In questi ultimi tempi, a seguito
del mutato clima politico dovuto all’affermazione elettorale del centrodestra
ed anche di alcuni interventi del Capo dello Stato e di altre personalità
della politica, si è esteso all’opinione pubblica un dibattito che
tra gli storici era avviato da anni intorno ad alcuni nodi fondamentali
della nostra storia nazionale (in special modo Risorgimento, fascismo,
Resistenza). Spesso alcune posizioni emerse dal dibattito sono state precipitosamente
(e spesso provocatoriamente) raccolte da alcune amministrazioni locali
che hanno rinominato vie e piazze. Penso che, a margine di tali vicende,
si possano proporre alcune osservazioni.
1) E’ senza dubbio salutare che
anche i non addetti ai lavori si rendano conto che il lavoro dello storico
non può che essere interpretativo. La storia (intesa non come successione
di avvenimenti, ma come narrazione del passato) è ricostruzione
interpretativa del passato, a partire dalle problematiche e dalle situazioni
che il tempo presente propone. Quando trattiamo del passato (ma questo
avviene anche sempre per il presente!) non possiamo che ricostruirlo.
Certo, ricostruire il passato non
significa inventarlo, significa elaborare una visione d’insieme a partire
dai documenti, dalle testimonianze, ma ciò è precisamente
interpretare. Le fonti storiche non parlano da sé, parlano attraverso
l’interprete che le legge.
2) E’ indubbio che l’accentuazione
della crisi degli stati nazionali, l’accelerazione del processo di integrazione
- unificazione europea, la caduta dei regimi comunisti nell’est europeo
e l’approfondimento delle radici dei totalitarismi del XX secolo non possono
non aver stimolato una rilettura di molti fenomeni a partire dai loro esiti
e dalle condizioni che ne hanno favorito il nascere.
3) Proprio per questo motivo non
vi è mai una verità definitiva sul passato, che non possa
essere riesaminata criticamente e spassionatamente.
4) Coltivare una memoria storica
comune non deve significare per una comunità civile ancorarsi acriticamente
ad una lettura del passato che non accetti di essere messa in discussione.
Certamente occorre grande cautela nell’assumere alcuni risultati del dibattito
storiografico, solo perché possono prestarsi a utilizzazioni bassamente
strumentali alla propria parte politica.
5) Mi sembra, infine, che occorra
tenere distinto il giudizio storico dal giudizio etico. Quest’ultimo si
formula a partire da principi che non traggono la loro autorevolezza dalla
storia. Lo storicismo idealista e marxista, che ha segnato a lungo la nostra
cultura, ha indotto molti a confondere i due piani, a motivo del fatto
che entrambe le posizioni filosofiche e storiografiche negavano un’autonomia
dell’etica. Forse lo sconcerto che alcuni mostrano nei confronti di determinate
posizioni “revisioniste” è proprio dovuto al timore che il giudizio
etico su determinati momenti della storia contemporanea sia messo in forse
da esiti diversi della storiografia. Dobbiamo invece conservare immutata
la possibilità di “giudicare” la storia da un punto di vista che
non sia totalmente storico, ma “etico”.
emilio giachino
Quale “revisionismo”? Ma anche: quale “storia”?
"Una democrazia funziona non solo
se gode di efficienza istituzionale e amministrativa, ma se conta su una
forte identificazione da parte dei suoi cittadini. Alla base dei processi
di identificazione c'è anche il riconoscimento di una storia comune.
Una democrazia vitale mantiene viva la memoria della propria origine. Non
importa quanto dolorosa e controversa sia tale memoria, purché alla
fine tramite essa si generi tra i cittadini un sentimento di reciproca
appartenenza. Solo così possono nascere lealtà politica e
solidarismo civico che danno sostanza all'identità politica democratica".
Assistendo allo spettacolo non sempre
edificante che offre la politica italiana di questi ultimi anni (delegittimazione
degli avversari, clima da "guerra civile ideologica", spoil system all'italiana
orientato a "riscrivere" tout court la storia e a rinominare la topografia
comunale...) si ha l'impressione di essere ancora molto lontani dal modello
di democrazia prospettato qualche anno fa da Gian Enrico Rusconi nel saggio
Resistenza e postfascismo (il Mulino), dove si auspica la formazione di
quella memoria collettiva e condivisa che implica una ricostruzione meditata
e una sintesi tra memorie differenti e al limite antagoniste.
Ho preso il discorso un po' alla
larga, per tentare una breve riflessione su una parola, "revisionismo",
che agita da una trentina d'anni le acque della storiografia italiana e
alimenta ricorrenti polemiche giornalistiche in occasione di novità
editoriali (una per tutte, il "Mussolini" di Renzo De Felice) o di ricorrenze
anniversarie (25 aprile, 8 settembre, El Alamein...). Non so, pur essendo
impegnato a insegnarla da molti anni, se la storia sia una scienza (dopo
aver letto Miseria dello storicismo di Popper, i dubbi sono aumentati),
ma sono abbastanza convinto che la conoscenza della storia costituisca
la base della cultura e della coscienza politica. Il problema è,
naturalmente, "quale storia"? Una buona risposta mi sembra ancora quella
indicata da Rusconi, sulla scorta del "metodo" di Popper: la ricostruzione
storica e le memorie del vissuto dei protagonisti (ad esempio, di chi "ha
fatto" la Resistenza o di chi l'ha avversata) non vanno confuse tra loro;
i ricordi dei testimoni sono un elemento insostituibile del lavoro storico,
ma ad essi non può essere affidato il giudizio definitivo sul senso
della vicenda collettiva. La memoria di un repubblichino non è meno
"vera" di quella di un partigiano... Naturalmente non è detto che
anche la ricostruzione storica che sintetizza quelle memorie sia del tutto
convincente o definitiva. Ma ciò che caratterizza il discorso storico,
analogamente a quello scientifico, è il criterio della sua "falsificabilità/verificabilità"
attraverso elementi o argomenti via via più probanti. Ora, e vengo
al punto, ho l'impressione che alcuni fautori ingenui (o politicamente
interessati) del "revisionismo" siano tentati di considerare le "revisioni"
come verità definitive, scivolando così in un atteggiamento
neodogmatico ("miseria del revisionismo"...) che vorrebbe sia cancellare
le storie precedenti (considerate frutto di deformazioni ideologiche),
sia escludere ulteriori accertamenti, confronti, interpretazioni,
"revisioni" critiche... A parte l'inevitabile uso politico (anche improprio)
della storia e della storiografia, resta il fatto, ovvio ma essenziale,
che il discorso storico si costituisce nel punto di tensione tra un livello
oggettivo (i fatti) e un livello soggettivo (i valori), e che il
"mondo dei valori" è, a quanto pare, un mondo "politeista" (per
usare la suggestiva espressione di Max Weber): almeno dalle nostre parti
(occidentali) il "pluralismo" (dei valori, dei punti di vista, delle "verità")
è considerato un valore, ma sappiamo anche bene quanto sia difficile
trovare un punto di equilibrio tra valori in conflitto (ad esempio tra
"libertà individuale" e "giustizia sociale").
La domanda di storia, insomma, per
capire chi siamo, e delineare il profilo, le aspettative e le preferenze
"politiche" delle nostre vite individuali, connesse nel bene e nel male
con le vite di tutti gli altri (anche di quanti ci hanno preceduti e di
quanti ci seguiranno), esige, in una "società aperta" (per cui il
pluralismo democratico non è solo una parola), che si prenda sul
serio la libertà di ricerca e di giudizio, la "libera concorrenza
delle idee" (Popper); senza dimenticare che anche quella della "verità
storica" sarà inevitabilmente, dando ovviamente per scontata l'onestà
intellettuale degli studiosi, una "ricerca senza fine": per la complessità
dei fatti storici, e per i limiti prospettici e la fallibilità della
conoscenza umana.
piero pagliano