SAN MAURIZIO - Veramente
straordinaria, ora che una radicale pulitura l’ha resa leggibile nella
sua chiara veste cromatica, è la “Vita di Cristo” dipinta, entro
il 1495, da Bartolomeo Serra, con l’aiuto di Sebastiano, suo figlio, e
di una numerosa bottega, proveniente da Pinerolo, sopra il muro con le
tre arcate del lato sinistro dell’aula centrale della chiesa del Cimitero
di San Maurizio Canavese, nel bacino della Stura di Lanzo.
E’ un lungo racconto
per immagini ad affresco, su due strisce, distinto in ventiquattro episodi,
chiuso in alto con un bordo fogliato a medaglioni figurati, unico per completezza
e varietà d’esposizione, aggiungendo alla testimonianza dei vangeli
canonici, utilizzati come fonte principale, sequenze tratte dagli apocrifi.
La cultura figurativa
che vi s’esprime è quella propria ad una vasta area valsusina-savoiarda,
tanto che prima del ritrovamento del documento di pagamento conclusivo,
rogato sotto il portico della casa di Giovanni Ravicchio, sindaco della
comunità, attestante l’opera dei Serra, il frescante più
importante veniva chiamato “Maestro di Jouvenceaux”, sebbene, già
allora, il lavoro che più s’avvicinasse al ciclo canavesano fosse
la “Vita di Maria” in San Pietro d’Avigliana.
Oltre l’iniziale, aulica
“Annunciazione”, la concatenazione narrativa, nel variare delle architetture
e del paesaggio, s’attiene ad un tono medio, ad un ideale di medietas espressiva,
lontano sia dal linguaggio spesso concitato, talora allucinato, del Canavesio
di Notre-Dame des Fontaines a Briga (1492), che dal precedente troppo umano
dello Spanzotti d’Ivrea.
In alto, negli esterni,
s’afferma sempre un cielo d’un bianco abbacinante che dà luminosità
a tutta la scena; mentre, negli interni, l’attenzione si fissa sull’oggetto
particolare per conferire verità all’ambiente.
L’episodio della “Fuga
in Egitto”, per esempio, sorprende per il biondo chiarore dell’inserto
delle messi già mature, divenendo confidenziale quando la palma
si china per permettere a Maria di cogliere i datteri.
Nella “Resurrezione
di Lazzaro”, con il risorto ancora avvolto nel lenzuolo funebre, ritto
sul sarcofago scoperchiato, la rappresentazione si movimenta grazie all’agile
balzo d’un giovane assistente, dalla calzamaglia controtagliata in rosso
su bianco.
L’immediatezza descrittiva
dei Serra che si presenta a noi nella sua semplicità al di fuori
di complesse strutture allegoriche e dottrinarie raggiunge nel continuum
della narrazione una forma limpida, al massimo coinvolgente.
L’ “Ultima Cena” d’impostazione
veramente maestosa, pausata, ritmica nella scansione in grigio delle rientranze
del piano di fondo della stanza conviviale, denunciante un posseduto senso
dello spazio.
S’assiste poi ad un
prolungato andirivieni tra i Palazzi dei Tribunali, resi armoniosi da logge
e loggette, davanti ad Anna, Caifa, Erode e, ripetutamente, Pilato.
Qui, s’avverte l’utilizzo
di stampe tedesche sulla “Passione”, come già nell’ultimo Canavesio
di Briga, in specie delle incisioni a bulino di Israel van Meckenem.
Il soggetto del dolore
e della morte era tra i più sentiti, perciò veniva molto
frequentato dagli artisti, determinandosi di conseguenza, inevitabilmente,
un travaso di modelli, soprattutto grafici, con scambi e rilanci.
Sulla grande parete
di San Maurizio Canavese il discorso figurato procede, quindi, accattivante,
con una dichiarata intenzione di esporre ai rustici il messaggio evangelico
in maniera aperta, con una gamma di colori unita ma in grado d’accentuare
visivamente, quando necessario, i punti di maggiore interesse contenutistico.
Pur trovandoci ormai
alla soglia del Rinascimento, i Serra vi s’attardano a coltivare un’estrema
fioritura della pittura gotica, conferendole però un po’ d’inquietudine
per portarla sempre più vicina alla vita.
aldo moretto