Per la giornata dei migranti, vorremmo riscoprire una storia di un immigrato canavesano negli Stati Uniti. La dobbiamo alla penna del compianto monsignor Cesare Meaglia: è la storia del suo papà, di cui riportiamo alcuni stralci. Ci scusiamo per i 'tagli' apportati a un testo veramente ricco.
Mio padre, Guglielmo Meaglia, fu
uno dei bosconeresi “emigranti” in California.
Nato il 14 giugno 1882 a Bosconero,
a diciassette anni era già emigrato in Francia, dove lavorò
nelle ferrovie come manovale. Tornato in Italia per il servizio militare,
fu processato come renitente alla leva non essendosi presentato a tempo,
con i suoi coscritti, alla “visita”. Riuscì a evitare la prigione
dimostrando le difficoltà incontrate nel ritorno in patria.
Il 7 maggio 1910 sposò Teresa
Peila, mia madre. Avevano tutti e due ventotto anni.
Nel 1913, all’età di trentun
anni, mio padre partì per la California, lasciando al suo paese
natio la sua carissima sposa, una bambina di due anni e un bambino - chi
scrive - Cesare Matteo, di tre mesi. Lasciava il paese natio perché
“la vita era grama”. Dopo un mese di viaggio, assai disagiato, giunse a
Los Angeles. Allora - mi raccontò poi mio padre - l’attuale megalopoli
era poco più di un grosso villaggio e Hollywood si stava appena
sviluppando. Nel 1917, dopo quattro anni di permanenza a Los Angeles, facendo
“con duro lavoro e molti sacrifici” un po’ tutti i mestieri, era riuscito
a farsi una discreta “posizione” e, di conseguenza, manifestava alla moglie
Teresa il desiderio di avere con sé, riunita, tutta la famiglia,
come facevano quasi tutti i bosconeresi emigrati a Los Angeles. Mia madre,
nella lettera di auguri che scriveva al marito per l’onomastico - il 25
giugno, San Guglielmo - si diceva, pur con qualche perplessità,
pienamente d’accordo, perché “non era possibile che Dio, che li
aveva uniti in matrimonio, ora li volesse separare” ed era sicura che il
prossimo onomastico del suo sposo lo avrebbero festeggiato tutti insieme,
a Los Angeles.
Quella lunga lettera, di sei pagine
di quaderno, scritta con nitida calligrafia, ed in forma corretta e vivace
(mia mamma aveva fatto la seconda elementare) e che cominciava con “Stimatissimo
marito”, mio padre la conservò nel portafoglio fino al suo primo
ritorno dall’America - per sedici anni - e me la consegnò, un po’
ingiallita, con tanta delicatezza, quasi fosse una reliquia, dicendomi,
con evidente commozione: “Ecco, questa è l’ultima lettera che mi
scrisse tua madre, prima di morire. Ora tienila tu e leggila, qualche volta;
io l’ho letta e riletta tanto!”.
Mi pare di vedere la mamma che,
sferruzzando, culla dolcemente i suoi bambini. Nella fotografia che ho
sulla scrivania, accanto a quella di mio padre, la mamma ha un viso piuttosto
serio e pensoso, ma dolcissimo. Un vestito, forse confezionato da lei stessa,
semplice ma elegante, secondo il costume del tempo, al collo porta una
catenina d’argento con un ciondolo dentro il quale, forse, c’era la fotografia,
in piccolo formato, del suo sposo.
Nella lettera scritta al marito
seguivano parole di amore al “sempre carissimo sposo”, di coraggio, di
fiducia in Dio. Di lei diceva che stava bene di salute e raccontava un
po’ delle sue occupazioni, ma non una sola parola sulla sua vita disagiata,
sulla sua dignitosa povertà, sulla sua fatica quotidiana. In quegli
anni mamma faceva “l’inserviente” nell’asilo del paese. I bambini la chiamavano
“mamma maestra”.
In quell’asilo si stava bene e volentieri.
Ricordo, avevo circa tre anni, poco più, poco meno, i giochi chiassosi,
con la palla e le birille, nel cortile polveroso; come ricordo i lunghi
e stretti banchi dell’unica aula, disposti a gradinata. Ho ben presente
anche il posto che, di solito, occupavo. Su quei banchi, assai scomodi,
al pomeriggio facevamo anche il sonnellino. Mamma si recava al mattino,
per le 8,30, al lavoro, ed io andavo con lei, molto fiero di portare in
mano il piccolo grazioso cestino di vimini, con la “merenda”. Non era certo
fatta di “specialità dietetiche per bambini”. Di solito: una pagnottina
(impastata in casa e cotta al forno del paese); un tomino; un po’ di frutta,
spesso anche un pomodoro, raccolto nel piccolo orto coltivato dalla stessa
mamma e, sempre, una bottiglietta di latte, di cui ero molto ghiotto, come
lo sono tutt’ora. Durante i mesi estivi - da luglio ad ottobre - mamma
lavorava nei campi di una cara cugina, Teresa Meaglia, che abitava proprio
accanto alla nostra casa, con la sua famiglia: il marito Giacomo, e i due
figli, Caterina e Luigi Vigin.
Mia madre, si rivela chiaramente
anche da quanto ho detto sopra, era una donna semplice, di chiara intelligenza
e di buon senso pratico. Era molto religiosa, ma non “bigotta”, precisava
mio padre. La sua era una fede pratica e illuminata. Dopo la sua morte,
in un vecchio baule, con i suoi pochi e semplici indumenti personali, tutti
in ordine e ben piegati - si trovò anche, e mi fu conservato e poi
consegnato, un piccolo quadernetto, il suo diario spirituale (il titolo
era proprio questo), dove aveva anche annotato la risposta data da lei
ad una mia domanda, quando avevo poco più di tre anni ed ero già
curioso: “Mamma, perché vieni subito a baciarci quando torni dalla
chiesa?”. Alla mia domanda aveva risposto: “Quando vi baio, le altre volte
nella giornata, è mamma che vi bacia; ma quando torno dalla Chiesa,
è Gesù che ho dentro di me, che vi bacia”.
Purtroppo mia madre, il 19 ottobre
di quel 1917, moriva di tifo. Probabilmente l’aveva contratto per essersi
dissetata con l’acqua inquinata di un piccolo ruscello che scorreva nel
prato dove fienava. Aveva 35 anni, mia sorella Luisa 6, io soltanto 4.
Mio padre ne aveva 35.
Alla sepoltura mi teneva in braccio,
dietro il feretro, mio padrino, Antonio Meaglia, fratello del papà.
Nel cimitero mi disse di gettare, con la mia manina, un po’ di terra sulla
bara, calata nella fossa. Non so se c’è ancora questa usanza. A
me parve di giocare; non ero in grado di comprendere che quel gesto di
affettuoso addio, non colmava il vuoto immenso scavato nel cuore, con la
perdita della mamma, per tutta la vita, specialmente - mi lasci dire -
nella vita di un prete.
Mio padre ricevette la tristissima
notizia della morte della sua sposa a metà novembre. Mi confidava
poi che, affranto dal dolore, non uscì per un mese intero dalla
casetta, dove abitava in quel tempo con altri due emigrati bosconeresi.
Ma la vita deve pur continuare, come si suol dire, e riprese, certo con
più fatica e nostalgia, il suo lavoro. Non ricordo più quale
fosse in quel tempo, forse raccoglitore di arance o benzinaio. Per lui
qualunque mestiere andava bene, pur di lavorare. Anche se tanto desiderava,
com’è naturale, rivedere ed avere con sé i suoi bambini,
non giudicò più opportuno, mancando la mamma, sradicarci
dal nostro ambiente, tanto più che la mamma, prima di morire, ci
aveva affidati alla cugina (non avevamo più i nonni), che noi chiamavamo
“Magna Gin”. Ci accolse nella sua casa e ci educò con lo stesso
amore e dedizione che aveva per i suoi figli. Ogni mese riceveva da mio
padre un modesto sussidio finanziario, tutto quello che poteva permettersi
con il modesto lavoro, che non era certo retribuito in dollari, ma da pochi
“scudi”.
Mio padre fece ritorno a Bosconero
nell’estate del 1929. Sedici anni dalla sua partenza, e 16 anni avevo io
(essendo nato tre mesi prima che lui emigrasse) quando ebbi l’emozione
di conoscerlo. Si fermò con noi per circa 6 mesi e a dicembre dello
stesso anno - aveva 47 anni - ripartì per Los Angeles, dove aveva
un lavoro assicurato. Mi disse che era venuto anzitutto, ed era logico,
per vedere e restare con i suoi figli, ma anche per constatare se la mia
scelta di farmi prete (lui, non so perché, mi avrebbe voluto ingegnere,
ma i progetti di Dio sono diversi dai nostri) era autentica e senza condizionamenti.
Partiva convinto della mia scelta, anche se non la condivideva del tutto
(pur essendo, sottolineo io, un autentico buon cristiano). Io lo accompagnai
fino a Torino. Un bel progresso sulla sua prima partenza!
Alla mia ordinazione sacerdotale
e prima Messa, solennemente celebrata a Bosconero, la Pasqua del 12 aprile
1936, mio padre purtroppo non era presente. In quell’occasione gli scrissi
una lunghissima lettera, anche per colmare il vuoto doloroso della sua
assenza. Quella lettera, scritta da un figlio prete, gli servì quale
valida credenziale presso un Istituto di Santa Francesca Cabrini, dove
mio padre venne assunto come autista. Quello fu l’ultimo lavoro di mio
padre a Los Angeles. Nell’aprile del 1953 tornava definitivamente a Bosconero
- aveva 71 anni - non certo carico di dollari. In quegli anni era assai
difficile, fatta qualche rara eccezione, che gli emigranti in America -
dove avevano svolto “onestamente” (sottolineo “onestamente”) il loro lavoro,
ritornassero al paese con migliaia di dollari...
cesare meaglia