Cari amici di “Problemi e dialogo”,
ho seguito con interesse il dibattito
che si è acceso sul nostro settimanale in merito alla canonizzazione
di San José Maria Escrivà de Balaguer, ma, devo dire, anche
con una certa sofferenza, anzitutto per il tono di alcune espressioni che
suonano come veri e propri insulti.
Si può non condividere una
determinata spiritualità, ogni santo ha avuto i suoi condizionamenti
storici, i suoi limiti, i suoi peccati (una sola è l’Immacolata),
ma non si può ignorare la serietà e il rigore delle procedure
che la Chiesa segue per giungere alla beatificazione e poi alla canonizzazione
di un cristiano. Le procedure sono pubblicate e gli atti sono a disposizione
delle ricerche storiche. Inoltre, problemi e situazioni storiche complessi
in cui certi santi sono vissuti non possono essere liquidati sbrigativamente,
anche se non sempre si ha il tempo di leggere tutta la documentazione disponibile,
pro e contro, assai vasta; d’altronde la Chiesa non canonizza le scelte
storiche contingenti dei vari personaggi, ma il loro impegno a vivere integralmente
le virtù cristiane, anzitutto fede, speranza e carità. I
santi restano uomini e donne del loro tempo e del loro ambiente, e naturalmente
questo piace quando si tratta di santi con cui sentiamo una certa affinità
e urta quando si tratta di santi di cui, umanamente parlando, non condividiamo
quasi nulla. Questo vale per i santi antichi e per quelli contemporanei.
Molti santi, poi, sono stati, in vita e dopo morte, veri segni di contraddizione.
Se con la beatificazione la Chiesa
autorizza la venerazione del nuovo beato, con la canonizzazione abbiamo
una delle espressioni più alte del magistero pontificio che si impegna
nel dichiarare che quel tal cristiano ha raggiunto la gloria del Cielo.
Per accettare questo occorre, beninteso,
mettersi in una prospettiva di fede e allora, a certi livelli e su determinate
questioni, il magistero dei pastori diventa criterio sicuro per il nostro
cammino cristiano. Al n. 10 della Dei Verbum il Concilio ci ricorda che
Sacra Scrittura, Sacra Tradizione e Magistero sono tra loro intimamente
connessi e inseparabili, così che nessuno dei tre sta in piedi senza
gli altri due. I criteri per poterci dire cattolici sono primariamente
quelli che abbiamo ricevuto dal Signore attraverso gli Apostoli e la successione
apostolica che da loro giunge fino a noi. Se diventassimo selettivi (questo
papa sì, quello no; questo punto sì, quello no - anche il
vescovo Léfèvre si è comportato così) vorrebbe
dire che ci basiamo su altri criteri, diversi da quelli che il Concilio
e tutta la Tradizione precedente della Chiesa ci indicano.
Ma allora c’è ancora spazio
per il dibattito? La tradizione del nostro settimanale, specialmente nella
pagina di problemi e dialogo, è sempre stata molto aperta: è
uno spazio prezioso che permette di confrontarsi e di chiarire. Credo tuttavia
che almeno due limiti debbano essere rispettati: evitare le parole offensive
e non chiedere al nostro giornale di sposare posizioni che sarebbero in
contraddizione con la sua natura. Ascoltiamoci e dibattiamo pure, su tutto,
ma nel rispetto e nella chiarezza. Vale sempre l’antica regola: in necessariis
unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (nelle cose necessarie occorre
l’unità; in quelle dubbie c’è la libertà, in tutte
ci vuole la carità); bisogna però avere i criteri per distinguere
le prime dalle seconde.
Gli spazi che rimangono sono ancora
assai ampi, molto più che in altre “parrocchie”: purché li
utilizziamo non dico con tolleranza, che sarebbe troppo poco, ma con quell’amore
per il dialogo che quarant’anni di ecumenismo ci hanno già fatto
sperimentare con frutto nei confronti di tanti fratelli di varie chiese
cristiane. E sosteniamo molte altre cause di beatificazione e di canonizzazione,
per scoprire sempre più la presenza dei santi in mezzo a noi, essi
che sono il segno più bello della ricchezza e della varietà
dei doni dello Spirito del Signore. Cordialmente.
† arrigo miglio