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    IVREA - SARA’ UNO DEI RELATORI ALLA PROSSIMA 3 GIORNI DIOCESANA
    Arturo Paoli. A tutto campo
    Il "debito", il Brasile, mons. Romero, il papato...
     
    IVREA - In occasione della tre giorni diocesana, giorno 29 alle 21:00, al teatro Giacosa, è previsto un incontro con Arturo Paoli. Pensiamo utile, per quanti non lo conoscano, dire qualcosa di lui e pubblicare una breve intervista su alcuni temi importanti di questi ultimi tempi.

    Arturo Paoli nasce a Lucca nel 1912. Nel 1940 viene ordinato sacerdote e, dopo alcuni anni, è chiamato da Mons. Montini all'assistenza nazionale dell'Azione cattolica. Erano gli anni della presidenza Carretto; anni difficili che sfociarono nelle dimissioni di alcuni dei responsabili. Ad Arturo Paoli viene consigliato di girare un po' alla larga e s'imbarca come cappellano nei translatlantici per l'America latina. In uno di questi viaggi fa conoscenza dcon un anziano Piccolo fratello di Gesù (congregazione religiosa che ha come ispiratore Charles de Foucauld) e decide di entrare nella congregazione. Fa il noviziato nel deserto, dove si ritrova con Carlo Carretto, anche lui arrivato alla stessa esperienza. Dopo pochi anni in Italia ritorna in Argentina, dove trascorre 14 anni durissimi a causa della repressione militare in atto. Deve fuggire perché minacciato di morte; si rifugia in Venezuela, dove dà vita ad una comunità di contadini. Poi nel 1986 arriva in Brasile, dove risiede a tutt'oggi: quarant'anni di vita a fianco degli ultimi per cercare di dare voce a chi non ce l'ha. Arturo Paoli svolge un'intensa attività di scrittore, articolista e conferenziere.

    Come pensa si possa affrontare, con realismo, la questione del debito estero dei paesi poveri? Come giudica l'iniziativa della Chiesa italiana?

    Prima di tutto i governi dei paesi oppressi dal debito estero dovrebbero spiegare con termini comprensibili a tutti di che si tratta. Il debito estero è un tiranno invisibile, come il Mercato cui si attribuiscono molti mali che pesano gravemente su molti cittadini e favolosi arricchimenti che affluiscono alle mani di pochi. Questo gioco di guadagni e di debiti è un gioco sconosciuto non solo al popolo non istruito, ma anche ad altri dotati di una buona istruzione, che sono profani in economia. E pur sapendo qualcosa di economia, i giochi "borsatili" sono del tutto chiari solo per giocatori che conoscono i trucchi. I poveri si rendono conto che i pochi soldi che hanno, perdono ogni giorno un po' di valore. Un anno fa - mi dice una vicina della "favela" - con dieci reais portavo a casa riso e fagioli sufficienti per il pranzo; oggi ne porto a casa la metà. In questo regno del mistero come si controlla la crescita e la diminuzione del debito estero? Bisognerebbe che il paese che ha deciso di condonare il debito per una certa cifra potesse esigere l'erogazione della somma in spese sociali e si riservasse il diritto di controllare. Sarebbe restituire ai poveri una parte dei beni di cui sono stati derubati. Nella società neoliberista fanno colpo le promesse astratte che poi non portano nessun sollievo a quella maggioranza della società che porta su di sé dei pesi intollerabili.

    Il Brasile sta celebrando e controcelebrando i 500 anni della sua "scoperta" da parte dei Portoghesi: che cosa è giusto celebrare e che cosa è giusto condannare? Ha fatto bene il Papa a chiedere perdono, tra gli altri, per i "peccati" commessi dai cristiani nei confronti degli indios? Si potevano seguire altre strade? Per quali colpe di oggi nei confronti del Sud del mondo, la Chiesa dovrebbe sentire la necessità di chiedere perdono?

    Il Brasile nei 500 anni dalla "scoperta" avrebbe dovuto celebrare la ricorrenza mantenendo le due promesse sancite nell'ultima costituzione: la riforma agraria e l'assegnazione delle terre agl'indios. La struttura agraria del Brasile non è stata sostanzialmente modificata dal tempo della conquista. Il Presidente ha più volte promesso al Papa la riforma agraria. Cerca di giustificare questa sua inadempienza, addossandola alle invasioni di terre incolte da parte dei "senza terra" che sono spinti dal bisogno di cercare un mezzo di vita. Queste occupazioni, per la repressione dei militari, diventano luoghi di sanguinosi conflitti e il governo ne addossa la responsabilità agli occupanti, e si giustifica di avere le mani legate per iniziare opere di riforma. Esiste un movimento importante di giuristi che seguendo i movimenti dei "senza terra" li dichiarano giusti, perché fondati sul diritto alla vita, che è anteriore al diritto scritto. Ma il governo è sordo a questi richiami. Le popolazioni indigene occupano le terre da tempi immemorabili, assai prima di Cristo; ma non hanno nessun documento che legalizzi il loro diritto di vivere su una determinata superficie. Né accettano il diritto positivo di compra-vendita, perché "la terra è madre, né si compra, né si vende". Per cui, la sola condizione per rimanere sulle loro terre è un riconoscimento del loro diritto con un decreto del governo nazionale. Con la costituzione, infatti, il governo si è impegnato a fare queste assegnazioni di terre a una certa scadenza; ma, arrivata la scadenza, ha dichiarato di non avere i mezzi economici per questa assegnazione. Vale chiedere perdono mentre i governi continuano a beffarsi degl'indios e a mantenerli in questa situazione di inferiorità? La condizione dei poveri dell'America latina è assai peggiorata per la conversione (che è piuttosto una clericalizzazione) dei governanti. I capi politici, ostentando una devozione insolita, ottengono dalla Chiesa ufficiale un'approvazione incondizionata al loro operato e sono riusciti a convincere la diplomazia vaticana del "comunismo" dei vescovi impegnati nella difesa della giustizia. E i poveri sono stati le vittime di questa intesa. Per cui, le domande di perdono non suonano sincere e non possono piacere a Dio, difensore della giustizia e amico dei poveri.

    Mons. Romero escluso, inizialmente, dalla lista ufficiale dei martiri e in un secondo momento, fatto entrare quasi da clandestino: come mai? C'è una concezione nuova di martirio nella Chiesa?

    Nella decisione del Papa di commemorare i martiri è apparso un ampliamento del concetto di martire. Non è solo martire chi viene ucciso, perché professa una fede religiosa invisa al gruppo imperante; ma anche chi viene ucciso, perché difensore della giustizia e protettore dei poveri, indipendentemente dal suo credo religioso: ed è il caso di Gandhi e di altri. La esclusione del vescovo Romero si deve al fatto che questo difensore dei poveri si schiera in aperto contrasto col governo che si dichiara cattolico. Dal Messico all'Argentina i governi latinoamericani hanno creato l'opinione che chi dissente da loro è sovversivo comunista e quindi non è martire per amore; ma per difendere un'ideologia. L'atroce calunnia pare faccia presa anche sulla diplomazia vaticana. E questo spiegherebbe la dimenticanza di questo martire che è una luce di speranza per tutti i poveri e gli oppressi dell'America latina e del mondo. Quest'astuzia dei governi latinoamericani di servirsi della religione per coprire le loro insensibilità verso i poveri, è un peccato che grava sulle loro coscienze, il quale non può ottenere perdono se non quando Dio "li rovescerà dai loro troni" e la verità verrà alla luce. Non è un peccato contro lo Spirito santo questo tentativo di calunniare quelli che coraggiosamente assumono la difesa della giustizia, che è la stessa causa di Dio?

    Si parla sempre più spesso di Riforma del Papato e della Curia romana: Dom Casaldaliga ha fatto una lettera circolare sull'argomento; il Card. Martini ha avanzato proposte, da alcuni accolte, da altri duramente contestate: che cosa ne pensa? 

    Io penso che il Papa possa fare delle riforme strutturali; ma una riforma radicale, richiesta dal cambio di cultura, che è il fenomeno caratteristico del tempo, penso non possa essere affrontato né dal Papa, né da commissioni specializzate. Questo cambio di cultura rende vecchie e superate le basi su cui poggia non la nostra fede, ma il linguaggio con cui viene trasmessa e insegnata. E questa è la grande rivoluzione in corso. Il fatto nuovo è che i profeti di questo cambio sono piuttosto i laici. Quando la gerarchia si accorgerà che l'abbandono della religione non dipende da cattiva volontà, ma da una novità culturale, dovrà necessariamente modificare la sua relazione col laicato. Apparirà necessaria una nuova relazione, più aperta, più vicina, più rispettosa verso il laicato. Questo cambio essenziale, si darà quando i laici, portatori della nuova cultura e di nuove esigenze, fra cui primaria ed essenziale l'etica, non rimpiazzeranno i maestri tradizionali, ma saranno accolti come necessari collaboratori. Già da ora, è evidente che il linguaggio per annunziare e difendere la nostra fede bisogna cercarlo fra i laici. E per essere più chiaro, penso a Lèvinas e a quelli sulla scia del suo pensiero. Prego Dio perché il vecchio metodo di condannare prima di capire, non faccia perdere tempo ed energia e che l'amore alla verità e l'interesse del Regno aiutino ad abbandonare posizioni, che nonostante le coperture pretestuose, sono in fondo di potere e di orgoglio.

    a cura del centro missionario di ivrea

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