IVREA - La scomparsa della holding
Olivetti dal panorama finanziario e legale nazionale ha dato luogo, giornalisticamente
parlando, ad alcuni “coccodrilli” e a qualche commosso necrologio. A mio
sommesso parere, tuttavia, non sono state poste adeguatamente in luce le
ragioni che sottostanno all’evento. Lacuna che con queste brevi note cercherei
di colmare, anche per offrire al lettore qualche maggiore elemento di giudizio
(anche etico) sull’attuale tendenza del nostro sistema economico che vede,
pressoché impunemente, sprecare il capitale in operazioni strampalate,
riducendo al contempo le occasioni di lavoro, con il rischio di far uscire
il nostro Paese dal novero delle nazioni più industrializzate.
Non si comprenderebbero, infatti,
gli ultimi sviluppi della vicenda Olivetti, se non li si collegassero con
gli inizi della storia, e cioè l’uscita di De Benedetti nell’autunno
del 1996 e l’arrivo a Ivrea del suo principale collaboratore, Roberto Colaninno.
Per che fare? Sistemare in qualche modo i conti di un gruppo industriale
in grave difficoltà, liquidare le attività informatiche,
valorizzare al meglio gli assets rimasti, a cominciare dalle promettenti
attività telefoniche, tutto ciò in vista di un completo riassetto
aziendale. Un piano ardito e urgente, che di certo non prevedeva la liquidazione
della società, bensì il suo riposizionamento finanziario
e di business. Senonché, il progetto, del tutto legittimo, era destinato
a prendere tutt’altra strada in coincidenza con l’opportunità di
un’operazione del tutto inattesa, e apparentemente al di fuori della portata
della piccola Olivetti, consistente addirittura nell’acquisizione del controllo
della grande Telecom. Un’operazione ardita e inusitata per il nostro sistema
economico, sia per l’enorme quantità di capitale da investire (sino
a 52 miliardi di euro per il 100% del capitale interessato), che per gli
inconsueti aspetti giuridici, per lo sconvolgimento di poteri economici
consolidati, nonché per le implicazioni politiche (siamo al tempo
dei governi di centrosinistra presieduti da D’Alema), ma con illustri precedenti
nel mondo del capitalismo più sofisticato, in primo luogo negli
Usa.
Il tema era (ed è) il seguente:
in che modo dare l’assalto a una società di grande dimensione con
un presente e un futuro economico promettente, ma un capitale molto frazionato,
da parte di soggetti di minori dimensioni ma in grado di mobilitare una
quantità tale di capitali da consentir loro di formulare un’offerta
di acquisto appetibile per gli stanchi (o delusi) azionisti della società
da contendere?
E’ esattamente quel che è
capitato nel caso Olivetti-Telecom. Nella primavera del 1999, infatti,
la piccola Olivetti si permetteva di rivolgere alla grande Telecom un inusitato
attacco, offrendo agli azionisti di quest’ultima un prezzo altissimo (parte
in contanti e parte in titoli) per azione (11,5 euro), di molto superiore
ai corsi borsistici.
A fronte del probabile esborso,
la Olivetti poteva contare su mezzi propri per una decina di milioni di
euro (frutto della vendita delle attività telefoniche e di un aumento
di capitale), e inoltre di un’apertura di credito da parte di banche straniere
e nazionali sino a 20,5 miliardi di euro. Sappiamo tutti come l’operazione
si concluse a favore della Olivetti, che conquistò la maggioranza
del capitale Telecom e con la conseguenza di installarvi propri uomini
al comando. Una vittoria peraltro pagata a un prezzo assai elevato, e cioè
con un massiccio indebitamento verso il sistema bancario che, sulle prime,
sembrò sopportabile, per poi rivelarsi un’autentica palla al piede
del vincitore.
Nei sacri libri della cosiddetta
“business administration”, caldamente si consiglia di attenuare gli effetti
di acquisizioni mediante la cosiddetta “leva finanziaria”, per mezzo della
fusione della società attaccante con la conquistata, in modo da
trasferire a quest'ultima almeno parte degli oneri sostenuti per la sua
acquisizione.
Numerosi furono i tentativi in questo
senso da parte di Colaninno e soci nei due anni di conduzione di Telecom,
tutti andati a vuoto un po’ per l’opposizione della comunità finanziaria
rispetto a un marchingegno di dubbia legalità, un po’ per l’opposizione
dei soci di minoranza (i fondi, in primo luogo) rispetto a una operazione
il cui effetto principale consisteva nel rafforzamento del gruppo dirigente.
D’altra parte la stessa Olivetti (che si era assunta l’intero indebitamento
mediante la fusione con Tecnost) da sola non si trovava nella condizione
di far fronte a un indebitamento che nel febbraio del 2001 risultava essere
di oltre 17 miliardi di euro. Né, per la verità, gli utili
percepiti da Telecom potevano ritenersi sufficienti al bisogno, a tal punto
da ingenerare un vero e proprio allarme in Hopa e Bell, le società
finanziarie messe in piedi da Colaninno e Gnutti per il controllo di Olivetti
e, tramite questo, di Telecom.
In alcuni dei protagonisti (nonostante
il parere contrario di Colaninno), maturò allora la decisione di
passare il più rapidamente possibile alla cassa, realizzando le
plusvalenze che nel frattempo si erano generate. Occorreva soltanto che
un cavaliere bianco si mobilitasse in soccorso, e questi si materializzò
nella figura di Marco Tronchetti Provera, leader incontrastato di Pirelli.
La sua offerta di pagare 4,175 euro per azione Olivetti risultava troppo
appetibile per essere rifiutata e così, in tutta fretta, si mise
insieme un’operazione privatissima extraborsa, in forza della quale Olimpia
(la società strumentale all’uopo creata da Tronchetti Provera) acquisì
il 21,6 per cento di Olivetti (in seguito arrotondato) a un prezzo non
precisamente di affezione, pari a 7,2 miliardi di euro, pagati all’estero
e praticamente esente da tasse per i percettori. L’operazione risultava
evidentemente preordinata all’acquisto del controllo di Telecom, detenendo
la Olivetti la maggioranza del capitale con diritto di voto di questo.
A questo punto la cosa sembrava
conclusa, senonché due problemi si presentarono ben presto alla
nuova proprietà: come finanziare Olimpia dopo l’esborso e come aiutare
Olivetti a liberarsi dal pesante fardello dei suoi debiti. Un bel rompicapo,
dal momento che l’unica entità in grado di generare utili, e cioè
Telecom, si trovava al fondo della catena di controllo.
Ed ecco il colpo d’ingegno: portare
gli utili direttamente al debitore, mediante la fusione per incorporazione
di Telecom in Olivetti, in modo che i debiti di quest’ultima diventassero
debiti della prima, con doppio beneficio, fiscale e finanziario. Dopo molti
anni e traversie, l’operazione è così giunta al suo compimento:
far pagare i debiti del compratore al comprato (!).
“Contenti tutti”, così parrebbe
a leggere i commenti. Vero è che la Borsa non pare del tutto soddisfatta,
ma in seguito se ne farà una ragione. Anche gli azionisti di minoranza
in Telecom se ne dolgono per i concambi troppo favorevoli agli azionisti
Olivetti, ma senza dubbio si troverà il modo di tacitarli.
Chi veramente avrebbe motivo di
dolersi per siffatte operazioni al limite delle leggi sarebbe il sistema
delle imprese nel suo complesso, che ancora una volta ne esce impoverito
e travolto nelle sue logiche e nelle sue prospettive. Ma esso al presente
non ha voce, semmai solo rimpianti.
paolo carra