PRASCORSANO - Sono ritornato
nella chiesa del Carmine di Prascorsano con una grande tristezza: nel frattempo,
rispetto alla mia Indagine aperta (1973), gli Apostoli sono stati deturpati
a causa di un maldestro tentativo di strappo per furto. La prima impressione
sul loro stato è sconfortante: poi, via via, ad un’attenta ed amorosa
lettura, si riacquista un po’ di fiducia.
Del volto dell’evangelista
Giovanni è rimasto il disegno preparatorio a chiaroscuro: ancora
in grado, però, di esprimerne la profonda malinconia, l’inclinazione
sentimentale alla riflessione, alla chiusura in sé. Anche la distesa
di rosso e di bianco - del manto e della veste - ha conservato, in basso,
la sua intrinseca luminosità. E, quindi, oggi ancora si coglie l’espressione
dolce e assorta, lavorata dalle ombre, dello sguardo, circondata dalla
linea incisa dell’aureola.
Accanto, Giacomo maggiore,
con il bordone da pellegrino, lo guarda: è un dialogo negato, non
solo per la violenza subita, ma perché il più giovane apostolo,
preso dalla sua visione, non gli bada.
Del terzo, di Matteo, non
s’è salvato quasi nulla, se non l’accetta: il suo attributo simbolico.
Naturalmente, a Prascorsano,
sull’abside rettilinea, persiste la partitura strutturale di fondo della
figurazione, con la presentazione paratattica degli Apostoli in piedi,
dalle teste inquadrate, in modo rituale, da un finto pannello rettangolare
scuro.
Sulla parete laterale destra
del presbiterio, proseguendo nella nostra ispezione, l’apostolo Filippo
non è stato toccato: conserva così la sua vitalità,
anche nel volto slargato. Invece, sono stati del tutto asportati sia il
viso di profilo che il libro sfogliato, otticamente illusivo, che richiamava
le relative soluzioni del maître d’Aix, del vecchio e fanatico Simone:
soltanto le pieghe terminali in viola del manto sono state risparmiate,
permettendoci così di gustare uno stupendo brano di panneggio astratto.
Sull’abside di Prascorsano,
a sinistra dell’altare, la sequenza di Paolo, Giacomo minore e Bartolomeo
ha molto sofferto: il primo è ormai ridotto ad un fantasma; il secondo
è in gran parte abraso ed il terzo è di molto abbassato nella
sua acutezza psicologica.
Risalta ancora, soltanto
più, il contrasto coloristico tra il libro nero chiuso di Giacomo
minore ed il libro rosso, anch’esso chiuso, di Bartolomeo.
Se uno li aveva conosciuti
prima, intravede nel ricordo i loro tratti somatici che allora erano in
grado di alludere ad un’indole personale, ad un temperamento diversificato.
Non è stata toccata,
per contro, la coppia di Santi, sulla parete sinistra del presbiterio,
da attribuirsi ad un aiuto del Maestro principale, a causa di una minore
esperienza manuale.
Il giovane dalla chioma
fluente, dallo sguardo volitivo, indica qualcosa non si sa dove, perché
l’altro, dotato di una lunga croce astile, tiene gli occhi abbassati, intento
a leggere sul libro aperto, dalla pagina sollevata.
La lunetta, divisa in due
parti dal Presepe disastrato, è integra; nel senso che non è
stata interessata dallo strappo, sebbene, da tempo, fosse già ridotta
pressoché alla sinopia. Vi si continua così a vedere: a sinistra,
l’Annuncio ai pastori; a destra, l’Alpeggio con gregge.
Il tratto vi è agile,
compendiario: la prima figura s’agita, indicando la cometa; l’altra s’è
arrampicata su un ramo dalla forma conica, proteso sul vuoto. Intorno,
qua e là, le pecore non ancora tosate, pesanti di lana, brucano
l’erba. Il disegno delle pecore ricorre a dei segni brevi, ricurvi e dinamici.
Il paesaggio, a destra, con le sue variazioni di verde, si distende solitario,
con la sola presenza del gregge - una macchia bianca - e di animali isolati,
dispersi sulle ondulazioni prative.
La propensione all’idillio
vi è bilanciata, in parte, da un’esperienza visiva diretta degli
alpeggi. La lunetta di Prascorsano, nel suo insieme, è una scena
di pascolo, turbata soltanto parzialmente dall’evento straordinario, dove
s’assiste al recupero di una tradizione figurativa che, perlomeno, risale
al Simone Martini avignonese, alla sua miniatura con l’Allegoria virgiliana.
I flussi della migrazione
artistica, nei due sensi, tra Piemonte e Provenza, con scambi costanti,
cui il Maestro degli Apostoli di Prascorsano partecipa, avvenivano lungo
i percorsi alpini, con soste di lavoro che hanno interessato, per esempio,
Hans Clemer, cugino germano ed erede di Josse Lieferinxe, una volta nominato
come il Maestro di Elva.
Per il Canavese è
di un certo interesse l’iter di Giovanni Grassi da Ivrea, dai soggiorni
provenzali prolungati, sullo scadere del Quattrocento.
Tempo che coincide con
quello dell’operatività a Prascorsano, come frescante, del grande
Maestro degli Apostoli.
La poetica del colore luminoso,
elaborata in Provenza, ha raggiunto anche le colline boschive di Forno:
nell’abside della Cappella di S. Bernardo a Cimapiasole, sullo scadere
del Quattrocento, infatti, il grande affresco raffigurante la “Madonna
con il Bambino in trono tra i Santi Tiburio, Bernardo e Grato” è
tutto giocato sui valori cromatici.
Già l’impaginazione
divide la superficie dipinta in due zone d’astrazione: in alto, il verde;
in basso, il rosso. Inoltre, i personaggi vengono tutti incorniciati da
un rettangolo anch’esso rosso filettato di bianco.
Su tale impianto s’inseriscono
i grandi campi di colore: con accostamenti, nelle vesti dei Santi, tra
rosso acceso, assolato, e bianco madido di luce; con accordi e passaggi
delicatissimi tra il lilla e il rosa. Sempre all’interno del contrasto
dominante di verde e di rosso del fondo.
Quest’opera, datata 4 settembre
1497, è stata voluta dal canonico Giovanni Beccuti di Rivara che
è stato protagonista, nell’ambito della Chiesa di Ivrea, d’una singolare
carriera ecclesiastica, favorita, tra gli altri, dai papi Innocenzo VIII
ed Alessandro VI, con uno straordinario cumulo di chiese e benefici.
L’iscrizione che a Forno
corre sul margine superiore, a chiusura della decorazione, menziona soltanto
alcuni aspetti del ruolo di prestigio svolto dal committente in area canavesana:
dottore in decreti, arciprete della Cattedrale eporediese, curato di Mercenasco
e di Rocca.
L’iconografia, invece,
nei Santi è abbastanza vicina a Canischio: con l’inserto estraneo,
però, di san Turibio, vescovo spagnolo del V sec. d.C., voluto da
Giovanni Beccuti che rivendivava un’origine iberica per la propria famiglia.
Ci vengono di nuovo incontro,
così, san Bernardo da Mentone che incatena il diavolo ribelle e
san Grato che tiene il capo mozzo del Battista, mentre il suo pastorale
finisce nel pozzo, battuto dalla grandine.
San Turibio, che è
il personaggio psicologicamente più acuto, sfoggia i suoi abiti
vescovili dove il colore campeggia unito e trasparente.
Nello scomparto centrale,
infine, la Madonna, dolce e serena, espone il Figlio, con la sua collanina
di corallo, alla venerazione dei fedeli.
aldo moretto