IVREA - Caro direttore, desidero
esprimere tutto il mio apprezzamento per l'intervento di Rosanna Barzan,
apparso sul Risveglio del 9 maggio. Le sue perplessità circa alcune
riserve da me espresse nei riguardi della relazione sulla situazione israelo-palestinese,
tenuta dal Patriarca Sabbah ad Ivrea, non solo sono esposte con compostezza
e civiltà, ma mostrano chiaramente di essere ispirate da un suo
maturato e sofferto approfondimento di tutta quella problematica.
Ciò mi stimola ancor più
a riprendere e a proseguire il colloquio avviato con lei e con tutti i
lettori sul tema della pace. Tema singolarmente vivo, condiviso e vitale.
Tema che non riguarda solo la Palestina e Israele e neppure solo tutti
gli altri innumerevoli focolai di guerra e di violenza, ma investe tutti
i rapporti degli uomini tra loro. Quelli tra gli individui e quelli tra
le collettività.
Il "perdono", da chiedere e, simultaneamente
o immediatamente dopo, da offrire all'altro, è, a mio avviso, condizione
strutturalmente necessaria per avviarsi e procedere in ogni sincero percorso
di ricerca e di costruzione della giustizia e della pace. Essere strutturalmente
necessario non significa però essere facilmente percepibile come
tale. Tutti i valori che rendono l'uomo più uomo sono frutto di
una lunga e faticosa conquista, anche se sono ontologicamente inscritti
nella sua struttura. L'umanità in cammino va solo via via intuendoli.
Ne prende solo progressivamente conoscenza e consapevolezza, e solo gradualmente,
nel laborioso processo di evoluzione e crescita, li acquisisce e assume
come solidi riferimenti per la comprensione della realtà e l'assunzione
di comportamenti adeguati alla nuova conquista. Profeti sono, tra gli uomini,
quelli che con anticipo, a volte enorme rispetto alla maturazione della
collettività umana loro contemporanea, colgono e proclamano l'evidenza
di questi elementi strutturali costitutivi e la necessità di rispettare
le condizioni che essi pongono.
Da duemila anni il "perdono" è
stato proclamato con forza nei vangeli (cenni si trovano anche prima, nel
Vecchio Testamento) come una delle irrinunciabili manifestazioni dell'amore.
E quest'ultimo come sorgente della vita e criterio di regolazione dei rapporti
tra gli uomini per assicurare l'armonioso sviluppo dei singoli e dell'umanità.
Pur restando fedeli nella trasmissione del messaggio, le chiese, che nella
storia se ne sono fatte portatrici, hanno condiviso con l'umanità,
di cui sono parte, le leggi e la fatica di una crescita, che non può
essere che graduale. Hanno conosciuto, in sé e a volte fuori di
sé, l'esistenza di voci profetiche, che hanno ridato forza alla
proclamazione del messaggio. Ma nella prassi e nella elaborazione teologica
hanno dovuto accontentarsi di una lenta e faticosissima crescita. Lo dimostra
il fatto che si è potuto disquisire per secoli sulle condizioni
che possono rendere la guerra giusta!
Solo recentemente la chiesa cattolica
ha dichiarato, per bocca di Giovanni Paolo II, che il "perdono" è
fattore costitutivo della giustizia. Ed è pur vero che essere riusciti
a dichiararlo non significa ancora averlo introiettato nei comportamenti!
È poggiando su quell'acquisizione,
peraltro, che ho osato sperare in un segno: la chiesa di Gerusalemme capace
di chiedere e di offrire perdono.
Dal brano della omelia pronunciata
dal patriarca Sabbah lo scorso Natale a Betlemme, citato nella lettera
di Rosanna Barzan, direi che, se ancora non l'ha fatto, forse vi è
arrivata vicino. Assai più di quanto non ero riuscito a dedurre
dalle parole pronunciate dallo stesso patriarca nell'incontro ad Ivrea.
Quando si portano "nelle nostre
preghiere i sentimenti di tutti i poveri di questo conflitto: i forti e
i deboli,… coloro che ricevono l'ordine di uccidere e coloro che lo impartiscono",
quando "Li presentiamo tutti a Dio perché li purifichi e li renda
tutti, sì tutti… capaci di amore e di giustizia e di pace.", molta
strada si può credere sia stata fatta nella direzione di saper chiedere
e saper offrire "perdono".
Un'ultima considerazione. I profeti
anticipano, rispetto ai loro coetanei, la lettura e l'interpretazione delle
strutture della realtà in cui siamo immersi e a cui apparteniamo.
In questo alcuni di loro sono sostenuti dalla fede nel Dio creatore di
questa realtà. Non è però questo un requisito indispensabile.
Si possono dare letture profetiche anche da parte di persone che non hanno
questo tipo di fede, ma hanno fede nel "senso" dell'universo in cui viviamo,
e cercano di penetrarlo, osservandolo con occhi di amore; e guardano con
occhi di amore, i soli che riescono realmente a vedere, tutti gli uomini,
compresi quelli in cui le vicissitudini della vita hanno fatto maturare
sentimenti di odio e inclinazione alla violenza.
Comprendono allora, anche se non
è la fede nel vangelo a ispirarli, che l'unico modo per fermare
e smontare l'odio, prima in sé e poi nell'interlocutore, è
prima chiedere e poi offrire perdono. Nessuno è immune dall'aver
dato e ricevuto offesa. Nessuno è in grado di pesare con unità
di misura, indiscutibili per sé e per l'altro, l'offesa data e quella
ricevuta. Le offese date e quelle ricevute non possono essere computate
a debito e a credito per "fare giustizia". Fare giustizia nell'insegnamento
della bibbia è "ripristinare nell'originale situazione ontologica",
"è restituire alle originarie potenzialità e promesse di
vita". Originarie non nel senso di quelle possedute prima, ma nel senso
di "reclamate", e quindi "dovute" in ragione del pieno diritto all'esistenza
e allo sviluppo di ciascuno. La giustizia ha il respiro e le ali del futuro.
Non si può fare giustizia lasciandosi zavorrare dal passato.
Sono pensieri e aspirazioni che
scivolano nell'utopia? Che si reggono su insegnamenti etici troppo elevati
per trovare applicazione nelle prosaiche vicende di cui sono intessuti
i conflitti quotidiani? Che solo la follia della fede può suggerire?
No. Sono conclusioni cui anche la
laica, purché meditata, lettura della storia permette di pervenire.
Con la constatazione impietosa e l'analisi sincera dell'esito fallimentare
di tutti i conflitti passati, nessuno dei quali si può dire approdato
a una vera e durevole pace, e il consolante riscontro della felice composizione
della lotta per l'eliminazione dell'apartheid in Sud Africa, unico conflitto
coronato da un'ampia e convinta applicazione del perdono. Conclusioni che
oggi, dunque, dovrebbero cominciare a imporsi per la loro intrinseca evidenza.
Conclusioni che una buona porzione di umanità possiamo sperare abbia
acquisito, se è questo il senso profondo, magari non ancora del
tutto consapevolmente esplicitato, delle dimostrazioni a sostegno della
pace, aspirazione in questi nostri giorni così largamente diffusa.
Cordialmente
giorgio jannuzi