler
fondermi e accompagnarmi a loro. Ritornai a pensare al racconto di quella
donna in quel lontano giorno: sedeva normalmente, ci disse, all’inizio
del tavolo, al mattino d’estate o di primo autunno, scodellando una tazza
di caffè con la buona abitudine di apparecchiare ordinatamente con
tovaglia e cucchiaini, avendo sempre come dirimpettaia, sul lato estremo
del lungo tavolo, una gazza; sì, proprio una gazza. Si conoscevano
da tempo oramai, avevano passato più stagioni insieme, guardandosi
al mattino e parlandosi confidenzialmente; avevano inoltre cose in comune,
sicuramente la solitudine e la piccola ombra da dividere e da rincorrere
nei caldi giorni estivi. Mi ricordai che raccontò che la gazza,
le ultime due stagioni, le aveva rubato sei cucchiaini d’argento volando
poi oltre il pergolato e che gliene rimaneva oramai uno solo.
Non compresi, allora, perché
proprio sette fossero i cucchiaini, ma in ogni caso quella gazza mi divenne
simpatica e da quel momento anche la donna che non riusciva a capire dove
si fossero involati quei cucchiaini. Riuscii ad immaginarmi, dopo ogni
sparizione, una dirimpetto all’altra, la donna che insisteva con la gazza,
per sapere dove avesse nascosto il cucchiaio rubato qualche giorno prima.
Molto lontano, raccontava lei, poiché ad ogni furto corrispondevano
sempre, successivamente, tre giorni di assenza, il tempo cioè, di
volare lontano e ritornare al proprio posto, al solito tavolo.
Cercai di ripercorrere col dito
quei vecchi muri fino alla piccola casa rossa della vecchia, ma la rude
superficie era quasi sparita, per cui rinunciai. E la rividi ancora con
la memoria quando, in mezzo ai rovi e a quel pavimento sconnesso all’interno
di quella chiesa, ripuliva, strofinandolo con cura, quel pezzo di affresco
antico di secoli, con quel grande libro serrato da una mano forte e nodosa.
Mi ricordai che ci disse, allora, che, abitualmente, puliva quel pezzo
di muro dipinto perché era la sola cosa che rimaneva di un santo
uomo cui s’era, in fondo, un po’ votata e, di un sacro libro che diceva
di aver letto, in chiesa da giovane. Non ebbi subito il coraggio di alzare
lo sguardo per verificare se quell’antico campanile era sempre là,
dove l’avevo lasciato, ma quasi subito mi si parò davanti, sempre
uguale, altero e umile nello stesso tempo. Era ormai imbrigliato da tante
strutture metalliche che gli stavano intorno, atte a consentirne il restauro.
Mi spiacque, e, pensai che tutto
era veramente svanito, la vecchia, la gazza ed ora il campanile, prigioniero
di quell’intreccio di ferro e di legno e che, dopo essere stato restaurato,
non sarebbe più stato lo stesso. Anch’io, da quel momento, non sarei
più stato lo stesso. All’uomo, vecchio e magro, che sedeva, ora
sotto il pergolato e che quasi si confondeva con quelle viti grosse e nodose,
chiesi se sapeva della storia della gazza ladra e della donna che aveva
abitato quella casa. Non mi rispose, entrò ed uscì quasi
subito con un piccolo cucchiaio che luccicava a tratti sotto quelle foglie
a frangisole ed agitandolo nervosamente mi disse che quello era l’unico
che la gazza non avesse rubato, perché sua madre, tale era la vecchia
che aveva abitato quella casa, era morta prima di averle dato il tempo
di involarsi con quell’altro, l’ultimo. Mi disse anche che la gazza era
tornata ancora qualche volta al mattino, dopo la morte di sua madre, aspettando
che uscisse da quell’oscura porta con tazza e cucchiaio, ma che poi era
sparita per sempre.
Una cosa quell’uomo mi disse con
uno strano e triste sorriso: fra quegli anfratti di antiche pietre, in
alto, un operaio che lavorava al campanile per il restauro, aveva trovato,
un giorno, sei cucchiaini d’argento. Certo, quella donna che aveva passato
la sua vita in quell’angolo tra il poco verde di una vite nodosa, i vecchi
mattoni rossastri di quella casa, quello strano uccello che sembrava recitare
una sua propria parte, rubando sistematicamente quel pezzo d’argento, e
anche quel campanile austero e impertinente che custodiva quel piccolo
tesoro con tanta cura, sembravano legati uno all’altro, avendo ognuno un
proprio ruolo già predestinato dentro un’unica storia. “Mia madre
credeva sempre che fossero tanto lontani i suoi piccoli cucchiai; mai avrebbe
potuto pensare che erano proprio sul suo campanile”; disse quasi vergognandosi
di commuoversi.
Lasciai quella casa subito dopo
e mi avviai verso quei rovi sempre uguali che avvolgevano i resti della
chiesa romanica, a cercare quel pezzo di affresco con la grossa mano che
serrava stretto quel grande libro, che quella vecchia senza tempo era andata
per tanti anni, a ripulire dai rovi e dalla polvere. Forse, proprio in
quel libro, stava già scritta, da sempre, la storia della vecchia,
della gazza e del campanile.