CANAVESE - Più di duecento
laici si sono presentati ai nastri di partenza del “mese di formazione”,
iniziato in questi giorni, in quattro sedi distinte della diocesi (Ivrea,
Chivasso, Rivarolo e Pont Canavese). Segnale evidente di un’esigenza diffusa
di formazione, specialmente da parte di coloro che già offrono o
si preparano ad offrire una collaborazione più efficace nelle parrocchie,
nei campi della catechesi, dell’educazione e dell’accompagnamento della
fede dei giovani e degli adulti.
Nella pagina evangelica dei pani
e dei pesci moltiplicati (Marco, cap. 6) - che costituisce il testo guida,
il “filo rosso” del documento contenente gli “Orientamenti pastorali per
la diocesi di Ivrea” - due passaggi disegnano la “strategia” che ispira
questo “mese formativo”.
In primo luogo, Gesù si commosse
per la folla. Ancora oggi, c’è molta gente che “gira attorno alla
Chiesa”, almeno in certe occasioni. Una folla variegata, che porta con
sé domande differenti. Una folla che va accolta, senza pretendere
subito di stabilire dei confini fra chi merita attenzione e chi no.
“Date loro voi stessi da mangiare”,
chiede Gesù alla ristretta cerchia dei discepoli. La domanda è
oggi rinnovata al “piccolo gruppo” che partecipa più intensamente
alla missione ecclesiale, che si appassiona all’annuncio e alla testimonianza
del vangelo. A questo spetta il compito di “sfamare la folla”, condividendo
le proprie povere risorse. Qui si collocano i collaboratori parrocchiali,
cui è destinata questa iniziativa.
Al fondo della domanda di formazione,
poi, non c’è solo un’esigenza personale, ma - come ha fatto notare,
ad Ivrea, Emilio Giachino, nell’incontro introduttivo - la necessità
di leggere, in termini più corretti, la situazione di oggi, caratterizzata
sì dalla secolarizzazione, in cui, però, la diminuzione della
pratica religiosa, della frequenza alla Chiesa, non significa di per sé,
sempre, indifferenza o rifiuto della proposta cristiana. In tale situazione,
se è venuta a mancare la fedeltà a certe tradizioni, non
è mancato del tutto il richiamo della vita ecclesiale, a cominciare
dai sacramenti. Certo, parecchi cambiamenti sono già oggi avvertiti
anche nelle nostre parrocchie, quali la diminuzione nella domanda dei battesimi
o delle cresime, ma anche l’avvicinarsi alla chiesa di giovani/adulti,
che non hanno avuto in precedenza un’esperienza cristiana.
Che cosa significa questo? Quali
conseguenze ricavarne? Sicuramente un forte invito a ripensare, alle radici,
nei contenuti e nelle modalità di attuazione, l’annuncio cristiano.
Insomma, il passaggio che sembra essere richiesto alle nostre comunità
è quello da comunità capaci di produrre delle buone liturgie
a comunità in grado di fornire un annuncio cristiano efficace. E
di accompagnarlo con testimonianze più incisive.
A questo punto è più
che mai opportuna una riflessione sull’immagine di Chiesa che abbiamo e
che si è venuta evolvendo in questi tempi di rapide trasformazioni.
Una rivisitazione dell’ecclesiologia del Vaticano II - fatta, ad Ivrea,
dalla densa relazione di Federico Munari - non è, allora, uno sfizio
per eruditi, ma una necessità dettata dalla consapevolezza che il
soggetto dell’annuncio e della testimonianza cristiana non è qualche
“carismatico”, ma la stessa comunità cristiana.
A distanza di più di trent’anni,
la visione conciliare appare oggi ancora innovativa, e non certo attuata
interamente. L’ecclesiologia del Vaticano II riscopre l’antica immagine
biblica di “popolo di Dio”, non come entità sociologica ma teologica:
è la comunità dei credenti, che provenendo da vari popoli
e culture si scopre come “popolo” che appartiene al Signore, impegnato
nei suoi riguardi in una relazione di alleanza. “Popolo di Dio” sottolinea,
soprattutto, il primato di Dio.
L’ecclesiologia cosiddetta “di comunione”
antepone, fra i membri della Chiesa/popolo di Dio, l’eguaglianza alle differenze,
le quali, peraltro, sono funzionali e comprensibili in un contesto di varietà
di persone e di carismi. La coesistenza, nella Chiesa, di unità
e diversità - coesistenza spesso problematica e difficile nella
storia millenaria della Chiesa - è possibile solo avendo come riferimento
ideale e come origine il mistero trinitario, un Dio “uno e diverso” al
suo stesso interno.
L’esperienza fondante della Chiesa
sta, allora, nella relazione di comunione che si stabilisce fra persone
raggiunte dall’annuncio di Cristo e disposte a tradurre la propria risposta
di fede in una prassi di comunità. Una prassi sempre imperfetta,
quale si addice a comunità itineranti verso una mèta che
ci sta davanti, quella del Regno di Dio.
don piero agrano