IVREA - Incontriamo don Egidio Smacchia
nei locali dell'Orizzonte, la comunità della diocesi federata alla
Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (FICT), di cui è
presidente nazionale. Don Egidio è in Piemonte per completare la
visita ai 50 centri aderenti alla Federazione, centri che attraverso un'offerta
di ben 600 servizi rappresentano - come ci ha detto - "un esercito della
solidarietà presente in 17 regioni e capace d'incontrare 24.000
persone ogni giorno in tutta Italia".
Don Egidio, qual è la tua
valutazione del rapporto tra giovani e dipendenze?
"La nostra esperienza ci porta a
suddividere il mondo giovanile in tre fasce: una prima rappresentata dalla
stragrande maggioranza, composta da giovani che cercano di non essere legati
ad alcuna forma di dipendenza intesa in senso lato - intendo dipendenza
da immagini, video giochi, computer, televisione -. Una seconda composta
da quel 25% di giovani che s'avvicina alle droghe sintetiche e allo spinello:
sono i giovani più interessanti per la FICT, quelli che avendo un
disagio non chiedono aiuto ritenendosi più forti della forma stessa
di disagio, sono i ragazzi su cui dirigere la prevenzione. Infine vi sono
250.000 giovani italiani che sono dichiaratamente assillati da problemi
di tossicodipendenza, sono quelli che chiedono aiuto e quelli che cerchiamo
d'aiutare".
Proviamo a sintetizzare la risposta
della FICT a chi chiede aiuto.
"I ragazzi che arrivano da noi sono
destrutturati psicologicamente e assai provati fisicamente. Sono giovani
che approdano alla nostra porta dopo lunghi periodi di devastante dipendenza,
quasi sempre dopo periodi lunghi presso i Servizi pubblici, periodi passati
con il palliativo del metadone".
Come avviene l'ingresso in comunità?
Avete un contatto diretto con i ragazzi?
"Purtroppo no, si passa sempre attraverso
i servizi pubblici. Noi preferiremmo gestire gl'ingressi con un sistema
di pari concordanza tra servizio pubblico e ente privato sociale. Intendo
la possibilità d'accogliere noi stessi i giovani che bussano alla
porta, senza dover per forza attendere le disposizioni dei SERT. Soprattutto
la capacità di poter svolgere noi stessi le diagnosi, tanto d'ingresso
che d'itinere. Questa necessità nasce dal bisogno d'affrontare prontamente
la situazione che incontriamo, dal momento che il giovane incappa nei tempi
tecnici dei servizi pubblici, tempi che sovente non consentono di cogliere
appieno l'evolversi del quadro personale".
Per affrontare quest'approccio diretto
o concordato di cosa necessitate?
"Di figure professionali adeguate.
In questo ambito dal '95 la FICT ha impostato un'Università, sponsorizzata
dalla Pontificia Università Salesiana, in grado di rilasciare il
diploma di Laurea in Educatore Professionale di Comunità. In aggiunta
realizziamo Master in Disagio Sociale, Criminologia Giovanile, Progettazione
Sociale".
Con questi titoli siete in grado
di camminare da soli?
"In un certo senso possiamo dire
di sì, perché i centri della FICT vedono la presenza degli
educatori professionali, in unione con l'apporto specializzato di psicologi,
psicoterapeuti, psichiatri, assistenti sociali e altre figure professionali.
L'offerta è coerente e ben articolata; allo stato attuale, però…
anzi purtroppo… tutte queste professionalità risultano inutilizzate.
Inutilizzate come l'enorme mole di disponibilità e volontariato
che figure professionali adeguate sono pronte a mettere a nostra disposizione".
Inutilizzate? Puoi spiegarti meglio?
"L'intesa Stato-Regioni per le tossicodipendenze,
ha evidenziato le modalità d'attacco al problema stabilendo una
serie di requisiti qualitativi e professionali che una comunità
deve presentare. Da parte delle comunità vi è stato un grande
sforzo per raggiungere questi livelli: sforzo organizzativo, economico,
di formazione e rinnovamento. Disgraziatamente, però, l'Intesa non
è mai stata applicata, così che l'approccio al mondo delle
dipendenze resta limitato dall'imbuto rappresentato dai servizi pubblici:
in genere preparatissimi e validi, ma sempre limitati da fattori oggettivi
quali il tempo, la disponibilità di mezzi, di spazi, di personale.
Un esempio: la situazione si può paragonare alla condizione di una
persona malata che, per farsi curare, deve rivolgersi esclusivamente alla
struttura indicata dal Servizio Pubblico in tempi e modi imposti, mentre
dall'altra parte della via un Ospedale - convenzionato - attende mezzo
vuoto i pazienti. Estremizzando si può dire che si lede il diritto
del cittadino a farsi curare dove e come meglio crede".
Due parole sulla Federazione, soprattutto
su cosa spinge ad associarsi.
"La catena dei servizi esiste e
vive come necessità e possibilità d'arricchirsi vicendevolmente;
offre la possibilità d'aggiornarsi, confrontarsi e - fatto importantissimo
- profittare d'una struttura di formazione solida, che si muove nel solco
della centralità della persona e non degli strumenti. Essere insieme
è opportunità di crescere insieme; sembra banale, ma noi
non abbiamo capi carismatici: insieme decidiamo tipo e modalità
di formazione per i nostri operatori. Formazione da cui dipende la qualità
dell'intervento. Insieme decidiamo quali linee seguire per essere incisivi
nelle politiche sociali e in quelle giovanili. Solo la condivisione di
risorse ed esperienze ci permette d'affrontare situazioni diverse come
i malati di Aids, i malati di mente o i tossicodipendenti".
Hai citato più volte il termine
"insieme", è importante per voi?
"Chi ha la cultura del lavorare
insieme fa parte o chiede di fare parte della FICT".
Una battuta: come mai non passate
mai in TV?
"Non lo dico per ipocrisia, non
andiamo sul video perché privilegiamo il servizio e la presenza
sul territorio, senza sentire la necessità di portare sul video
i cosiddetti casi umani… utili alla reti per fare audience, ma assai poco
alle realtà di disagio".
Ultima domanda. Reinserirsi: utopia
o realtà?
"Reinserirsi potrebbe apparire utopia.
Nel nostro caso, però, è un'utopia con 11.000 successi. Sono
11.000 i ragazzi reinseritisi nella vita, passando per le nostre comunità.
Si tratta di persone, e non di soli numeri: è l'utopia del nostro
scommettere sul Progetto Uomo. Il reinserimento è certamente la
fase più delicata: è il riappropriarsi di una realtà
precedentemente scacciata con la droga. Per questo i ragazzi che finiscono
Progetto Uomo, devono avere capacità di socializzazione, vita affettiva
e relazionale tranquilla e un inserimento nel mondo del lavoro. Vorrei
ricordare le tante cooperative sociali e le molte realtà economiche
che ci aiutano nell'approccio al mondo del lavoro, con un sostegno serio
e nascosto, non con le urla o con gli show".
d.s.f.