Il card. Giacomo Lercaro, Arcivescovo
di Bologna, nell'elogio funebre racchiudeva i 58 anni di vita di Mons.
Luigi Santa in queste parole: "L'esperienza ormai lunga e la sua viva intelligenza
lo rendevano rapido nel decidere, fermo nel volere, lineare sempre nelle
intenzioni, alla mano con tutti, aperto, faceto. Rimaneva il missionario
a cui la dignità episcopale portava soltanto un più acuto
senso di responsabilità e un'ansia più profonda per le anime.
Conservava la robustezza degli anni giovanili e corse incessantemente la
Diocesi, come aveva corso la Missione, presente a tutti e vicino cordialmente
a tutti".
Leggendo i due libri scritti su
Mons. Luigi Santa ( La Croce e il Pastorale di Maria Massani, ed. Missioni
Consolata, 1963 e Due terre una missione di Angelo Montonati, ed. EMI,
2002) si incontrano tanti episodi, tante testimonianze e tanti suoi scritti
che confermano le parole del card. Lercaro.
Un uomo dalle idee chiare
La prima giovinezza, che abitualmente
è l'età in cui si cambia idea facilmente e si imboccano strade
che poi si abbandonano dopo pochi passi, per Luigi fu la stagione delle
certezze. Mons. Borra, suo insegnante al Liceo, lo ricorda così
in un articolo apparso sul Risveglio Popolare il 4 giugno 1953: "La figura
di Luigi Santa è sempre stata al di sopra di tante altre pur degne
di rilievo, per un complesso di qualità che non troppo sovente si
trovano unite in una sola persona. Nei miei quaranta anni di insegnamento,
ho incontrato ingegni più fervidi e scintillanti; ma assai spesso
si accompagnava, come contrappeso, la svogliatezza, l'abituale pigrizia
e magari la presunzione di tutto sapere senza una seria applicazione.
Nel chierico Luigi Santa, invece,
tutte le qualità positive si trovavano in una armoniosa unione,
che naturalmente si riflettevano poi in tutto il suo essere: nella sua
vita interiore altamente spirituale; nel contegno sempre conveniente, senza
essere ricercato; nella condotta sia verso i compagni con i quali dimostrava
una serena ed equilibrata familiarità, sia verso i superiori ai
quali dimostrava una rispettosa docilità, senz'ombra di servilismo,
o, come si dice in gergo studentesco, di violineria".
Anche per la scelta missionaria
Luigi ebbe subito le idee chiare; ma il Vescovo di Ivrea, Mons. Filippello,
forse perché temeva di perdere un prete troppo prezioso per la sua
Diocesi, più volte gli negò il permesso di entrare nell'Istituto
dei missionari della Consolata, come avrebbe desiderato.
Luigi disobbedì al
Vescovo e giustificò la sua ribellione, scrivendo queste parole
a don Adamini: "Il Signore vuole forse da me il sacrificio di una partenza
non benedetta da Monsignore e mi accingo ad agire silenziosamente, ma decisamente".
Soltanto l'anno dopo il suo ingresso
tra i Missionari della Consolata di Torino arrivò a don Santa la
benedizione del Vescovo.
La lucidità di vedute lo
accompagnò per tutta la vita e gli evitò di sbagliare nel
momento di fare delle scelte di responsabilità, sia in Africa, sia
come Vescovo di Rimini. Seppe dimostrare che molto spesso basta saper ascoltare
tutti con pazienza, per rendersi conto che il bene può essere di
casa dove meno uno se lo aspetta; e, in una regione politicamente a sinistra
come era la Romagna, questo principio lo aiutò a risolvere molte
situazioni delicate e a ristabilire l'equilibrio fortemente scosso tra
autorità civili e religiose.
Nel trattare con i suoi sacerdoti
si lasciava guidare più dal buon senso che dal Diritto Canonico.
Si racconta che un giorno, durante un incontro del clero, venne fuori la
questione se i preti dovessero portare il cappello, detto familiarmente
"saturno" o il basco, più comodo e meno vistoso. Si accese una discussione
vivace tra il clero, con riferimenti teologici, dogmatici e pastorali.
Mons. Santa lasciò che i
preti si sfogassero, dimostrando tutta la loro erudizione e le loro capacità
dialettiche. Alla fine decretò solennemente che la sua unica
preoccupazione era che i sacerdoti avessero la testa.
Missionario dal cuore grande
Mons. Santa aveva la missione nel
cuore.
L'Etiopia degli anni venti e trenta
del secolo scorso era una regione in cui le turbolenze politiche e militari
non permettevano ai missionari di dedicarsi con tranquillità e pienamente
alla cura delle anime: vivevano in clandestinità, visitando i cristiani
del paese camuffati da mercanti, falegnami, rappresentanti di macchine
da cucire, venditori di miele e candele; vestivano abiti "borghesi", erano
perseguitati e, se scoperti, erano fatti schiavi, uccisi o, nel migliore
dei casi, espulsi.
Mons. Santa nei primi dei 18 anni
di missione in Africa fece il maestro elementare, il magazziniere e l'incaricato
di organizzare le carovane che dalla capitale viaggiavano verso l'interno,
portando aiuti ai più poveri.
Nel 1925, in una lettera inviata
alla Superiora delle Suore di Betania del Sacro Cuore di Vische, mentre
chiedeva il sostegno della loro preghiera, così scriveva: "l'Etiopia
è sempre un paese di catacombe. Le popolazioni non sarebbero cattive;
ma c'è un numerosissimo clero eretico copto, appoggiato dal governo,
che ci sorveglia continuamente per cogliere un'occasione propizia di farci
dare uno sfratto completo. E noi siamo qui, in abiti di commerciati e di
infermieri, costretti quasi a respingere le pecorelle erranti che vengono
spontaneamente a noi, obbligati a gemere sommessamente nel silenzio delle
nostre cappelle nascoste".
Il 9 maggio 1936 Mussolini proclamò
l'Impero e l'Etiopia divenne italiana.
La missione di Mons. Santa, prima
Vicario e poi Vescovo di Gimma, si complicò ulteriormente: il suo
impegno pastorale ebbe di mira un unico obiettivo: smentire agli occhi
degli Etiopi ogni ipotesi di legame fra l'opera missionaria e l'occupazione
militare italiana.
Arrivò, infine, la guerra
con gli Inglesi, il bombardamento e la capitolazione di Gimma, l'arresto
di Mons. Santa e di altri missionari, il processo, la deportazione, il
campo di prigionia e il rimpatrio forzato in Italia.
In questo periodo così travagliato
il grande cuore missionario di Mons. Santa, stando alla testimonianza di
chi gli fu vicino, seppe aiutare tutti con grandi sacrifici e generosità.
Anche a Rimini fu un missionario.
Ci arrivò che la guerra imperversava:
la città subì in meno di un anno 396 bombardamenti tedeschi,
con 607 morti. Il 90 per cento delle chiese e delle case parrocchiali della
diocesi furono distrutte o comunque subirono danni gravi.
La ricostruzione richiese lavoro,
pazienza, collaborazione, fiducia illimitata. Mons. Santa rimase il missionario
di sempre: mite, accogliente, pieno di amore per tutti, povero.
La spiritualità di un
modello di vita cristiana
Era convinzione di tanti suoi contemporanei
che Mons. Santa fosse santo di nome e di fatto, un vero "uomo di Dio".
A questa conclusione si può
arrivare anche oggi, 50 anni dopo la sua morte: è sufficiente leggere
una piccola parte della sua corrispondenza, numerosa e interessante, specialmente
quella che riguarda la missione in Etiopia; o alcune della sue lettere
pastorali, scritte da Vescovo di Rimini; o i testi e gli appunti della
sua predicazione, degli esercizi spirituali e dei ritiri.
E' vero: il linguaggio usato fa
capire che parecchi aspetti della sua spiritualità oggi appaiono
lontani; ma l'essenziale di ogni spiritualità, cioè la fedeltà
al progetto di Dio, sono sempre in piena luce.
Mons. Luigi Santa ha sempre avuto
la fede di un contemplativo: anche nei momenti in cui le esigenze pastorali
impegnavano la maggior parte del suo tempo in mansioni organizzative e
in attività materiali, dava molto spazio alla preghiera e all'adorazione
eucaristica. E se le ore del giorno non erano sufficienti, sacrificava
parte della notte. A Rimini ancora oggi ricordano la Peregrinatio Mariae
che organizzò, in preparazione all'Anno Santo del 1950 e il Congresso
Eucaristico del 1952. In quella circostanza scrisse una lettera pastorale
in cui raccomandava: "visitare Gesù quotidianamente, portare a lui
i nostri affanni, le nostre preoccupazioni e le nostre necessità,
raccomandare a lui le persone vicine e lontane, chi ci fa del bene e chi
ci ostacola, domandare la sua benedizione sopra i nostri progetti, iniziative,
e imprese: questa è 'fede vissuta'".
Aveva scelto come motto episcopale:
Si radix sancta et rami, se è santa la radice, sono santi anche
i rami. Non era solo un omaggio alla rigogliosità della foresta
africana, ma il programma di una vita, in cui si raccolgono i frutti solo
se si semina al momento giusto.
don gianni giachino