L’emergenza malattia
Per tutti la malattia è un’importante
snodo della propria vita. Se curata efficacemente e superata, è
motivo di rinata speranza. Se essa persiste e si rivela incurabile, determina
un ‘processo’ che conduce alla morte, quale che sia il tempo che ancora
rimane da vivere. Uno dei tratti più drammatici che viene ad instaurarsi,
osserva il dott. Cestonaro, è la “non padronanza del proprio tempo”.
Si è, in sostanza, privati o fortemente limitati nel decidere del
proprio tempo in relazione ad un futuro che appare segnato. Eppure, nella
coscienza diffusa della nostra epoca, si è esseri umani, se e fino
a quando si è capaci di scegliere. La mancanza di capacità
di scegliere è già avvertita come un ‘momento di morte’,
prima dell’istante fisico della morte.
È un elemento importante,
questo, nel decidere della qualità della vita, a cui la sensibilità
contemporanea è molto più attenta. “Abbiamo visto, annotano
i vescovi scandinavi, che le questioni riguardanti la qualità della
vita sono tanto importanti - e in taluni casi più importanti - per
i pazienti, quanto l’accesso ad un’efficace terapia medica”. Insomma, se
ho capito bene, non è importante vivere, ma come si vive.
Verso la morte
La malattia terminale mette in campo
continuamente, per i pazienti per i famigliari, la prospettiva del morire,
una coscienza più forte di caducità e di precarietà.
Un elemento da tenere presente, al riguardo, - rilevano ancora i vescovi
scandinavi - è che non solo la vita umana in generale, ma il processo
che conduce alla morte è sempre più prolungato. Cresce il
controllo che si può esercitare su di esso, ed anche per il soggetto
la possibilità di elaborarne un senso. Importante, se non decisivo
al riguardo, è il dialogo con l’ambiente circostante. Al contrario,
la solitudine può accentuare ancora di più il senso di vulnerabilità
di chi è lentamente e inesorabilmente incamminato verso la morte.
In realtà permane, nella
cultura dominante in cui viviamo, il tabù della morte. Della morte
non parla affatto: essa va allontanata il più possibile, “medicalizzata”,
spesso spostata dalla casa ad un anonimo ambiente ospedaliero.
Curare il male o curare il dolore?
Spesso si è ritenuto che
le cure avessero valore solo se e quando fossero efficaci nel combattere
il male. Ma quando il male è stato diagnosticato come inguaribile,
o con margini ridottissimi di guarigione? I vescovi scandinavi richiamano,
a più riprese, il valore delle cure palliative: “Questa terapia,
che ha lo scopo di dare sollievo alle sofferenze provocate dalla malattia
e di integrare i bisogni fisici, psicologici e spirituali del paziente
dovrebbe essere un elemento ovvio..., garantito a tutti, iniziato al momento
opportuno... Nessun paziente che soffre di una malattia incurabile deve
essere considerato ‘non più trattabile’ dal punto di vista medico”.
“Palliativo”, mi ricorda il dott,
Cestonaro, viene da “pallio”, per i latini il mantello che avvolge tutta
la persona, le dà sicurezza e conforto.
Alle cure palliative fa riferimento
anche lo statuto dell’associazione “Casainsieme” (art. 2). Alla base del
suo agire sta l’esigenza etica di “non abbandonare la persona malata anche
quando le speranze di guarigione sono ridotte, valorizzando prioritariamente
la volontà personale, la soggettiva percezione della qualità
della vita, il pieno rispetto dei suoi riferimenti etici, spirituali e
culturali”.
La morte e l’«oltre»
Decisiva può rivelarsi, a
questo punto, fra i “riferimenti spirituali” una concezione della vita
- come quella sviluppata a partire dalla fede cristiana - dove “la vita
è qualcosa di buono e desiderabile, che Dio ci ha dato come dono
e di cui solo lui è il Signore... ma si impara a confidare nell’avvento
di qualcosa di meglio. Siamo chiamati alla vita eterna. La nostra esistenza
biologica, qui sulla terra non è un bene assoluto”.
Occorre ricuperare, secondo Cestonaro,
la cultura degli Ospizi, che risale al Medio Evo, dove il luogo di ospitalità
accordata ai pellegrini predispone a quell’ospitalità più
impegnativa offerta a chi sta intraprendendo l’ultimo e più impegnativo
viaggio della vita in questo mondo. Quella cultura può rivelarsi
una moneta preziosa, da spendersi ai confini della vita. Non può
essere, ovviamente, imposta, ma valorizzata e, all’occorrenza, riscoperta
con l’aiuto del prossimo. “Anche nell’abisso della sofferenza - ammoniscono
i vescovi scandinavi - l’uomo può trovare Dio. Nella sua vulnerabilità
diviene consapevole che non può salvarsi da solo”.
Dal bisogno al progetto
“Per un po’ di tempo - racconta
Cestonaro - un gruppo di amici ex fumatori si sono ritrovati periodicamente
a festeggiare lo scampato pericolo. Ma ad un certo punto questo non è
più bastato: occorreva fare qualcosa per gli altri...”. In
particolare per quegli “altri” nei quali l’evoluzione del tumore non lasciava
più scampo. Di qui la fondazione di “Casainsieme”, ed il progetto
Hospice: fornire un ambiente familiare a persone in fase avanzata di malattie,
soprattutto affette da neoplasie. Un ambiente - individuato nella Villa
Sclopis, a Salerano (ma di proprietà del comune di Ivrea che l’ha
messa a disposizione dell’associazione e di cui si è avviata la
ristrutturazione) in cui passare periodi di vita particolarmente critici.
Una struttura in cui (e da cui) opererà un’equipe professionale
(medici, infermieri, terapisti, psicologi...), con il supporto dei volontari
aventi compiti di trait d’union fra Hospice e famigliari, di vigilanza
perché lo “spirito” dell’associazione e i valori portanti non vadano
perduti e di sensibilizzazione nei confronti del mondo esterno. Al progetto
Hospice si è poi aggiunto il progetto Alzheimer, mirato alla creazione
di un centro diurno di assistenza per persone affette da sindrome demenziale.
Nel segno del pluralismo
L’associazione è in crescita:
in breve tempo sono cresciuti gli associati e i volontari, di cui già
20 in servizio. Al termine della conversazione, il Dott. Cestonaro mi ricorda
un tratto importante: è un’associazione fatta da credenti e non
credenti, da persone appartenenti a vari schieramenti politici. Il collante,
fra tanto pluralismo, è una precisa opzione etica: il non abbandonare
la persona malata. Al massimo della sua vulnerabilità, essa rimane
sempre una persona da amare e non un residuo di umanità da eliminare
al più presto.