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"Grosio,     che      religiosamente 
ancora   si   avvince
 alla  propria

 natura  e  alle  proprie  tradizioni".

                                                    
 
                                                       Davide Pace 











LA STORIA DEI CASTELLI DI GROSIO..........di Gabriele Antonioli 

 

La Valtellina e la Valchiavenna sono costellate di numerosi resti di fortificazioni. Erette in epoca medievale a tutela di diritti e privilegi feudali, continuano a testimoniare l’importanza strategica attribuita in passato alle due valli situate a ridosso dei passi alpini. Il forte degrado in cui versano, dovuto solo in parte alle ingiurie del tempo, è generalmente iniziato a partire dal 1526 con la requisizione e lo smantellamento imposti dal Governo delle Tre Leghe nell’intento di privare i territori da poco acquisiti di punti di riferimento e di forza che avrebbero potuto essere sfruttati in una eventuale insurrezione. Al di là di qualsiasi considerazione sul contenuto del patto di Teglio, che avrebbe dovuto sancire rapporti di amicizia se non di fratellanza fra le nostre valli e il Governo grigione, si può facilmente dedurre che col rendere inoffensivi questi simboli di potere e di autonomia divenne inequivocabilmente palese il nostro stato di sudditi.
Nel contesto valtellinese, i resti più cospicui per consistenza e stato di conservazione sono certamente quelli relativi ai castelli di Grosio. Essi si incontrano risalendo la valle dell’Adda, sul colle che separa i centri di Grosotto e di Grosio, dove la Valgrosina confluisce nella Valtellina. Si tratta di due strutture attigue, realizzate in epoche diverse per rispondere ad esigenze differenti e non complementari come era stato ipotizzato. Risulta pertanto quanto meno equivoca la qualifica di castelli gemelli come in alcuni studi era stata proposta. La più antica fortificazione è evidenziata dallo svettante campaniletto della cappella castellana mentre la seconda si presenta dal fondovalle con un’imponente cinta muraria merlata e turrita. I due castelli si trovano all’interno del perimetro del Parco delle incisioni rupestri e contribuiscono ad arricchirne le già numerose attrattive. Si ha così la possibilità di articolare un percorso che spazia dalla preistoria al medioevo, con interessanti osservazioni di carattere naturalistico.

La lotta per le investiture e la situazione feudale nella Valtellina.INIZIO PAG.

Per inquadrare nel giusto contesto il primo documento che menziona il castello di Grosio, risalente al 1150, dobbiamo necessariamente premettere alcune considerazioni di carattere generale sulla situazione politica di allora. Era quello il periodo nel quale ferveva la lotta per le investiture che contrapponeva impero e papato, guelfi e ghibellini. Queste contese ebbero viva ripercussione anche nella Valtellina, per i suoi valichi e per la propria configurazione geografica guardata sempre con occhio geloso dalle potenze che ne ambivano il possesso. L’organizzazione territoriale della valle si basava allora sulla suddivisione in pievi. Queste circoscrizioni avevano valenza amministrativa e religiosa ed erano governate da un’autorità civile e militare detta capitano e da una religiosa corrispondente alla figura dell’arciprete. Differivano dalle altre le pievi di Bormio e Poschiavo dove, invece del capitanato, vi erano delle avvocazie con diritti regalistici e giurisdizionali più ampi. Anche Mazzo, da cui Grosio dipendeva, fu sede di pieve e venne fortificata, ma il vero e proprio baluardo difensivo divenne il castello di Grosio. La motivazione di tale scelta potrebbe essere stata duplice; sia perché sede di una preesistente fortificazione sia a motivo della sua posizione strategica potendo controllare contemporaneamente il corridoio dell’alta Valtellina, lo sbocco dalla Valgrosina e il passo del Mortirolo. Agli inizi del X sec. la nobiltà valtellinese era ancora agli albori e le famiglie che ricoprivano alti incarichi nella valle erano prevalentemente immigrate, tale era il caso ad esempio dei de Misenti, provenienti dal milanese e capitani della pieve di Mazzo, e di una nobile famiglia della Val Venosta, i Signori di Matsch che esercitava, per conto del vescovo di Coira, l’avvocazia sulle pievi di Bormio e di Poschiavo. L’autorità imperiale concesse a questa famiglia una ulteriore opportunità per consolidare ed espandere la propria influenza nella valle dell’Adda allorquando nominò vescovo di Como il loro congiunto Artuico che resse la diocesi dal 1091 al 1094. È verosimile che questo presule, forse mai riconosciuto dalla curia comasca e pertanto costretto a risiedere a Bormio sotto la protezione della propria famiglia, abbia favorito le mire egemoniche dei propri parenti su tutta l’alta Valle, allargano il loro controllo anche alle pievi di Mazzo e di Villa e realizzando così una continuità territoriale che andava da Poschiavo a Bormio. A ridimensionare il ruolo dei Signori di Matsch, che i documenti iniziano ad indicare semplicemente con l’appellativo de Venosta, dal nome della valle di provenienza, provvide, dopo alcuni decenni, il nuovo vescovo di Como Ardizzone che, dopo aver ottenuto dall’imperatore il controllo sul contado di Chiavenna, volle ribadire la propria autorità anche sulle pievi di Villa e di Mazzo e il controllo sul castello di Grosio.


Ipotesi e congetture sull’origine del castello di Grosio
.INIZIO PAG.

Il documento del 1150, che sanciva tali diritti, ci dà l’opportunità di ribadire l’esatta denominazione del castello che prende il nome dal colle di Groxio su cui sorge. I due nuclei rurali, che il documento qualifica come villae , figurano come pertinenti al castello stesso e mutuano il loro nome da questo colle con l’aggiunta di suffissi locativi rapportati alla loro posizione a monte, e quindi sopra, o a valle, e di conseguenza sotto detta altura. Pertanto è evidente che non sono i due villaggi di Gros-sura e di Gros-sotto che hanno dato il nome al castello, come si è soliti credere oggigiorno, ma bensì viceversa.
Occorre anche evidenziare che le vicinie di Gros-sura o Grause superiore e di Gros-sotto daranno vita ai rispettivi comuni solo in epoca successiva all’erezione del castello.
Rimanendo in ambito toponomastico merita di essere ricordata la probabile etimologia di Groxio che i linguisti fanno derivare dall’etimo crös “incavo, concavo”, attribuibile al sostrato ligure. Questa popolazione di origine indoeuropea o comunque fortemente indoeuropeizzata avrebbe popolato le nostre valli prima dell’arrivo dei Celti e, sospinta da altre ondate immigratorie provenienti dal nord, si sarebbe ritirata progressivamente nei territori della regione costiera che ne perpetua il nome, la Liguria. Nel dialetto ligure la crösa indica tuttora il sentiero incavato, il solco. Esiste in effetti un’analogia fra tale significato e la posizione del colle sul quale sorgono i castelli di Grosio. Esso infatti è posto a cavallo fra il solco della valle dell’Adda e la profonda forra scavata dal torrente Roasco che forse servì da sentiero ai primi esploratori della Valgrosina. Vale la pena anche di evidenziare come la forma convessa del colle contrapposta a quella concava dei solchi vallivi sia compendiata nel significato ambivalente di crös che, nell’accezione attuale, indica tanto la parte interna come quella esterna del guscio. La toponomastica e la linguistica per il loro carattere conservativo hanno spesso fornito, attraverso alcune cristallizzazioni, indizi importanti per la ricerca archeologica e storica. Quanto evidenziato trova infatti conferma nelle numerose tracce di presenza umana sui colli di Grosio databili anteriormente all’arrivo dei Celti. La continuità di tale presenza che elesse i colli grosini a sede abitativa e cultuale dal neolitico all’età del ferro non ha, per ora, rivelato tracce significative durante il periodo della romanizzazione se escludiamo sporadici rinvenimenti di monete imperiali lungo la piana abduana sottostante. È vero che la ricerca archeologica nella zona può ancora ritenersi allo stadio iniziale e che non sono state rinvenute tracce delle sepolture, localizzabili forse nella vallecola che corre dall’abitato di Giroldo al castello , ma per sapere quali segni abbia potuto lasciare, sarebbe innanzitutto interessante saper quanto abbia inciso la civiltà romana in questa valle. La Valtellina con i suoi passi allora strategicamente poco rilevanti rispetto a quelli chiavennaschi probabilmente rimase marginale ai loro interessi. L’assenza di reperti di epoca romana non prova automaticamente che i colli di Grosio siano stati abbandonati durante i primi secoli dell’era cristiana, ma piuttosto che usi, riti e consuetudini si siano perpetuati dalle epoche più antiche a tutta la fase della romanizzazione senza sostanziali variazioni. Roma lasciò invece probabilmente traccia del suo ordinamento amministrativo in quella suddivisione territoriale che, ricalcando forse una precedente ripartizione, si manifestò nel pagus, istituzione che raggruppava vari nuclei rurali periferici. Un’attestazione dell’esistenza di terre appartenenti alla collettività del pagus si è probabilmente
INIZIO PAG. cristallizzata nel toponimo locale raspagän. Quanto all’aggettivo paganus, si propende per un collegamento diretto con il suo significato originario di “pertinente al pagus”, in quanto i terreni “inutiles”, cioè incolti e improduttivi come in questo caso, unitamente ai boschi e ai pascoli erano beni che appartenevano, notoriamente, o alla collettività della circoscrizione del pagus o alla comunità dei residenti nel vicus. Tali proprietà costituiranno poi la base delle comunanze che, in epoca medievale, motiveranno il sorgere del comune. Meno probabile, benché suggestiva, ci sembra ipotizzabile un’accezione che muova da paganus inteso come “non cristiano” e che tale qualifica abbia voluto riflettere l’eco di culti arcaici praticati sulla sommità del colle sovrastante, ricco per altro di incisioni rupestri e con tracce di insediamenti dell’età del bronzo .
Il cristianesimo si innestò nel solco della tradizione romana e, con la forza del suo messaggio di promozione umana, completò anche quella penetrazione culturale che non era riuscita agli eserciti. La sua capillare diffusione fin nelle zone più periferiche diede rinnovato impulso e nuove motivazioni anche alle antiche circoscrizioni pagensi o concilive che si identificarono, a partire da quel periodo, nei distretti delle pievi . Esse si riconoscevano, nell’alto medioevo, nella chiesa battesimale, matrice di tutte le chiesi minori. In seguito la pieve passerà a designare la chiesa del capoluogo nel suo edificio materiale e nella sua personalità giuridica, cioè la massa di fedeli concepita corporativamente e congiuntamente alla chiesa stessa. Gli storici ritengono che le più antiche pievi valtellinesi possano risalire al VI sec., e quella di Mazzo, da cui Grosio dipendeva, potrebbe essere annoverata fra queste.


Vicende storiche riguardanti il castrum de Groxio detto anche castello vecchio o di san Faustino.

Come abbiamo già ricordato, nel 1150 il vescovo di Como aveva INIZIO PAG.riconfermato ad Artuico de Venosta e a suo figlio Eganone il capitanato sulla pieve di Mazzo, già goduto in precedenza da Bertaro de Misenti, riservandosi la giurisdizione diretta sul castello di Grosio e su tutte le terre pertinenti a detta castellanza. Placate le animosità e ristabiliti i rispettivi ruoli, in epoca successiva ritroveremo nuovamente i Venosta come custodi della rocca di Grosio ma non è ben chiaro quando ciò sia avvenuto. Nella investitura fatta da Enrico della Torre, che resse la diocesi comasca tra il 1161 e il 1167, venivano riconosciuti a questa famiglia diritti e prerogative che il vescovo in precedenza si era riservato quali la giurisdizione penale e il fodro regale oltre ad una rendita di 60 mogge da esigersi in Grossura. Benché non se ne faccia esplicita menzione, si ipotizza che già in quella occasione, con la piena investitura dei diritti capitaneali sulla pieve, anche il castello grosino sia ritornato sotto il controllo dei Venosta. Se così fosse, a partire da questo momento le vicende della fortificazione, che rimarrà comunque di proprietà vescovile fino al XV sec., saranno strettamente legate alle alterne fortune di detta famiglia. Una riconferma della precedente investitura, senza ulteriori specifiche, fu sancita anche dal vescovo Anselmo nel 1187. All’inizio del XII sec. la famiglia Venosta aveva accresciuto il suo prestigio e accumulato un cospicuo patrimonio. La vastità degli interessi e delle proprietà che andavano dall’alta valle dell’Adda a quella dell’Inn e al versante atesino sono documentati nella spartizione della sostanza lasciata da Gabardo ai figli Gabardino, Egano e Corrado, avvenuta nel 1226. Purtroppo possediamo solo l’elenco della sorte toccata a Gabardino, al quale andarono oltre a terreni e affittanze anche alcune delle fortificazioni possedute o semplicemente presidiate da detta famiglia con le rendite inerenti. Fra queste sono ricordate le torri di Pedenale, di Sparso, di Nova, di Sernio e quella di Glurns sul versante atesino. Nell’elenco non figura il castello di Grosio che probabilmente passò in sorte a Corrado unitamente al feudo paterno di Mazzo come sembra emergere dalla riconferma dell’investitura feudale fatta nel 1266 dal vescovo Raimondo della Torre. Corrado non si limitò ad amministrare i suoi possedimenti e a riscuotere le copiose rendite ma prese parte attiva alle lotte che contrapponevano il partito guelfo a quello ghibellino, schierandosi apertamente a favore della fazione comasca dei Rusconi rivale dei guelfi Vitani. Sarebbe lungo tracciare le vicende avventurose che lo videro intrepido protagonista e ci limiteremo pertanto a ricordare unicamente l’avvenimento che interessa più direttamente la nostra INIZIO PAG.trattazione. Nel 1270 il vescovo comasco Raimondo della Torre, esponente del partito guelfo, entrava in Valtellina forse per compiervi una visita pastorale o forse per soggiogare le famiglie ribelli. Fra queste doveva esserci quella dei Venosta che, secondo alcuni storici, non aveva prestato il giuramento richiesto dal vescovo per sostenere la causa guelfa. Corrado lo aspettò asserragliato nel castello di Boffalora con l’intenzione di resistergli. Il Pedrotti sostiene che “forse Corrado era già stato privato del castello di Grosio, se a quelle forti difese aveva preferito quelle del piccolo castello che guardava la corte di Sondalo, già civilmente separata dalla pieve di Mazzo benché ne facesse parte ecclesiasticamente” . Il Venosta attese dunque l’arrivo del vescovo e, con un’audace sortita, lo fece prigioniero resistendo poi per tre anni nella rocca di Boffalora ad ogni tentativo di assalto. Quando l’assedio si concluse, a Corrado fu comminata la scomunica da parte degli inquisitori e il castello fu smantellato ma agli altri difensori fu concessa una resa dignitosa che prevedeva l’onore delle armi. Nel contempo la parte guelfa, per premunirsi contro altre sorprese, aveva restaurato e fortificato quello di Grosio. Gli effetti della scomunica di Corrado ebbero ripercussioni limitate nel tempo verso i suoi discendenti perché nel 1299 il vescovo Leone reinvestiva il nipote Corradino del paterno e antico feudo nella pieve di Mazzo già tenuto in passato dalla sua famiglia. Corradino abitava nel castello di Pedenale di Mazzo ma i suoi figli Artuico e Federico presidiavano quello di san Faustino. In questo periodo la Valtellina veniva riorganizzata da punto di vista amministrativo con l’introduzione di circoscrizioni più ampie dette terzieri. La pieve continuava a svolgere le sue funzioni dal punto di vista ecclesiastico con l’arciprete quale diretto collaboratore del vescovo sul territorio. Scompariva invece la figura del capitano di pieve in quanto le competenze in materia di giustizia, di difesa e di fisco erano passate al podestà che reggeva il terziere. Di conseguenza veniva ridimensionato anche il ruolo dei castelli di pieve. Ciò nonostante l’importanza attribuita dai vescovi comaschi al castello di Grosio e la vigile custodia dei diritti e delle prerogative feudali traspare apertamente nelle formalità dell’investitura fatta il 19 maggio 1355 da Rigaldo Astorgi, vicario generale del vescovo Bernardo, a favore di Giuliano figlio di Artuico e del nipote Federico. Nell’atto di affidamento della rocca di san Faustino è ricordato il conferimento materiale delle chiavi che attribuiva diritti e poteri a chi le riceveva ma ricordava anche il pieno e assoluto diritto di possesso da parte del vescovo. INIZIO PAG.
Per quanto riguarda i beni della mensa vescovile, dobbiamo tener presente che con l’avvento dei Grigioni nelle nostre valli stava diventando sempre più arduo il controllo e l’esazione dei canoni dovuti. Il vescovo di Como, al fine di evitare di vedere vanificata ogni legittima pretesa, preferì monetizzare e incentivò quindi una politica che ne agevolasse il riscatto. Non abbiamo una documentazione che comprovi l’affrancamento del castello da parte dei Venosta ma lo possiamo supporre da una permuta effettuata il 12 febbraio 1522 fra Nicolò fu Faustino Venosta, abitante nel castello di san Faustino, e suo fratello Germino. In tale cambio, che riguarda alcuni ambienti all’interno del castello, sembrerebbe che i Venosta disponessero della piena proprietà della struttura perché Germino si riservava il diritto di poter costruire all’interno della corte in prossimità della chiesa di san Faustino. L’atto è interessante anche perché dai dettagli della permuta è possibile una ricostruzione parziale della planimetria del castello stesso . Come per altro è stato confermato anche dai recenti scavi, la costruzione si sviluppava con andamento longitudinale assecondando la morfologia del colle. Gli ambienti, di ampiezza modesta, erano disposti su più piani e si trovavano addossati alla cinta muraria. Per tutta la lunghezza al centro correva una corte che divideva e dava luce alle costruzioni disposte sui due lati e verso la quale spiovevano i tetti ad una sola ala, coperti da scandole. Gli scoli dell’acqua piovana erano convogliati verso una cisterna interna. Nell’atto si ricorda la presenza di forni, di cucine, di stue, di dispense e di cantine che confermano, se mai ce ne fosse bisogno, le caratteristiche residenziali della struttura. In altra sede esprimevo l’opinione che “la relativa angustia del fabbricato, costretto a seguire la morfologia frastagliata dell’altura, farebbe pensare più che a un opera difensiva vera e propria ad una prestigiosa affermazione dell’autorità e del potere del feudatario che vi dimorava, intento a riscuotere i tributi dai sudditi” . In effetti l’assenza di torri e la relativa modestia delle altre opere difensive dovevano far apparire la costruzione come una dimora fortificata piuttosto che come un temibile fortilizio. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il decreto di smantellamento dei castelli valtellinesi del 1526 non abbia interessato anche il castello di san Faustino che risultava ancora abitato da vari membri della famiglia nel 1586 . L’assenza di riferimenti archivistici dopo tale data ci induce a credere che sul finire del XVI sec. la struttura sia stata progressivamente abbandonata. Venute meno quelle motivazioni legate al prestigio del blasone o più semplicemente alle rendite che in passato competevano alla custodia del castello, la fortificazione perse fascino e appetibilità. Se a ciò aggiungiamo la dislocazione disagiata unita alla necessità di radicali interventi di restauro possiamo comprendere le motivazioni che indussero i Venosta, che ancora vi abitavano, a trasferire la loro residenza in dimore più confortevoli nei centri del fondovalle di Grosio e di Grosotto.


La chiesa dei santi Faustino e Giovita.
INIZIO PAG.

All’estremità meridionale del colle dei castelli di Grosio è posta la chiesa dei santi Faustino e Giovita. Benché i muri perimetrali siano stati completamente rasi al suolo a seguito dello sfruttamento della superficie a scopi agricoli avvenuto nel corso del XVIII-XIX sec., l’area su cui sorgeva è facilmente individuabile attraverso la piccola torre campanaria che ne affianca l’abside. Una relazione di fine 1800, ci fornisce i seguenti elementi descrittivi: “Come tutte le chiese de’ primi secoli della predicazione dell’Evangelio, anche questa aveva l’altare a levante, che guardava a occidente, e ciò è mostrato anche oggi dal muro semicircolare rimasto sulla roccia a sfidare le secolari intemperie e le mani vandaliche. Si entrava per due porte, l’una in comunicazione col castello, verso nord, e l’altra a ovest che metteva all’abitazione del beneficiato. Era a volta interamente dipinta, come l’attestano gli intonaci delle rovine esistenti tuttavia sotto il leggero strato di terra coltivata a vigna, che invero è alimentata dai calcinacci. Sotto il pavimento, sorretto da volta, era un sotterraneo che riceveva luce da mezzodì, e che forse serviva per tomba de’ sacerdoti e comandanti del forte” . Avremo modo più oltre di commentare e di puntualizzare alcune di queste affermazioni che comunque ci forniscono già una globale descrizione della costruzione. Circa le origini dell’edificio, si sono già vagliate le possibili motivazioni della sua dedicazione ai due martiri bresciani. Si è anche accennato alle tre fasi di interventi che l’hanno caratterizzato, trasformandolo dal piccolo sacello funerario alto medievale alla più ampia struttura del X-XI sec. L’edificio è stato spesso identificato dagli studiosi come cappella castellana, funzione che certamente svolse dall’epoca del suo ampliamento definitivo, ma tale qualifica risulta riduttiva per motivi che andremo a commentare. Innanzi tutto le sue origini non necessariamente sono da collegare con quelle della struttura castellana vera e propria. Una tradizione popolare affermava che “la chiesa è di data anteriore al castello”. Il ritrovamento di frammenti di ceramica retica all’interno del perimetro della chiesa, venuti alla luce durante i recenti scavi, oltre a documentare una frequentazione del sito in epoca preistorica potrebbero forse anche indicare che già allora l’area era stata prescelta per riti cultuali e che tale elezione sacrale sia continuata fino all’epoca alto medievale. In secondo luogo, benché la chiesa compaia più tardi come patronato dei castellani Venosta, essa non era in uso esclusivo a tale famiglia, ma aperta al culto di tutta la popolazione. Ciò è testimoniato, dal punto di vista strutturale, dalla sua collocazione esterna al castello vero e proprio e dai due accessi che aveva. Per quanto riguarda la sua INIZIO PAG.pubblica fruizione vi è poi una leggenda locale ancora molto viva fra la popolazione che narra come, in epoca alto medievale, gli abitanti di Grosio si fossero miracolosamente salvati da una rovina che aveva ricoperto il paese in quanto si trovavano tutti ad assistere alle funzioni religiose nella chiesa dei santi Faustino e Giovita . Si tratta di una tradizione che si rifà ad un tempo lontano e indefinito e perciò di difficile verifica ma è significativo che nel racconto si faccia riferimento a questa chiesetta e non a quella più accessibile di san Giorgio, forse però non ancora costruita. Una frequentazione pubblica della struttura traspare anche dalla consuetudine antichissima praticata dai fedeli di Grosio di compiervi una stazione, a dire il vero non solo di carattere religioso, tanto nell’andata come nel ritorno delle processioni rituali verso la chiesa pievana di Mazzo. Nel 1469 ser Castello fu Olderico Venosta, abitante nel castello di san Faustino, lasciava in legato ai “pauperes Christi de Groxio” un fitto di 35 staia di biade dovuto annualmente dal comune di Grosio con l’obbligo della distribuzione del corrispettivo in pane, formaggio e vino. Una parte doveva essere elargita “ad ecclesiam ipsius terre de Groxio” il giorno di san Marco, il rimanente “distribuantur ut supra annuatim personis dicti communis Groxii que annuatim et prout per tempora contingerint venire seu ire ad ecclesiam Sancti Faustini sitam in suprascripto castro Sancti Faustini, et que postea ire debeant ad letaneas usque ad ecclesiam Sancti Stefani de Maze, in recessu a dicta ecclesia Sancti Faustini” . La chiesa si trovava sul confine dei paesi di Grosio e di Grosotto e, a tal proposito, troviamo un curioso accenno già nel lodo arbitrale del 4 novembre 1540 che poneva fine alle contese sorte fra i due comuni. Nella dettagliata relazione che partiva dalla Valgrosina e si concludeva sul versante orobico si cita come punto divisorio anche la chiesa dei santi Faustino e Giovita. Il confine passava infatti attraverso la finestrella mediana dell’abside della chiesa in modo tale che tutte le costruzioni esistenti su quel dosso e il castello fossero da intendersi sul territorio di Grosio . Con l’abbandono del castello da parte dei Venosta anche la chiesetta iniziò un lento decadimento sebbene continuasse ad avere un suo beneficiale . Di ciò veniamo ragguagliati puntualmente nei verbali delle visite pastorali effettuate a cavallo del 1600. Il Ninguarda nel 1589 affermava che sopra il colle, a lato del castello diroccato “est ecclesia Sanctis Faustino et Jovitae dicata, et dotata; jus praesentandi beneficiatum spectat ad haeredes quondam d. Ulderici Quadri et INIZIO PAG.haeredes quondam d. Castelli Venusta et penes hanc ecclesiam sunt aliquot aedes rusticales” . Qualche ragguaglio in più sullo stato della chiesa lo abbiamo dai decreti emanati in tale visita: “Alla chiesa di san Faustino e Giovita si rifaccia il crostato di pittura alla cappella maggiore troppo vecchia e cadente; et all’altare mancano i cancelli” . A queste bonarie raccomandazioni del vescovo Ninguarda seguirono quelle ben più drastiche dei suoi successori. Nel 1614 l’Archinti, considerate le carenze strutturali e di paramenti, decretava il divieto di celebrarvi . L’ultimo vescovo che la vistò fu probabilmente il Carafino che nel 1629 ribadiva: “Nella chiesa dei santi Faustino e Giovita del castello si faccia un altare in prospetto della porta con la sua bradella alla forma e si provvegga de paramenti” . La fiscalità dimostrata dai vescovi nella puntuale applicazione dei decreti del concilio tridentino unita alla carenza di mezzi per interventi radicali di restauro e per una più dignitosa dotazione di paramenti decretarono praticamente la chiusura al culto e il rapido decadimento della vetusta struttura. Poco dopo la caduta della volta della chiesa, che si pensa sia avvenuta attorno al 1790, andò in rovina anche il campaniletto che in alcune cartoline di fine ‘800 compare sbrecciato sul lato occidentale e senza cuspide. Gli interventi di restauro di questo furono realizzati agli inizi del 1900 perchè, alla morte del marchese Emilio Visconti Venosta nel 1914, l’arrivo della salma nel territorio di Grosio fu salutata col tocco di una campana appositamente issata su quella torre. Gli ultimi interventi alla copertura del campanile si ebbero solamente nel 1950 quando fu nuovamente issata la croce patriarchina, probabilmente rinvenuta in loco, e che testimonia la dipendenza per oltre un millennio della nostra diocesi dal lontano patriarcato di Aquileia. Il Serponti non accenna alle due tombe scavate nella viva roccia in quanto allora la superficie risultava coltivata a vite. Da testimonianze orali attendibili sembrerebbe che la lastra che le ricopriva sia stata tolta da ricercatori abusivi solamente attorno al 1920 ma si ignora il contenuto delle stesse.


Il castello nuovo o visconteo.
INIZIO PAG.

Nel corso del 1300, sul lato nord del breve pianoro del colle di Grosio, fu eretto un nuovo fortilizio ben più possente del vecchio castello vescovile di san Faustino. Tale struttura, benché affidata alla custodia della stessa famiglia dei Venosta, non fu concepita come complementare a quella più antica, ma venne realizzata dai Visconti, nuovi signori della Valtellina per rispondere a precise esigenze strategiche. Gli avvenimenti che determinarono la sua costruzione possono essere così sintetizzati. Il 2 luglio 1335 entrava trionfalmente in Como Azzone Visconti, già signore di Milano, dove veniva eletto “perpetuo e generale signore della città e del vescovado di Como” . La Valtellina, che dipendeva dal comune lariano, si sottometteva docilmente al dominio dei Visconti ma Bormio, legata a Ulrico di Matsch, preferiva giurare fedeltà al vescovo di Coira nel tentativo di salvaguardare autonomia e privilegi daziari. I Visconti intrapresero allora varie iniziative per superare le resistenze dei Bormini, ma questi per oltre quindici anni rintuzzarono le pretese dei signori di Milano. La tregua prorogata nel 1339 da Giovanni Visconti risultava già rotta nel 1343 e l’anno successivo era stato allestito un esercito contro i Bormini che aveva però operato invano per tre mesi tra Grosio e Sondalo. Nel 1348 Luchino Visconti aveva anche applicato sanzioni economiche bloccando il commercio del vino ma i Bormini, oltrepassata Serravalle, avevano occupato la rocca di Boffalora e la loro avanguardia aveva cozzato con l’esercito visconteo mosso da Grosio. Nello stesso anno però Bormio veniva presa con la forza e, oltre a dover accettare un podestà visconteo, veniva sottoposta ad un censo di 400 fiorini d’oro. Considerate le difficoltà incontrate per il controllo dell’alta valle i Visconti decisero di presidiare la zona di Grosio con una adeguata fortificazione sfruttando quell’altura che permetteva anche il controllo dell’accesso alla Valgrosina. Questo importante punto di riferimento si rivelò determinante per sottomettere nuovamente Bormio che era insorta con gran parte dei comuni valtellinesi nel 1370 e che, a differenza del resto della valle, nel 1375 resisteva ancora a Galeazzo Visconti. “Nell’ottavo decennio del secolo decimoquarto Grosio divenne il trampolino necessario per balzare su Bormio; i Venosta di Mazzo, diventati ghibellini e viscontei, si ponevano contro il vescovo di Coira ed i lontani cugini di Matsch” . I Visconti avevano acquisito l’importante sostegno dei Venosta largheggiando nella concessione di privilegi. Già l’arcivescovo Giovanni nel 1353 aveva concesso alla famiglia l’esenzione d’ogni dazio e pedaggio e tali prerogative erano state confermate il 23 febbraio 1372 da Galeazzo a beneficio di tutta l’agnazione dei Venosta. Come atto di ritorsione contro tale appoggio, l’anno successivo, i Bormini facevano razzia di capi di bestiame pascolanti sull’alpe di Verva in Valgrosina e appartenenti, probabilmente, ai Venosta. I Visconti, rafforzato a spese di tutta la valle il castello di Grosio, che quindi risultava già interamente costruito, lo affidavano alla custodia di Olderico Venosta detto Felino e allestivano una nuova spedizione. Il 30 novembre 1376, muoveva da Grosio l’esercito milanese al comando di Giovanni Cane, integrato con INIZIO PAG. elementi locali, e, forzate le difese di Serravalle, metteva a ferro e fuoco la terra di Bormio . Le condizioni di resa furono pesanti. Il censo ducale fu portato a 300 fiorini, fu ordinato lo smantellamento delle difese meridionali e fu imposto un risarcimento per i danni subiti dai Valtellinesi. Nell’incontro convocato alle Prese di Sondalo per accordarsi su tale rimborso i Bormini e i Venosta vennero a contesa e nella rissa rimasero uccise ben trentasette persone. Il castello di Grosio, o castrum novum come viene definito nei documenti dell’epoca, conservò rilevanza strategica ancora per alcuni decenni e tutta la Valtellina fu costretta a concorrere per le spese di custodia. Il 26 giugno 1377 Olderico Venosta dichiarava di aver ricevuto dal canepario del terziere inferiore lire 70 imp. “pro custodia castri Grosii” . Nel 1382 il duca di Milano gli concedeva un credito di 60 fiorini per rafforzare il castello, affidando al comune di Como il controllo sulle spese, fino alla concorrenza di tale somma. Lo scudo araldico rossocrociato del comune di Como che ancor oggi si percepisce sotto gli spalti del lato occidentale probabilmente fu realizzato a ricordo di tale supervisione. Ancora nel 1416 Olderico, castellano di Grosio, vantava crediti, relativi a tale mansione, verso Franzino di Ambria del terziere di mezzo . La fedeltà dimostrata e le benemerenze acquisite furono generosamente ricompensate dai Visconti con l’incremento dei privilegi già goduti in precedenza. Nel 1416 il duca Filippo Maria lo nominava conservatore del castello e, a compenso delle spese correnti, gli cedeva le onoranze e gli emolumenti del dazio e del pedaggio che si riscuoteva nel territorio di Grosio. A coronamento di una intera vita passa al servizio dei Visconti, Olderico detto Felino, faceva tenere a battesimo da un procuratore del duca di Milano un nipote natogli dal figlio Gregorio al quale veniva imposto il nome di Visconte. Da qui l’uso, invalso ufficialmente solo nel XVII sec., di qualificarsi col doppio cognome Visconti Venosta passato a distinguere il ramo grosino dagli altri Venosta. Si è disquisito molto sul fatto se questa struttura sia stata abitata dal castellano o unicamente presidiata da una guarnigione anche perché gli eventuali alloggiamenti, posti nel recinto superiore, risultano attualmente rasi al suolo e quindi poco leggibili. Da alcuni documenti sembrerebbe emergere che Olderico Venosta via abbia effettivamente vissuto fino al 1418 . Si direbbe che con la morte di Olderico, avvenuta nel 1419, anche il castello abbia iniziato una progressiva decadenza. Non essendo più strategicamente rilevante nella politica dei Visconti, che finalmente controllavano saldamente anche l’alta valle, i figli di Olderico posero altrove la loro residenza . Il castello di Grosio assunse nuova importanza solo sul finire del 1400 quando Ludovico il Moro cercava di organizzare una valida difesa in previsione di una nuova invasione dei Grigioni. Nel 1487 i Grigioni, scendendo da Bormio, con relativa facilità avevano percorso tutta la valle prima di incontrare una valida resistenza a Caiolo. Nella pace di Ardenno avevano rinunciato alle terre occupate in cambio della totale esenzione dei dazi e di un indennizzo di 12.000 ducati d’oro ma questo primo fruttuoso tentativo ne preannunciava altri. Lo Scaramellini, citando il carteggio ducale, ci informa che “nell’ottobre del 1493 il podestà di Bormio, Enea Crivelli, sentendo vicino il pericolo di un’altra invasione, dopo aver saputo da Scarioto, preposto alla INIZIO PAG.difesa di Tirano, che avrebbe potuto contare su almeno 200 persone, invitò lo stesso a studiare la possibilità di rendere di nuovo agibile il castello di Grosio, quello dei Venosta, che aveva bone murade al frixo e merlato ed era situato in buona posizione per controllare il passaggio di quisti barbari” . La struttura muraria doveva essere sostanzialmente integra e gli interventi dovevano riguardare le parti mobili in legno come gli impalcati lungo gli spalti. Sembra però che la maggiore attenzione venne allora riservata al rafforzamento della serra che tagliava la valle. Non avendo goduto di particolari interventi di restauro, la sua inagibilità di fatto preesisteva alle disposizioni impartite dai Grigioni nel 1526 che prevedevano lo smantellamento delle principali fortificazioni valtellinesi. Si spiegherebbe in tal senso la disputa per il possesso dei ruderi del castello e dei terreni annessi che nel 1522 vide opposto il comune di Grosio ai due frati agostiniani eremitani Vitale e Umiliato. I due frati, che nella petizione rivolta agli oratori delle Tre Leghe affermavano di provenire dalle terre venete dove vi erano guerre e liti, erano giunti in Valtellina e in Grosio erano stati loro offerti da persone pie alcuni beni immobili nei pressi di un castello cadente dove intendevano erigervi un convento. Il 15 dicembre 1522 le autorità grigioni esprimevano parere favorevole concedendo loro di costruire una casa o monastero con una chiesa, senza danno, pregiudizio e detrimento di alcuna persona ivi commorante . Contro tale parere ricorse il 4 luglio 1523 il decano del comune di Grosio affermando che la superficie dove sorgeva il castello era un bene della comunità, che la vedova di Fedregino Venosta non aveva nessuna veste giuridica per compiere tale donazione e che i frati agostiniani stavano già realizzando un altro monastero in Lovero e cioè a circa quattro miglia da Grosio quando, secondo le disposizioni di quell’ordine religioso, un convento doveva distare almeno quindici miglia dall’altro. L’epilogo della causa si ebbe solamente nel 1533 quando gli oratori delle Tre Leghe assegnavano “ad pauperes Groxii” i ruderi contesi e condannavano il comune di Grosio a riconoscere ai frati agostiniani un indennizzo di lire 60 imp. . Confluito nei beni del Capitolo delle Elemosine, il castello o più propriamente i terreni all’interno della cinta muraria furono oggetto di varie transazioni. Nel 1540 il comune dava in affitto a Battista fu Giovanni de Tarabini alcuni fondi “intra moenia” compreso il fossato, verso sera, di quel castello, vicino alla strada “per quam itur ad Sanctum Faustinum”, riservandosi un “ortegello seu terreno existente in capite dicti castri per se clauso” e quel tratto di terreno esistente sopra detto fossato fra la cinta esterna dove è sita la vigna di Antonio e Michino Venosta e la prima cinta, “quae est intus a turre magna ruinata versus nullaoram” . Da questa descrizione apprendiamo alcune notizie molto importanti, ignorate in precedenza, che ci permettono una migliore lettura della planimetria del castello. Scopriamo così che il lato ovest era difeso da un fossato, colmato INIZIO PAG.successivamente dagli interventi agricoli, e che la cinta interna era completata a nord da una grande torre, dove forse erano situati gli alloggiamenti del castellano, che risultava già franata a quell’epoca. Ignoriamo se il crollo della torre sia avvenuto per cedimento statico o sia stato provocato da un incendio, esso comunque giustifica la breccia esistente sul lato nord-est delle cerchie murarie superiore e inferiore. Nel 1544 i fondi precedentemente locati venivano venduti al cavalier Antonio Maria fu Luigi Quadrio di Tirano per la somma di 20 scudi d’oro, fatti salvi i diritti dell’affittuario . Allo scoppio della rivolta valtellinese del 1620, la possente struttura muraria del castrum novum che, non ostante qualche cedimento, aveva resistito al degrado, e si presentava pur sempre temibile con ampie garanzie di solidità, fu nuovamente ripristinata. Il perticatore Apollonio detto Fortuna di Edolo che, allo scoppio della rivolta, era stato ingaggiato dal cavalier Robustelli per curare le difese di Tirano e di Piattamala e che conosceva molto bene Grosio per aver redatto gli estimi nel 1618, così si esprimeva: “Hanno quelli de Grossio un bellissimo castello, fabricato in cima d’un sasso vivo, verso sera della terra, discosto un mezzo miglio; fu già dei duci di Milano lo fabricarno che si vede dentro alli merli dipinta sopra tutti la biscia di Milano. Era andato a male, adesso l’hanno ritornato a ricoverzere e vi habitano fino a 80 soldati” . Da tale descrizione apprendiamo quindi non solo che il castello era stato riattato ma anche che i lacerti di intonaco sotto le merlature esterne, recentemente rimessi in luce, ripetevano lungo tutti gli spalti il blasone visconteo. Dopo la battaglia di Morbegno del 10 novembre 1635, il duca di Rohan aveva ordinato di fortificare il castello di Grosio . In ottemperanza a tali disposizioni, il cancelliere del Terziere superiore Robustelli decretava: “Grosio darà al castello di Grosio per lavorare adì 17 dicembre carratori 5 et manuali 15”. E nuovamente il 2 febbraio 1636 stabiliva che: “Grosio darà per uso della fortificazione del castello adì 7 febbraio 12 muratori, 12 legnamari et 12 manuali; et adì 8 febbraio, 7 muratori, 7 legnamari et 7 manuali che così gli tocca per il comparto” . A questo
intervento si deve, probabilmente, il tamponamento di parte delle merlature con feritoie per le armi da fuoco. Come è facile percepire dai fori mediani esistenti nell’intradosso dei merli, precedentemente tali interspazi disponevano di una portella lignea basculante che offriva protezione ai difensori e permetteva il recupero delle frecce scagliate dagli attaccanti. Passato il periodo burrascoso della rivoluzione valtellinese, il castello fu nuovamente smantellato e i suoi spazi interni riutilizzati per scopi agricoli. Per evitare occupazioni abusive o usurpazioni di beni comunali, nel 1786 il podestà di Tirano Nicolò Christ de Sanz ordinava ai possessori o affittuari dei terreni siti in località Castello di notificare tale possesso . La riscoperta delle origini e del ruolo svolto dalla famiglia Venosta, venuti alla luce grazie alle ricerche archivistiche effettuate da Nicola Visconti Venosta, indusse i suoi nipoti a valorizzare quei ruderi castellani che erano stati già dimora dei loro avi. Il 17 novembre 1863 il comune di Grosio, in segno di gratitudine e di riconoscenza, cedeva ai fratelli Emilio, Giovanni ed Enrico Visconti Venosta i resti del castello di Grosio . La fortificazione ritornava dunque nel possesso di quella famiglia che i Visconti, già a suo tempo, avevano scelto come custode. Il Ministro degli Esteri Emilio Visconti Venosta, abbandonato il sogno di ripristinarla a sua dimora, ne consolidò i ruderi contribuendo in tal modo a salvaguardarne la conservazione fino ai nostri tempi. L’affetto manifestato dai Grosini ai Venosta trovò sempre una controparte grata, attenta ai bisogni di quella popolazione e pronta a ricambiare con altrettanta generosità. Nel 1987 la marchesa Margherita Pallavicino Mossi, vedova di Giovanni Visconti Venosta e ultima erede della casata, affidava al costituendo Parco delle incisioni rupestri la tutela e la valorizzazione di queste testimonianze storiche e architettoniche tanto care alla sua famiglia. Con i recenti restauri, che ci auguriamo possano garantire a lungo la conservazione delle vestigia rimaste, abbiamo raccolto idealmente il testimone lasciatoci dai Venosta e affidiamo ai posteri questa struttura che resta “malgrado la sua condizione di rudere, uno degli esempi castellani più cospicui e attraenti dell’intera Valtellina”


La serra di Grosso
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Concludiamo la trattazione della storia delle fortificazioni grosine con un accenno allo sbarramento che, scendendo dal castrum novum, tagliava tutta la valle e giungeva fino all’Adda. Attualmente di tale fortificazione non rimangono resti emergenti se escludiamo il tratto di muro merlato che dal castello scende fino al piano in prossimità degli impianti dell’Azienda Energetica Municipale di Milano. I lavori di bonifica agraria hanno invece totalmente cancellato ogni segno visibile sul fondo valle e, a testimoniare l’esistenza di tale difesa, sono rimasti unicamente i due toponimi la sèra e i fusà. Lo sbarramento fu realizzato a completamento delle opere difensive del castello visconteo. Esso compare ufficialmente già nel 1379 dove si ricordava “petia una terre campive sub Seram ubi diciur ad Cloxuram”. La funzione dello sbarramento non era solo difensiva ma anche di natura fiscale in quanto i pedaggi, che vi si riscuotevano già nel 1374 , costituirono parte degli emolumenti riconosciuti dai Visconti alla famiglia Venosta per la custodia del castello. Nel 1620 si ricordava ancora che “vi eran muraglie e fosse che andavano dal castello al fiume Ada, che dicono la Serra; come ancora tra Sondelo e Bormio, che vi è una serra tra le montagne che poche persone possono diffendersi d’un grosso numero di gente, così qui altre volte vi era un baloardo su la strada reale con ponte levatore”.A differenza dei documentati interventi sul castello, i resti di questo sbarramento non sembra che siano stati rafforzati nel corso degli eventi bellici della rivolta valtellinese. Precedentemente però, verso la fine del 1400, erano stati oggetto quantomeno di una attenta valutazione da parte dei funzionari sforzeschi preposti a rafforzare le difese in vista di una nuova invasione grigione proveniente dal nord. Come evidenziava anche il perticatore di Edolo, nel passo citato, in alta Valtellina vi erano due serre ben distinte. Quella di Serravalle, che i carteggi sforzeschi chiamano anche murata dele Prexe, era stata realizzata, forse già agli inizi del XIII sec. dai Bormini per difendersi da attacchi provenienti dalla Valtellina e nel corso del 1300 l’esercito visconteo aveva incontrato non poche difficoltà a forzarla. Quella di Grosio, allestita dai Visconti, intendeva al contrario contrastare le invasioni provenienti da nord. La murata di Grosio non era isolata, ma completava un sistema difensivo imperniato su un castello che, pur necessitando di restauri, aveva ancora “bone murade al frixo e merlato”. A differenza di quelle di Serravalle le opere difensive erano già predisposte per contrastare attacchi provenienti dal nord. Inoltre queste fortificazioni erano già state sperimentate dai ducali quando nel febbraio del 1487 avevano tentato col Trivulzio di sbarrare il passo ai Grigioni. Per contro però la valle in quel punto si allargava per più di un chilometro e le difese avrebbero potuto essere aggirate se gli assalitori, passando oltre l’Adda, avessero seguito i sentieri sul versante orobico. Nonostante il parere contrario dei Bormini che si sarebbero di fatto trovati privi di difesa, alla fine perciò si optò per fortificare la murata dele Prexe “essendo Serravalle il punto naturale più adatto ed economicamente conveniente per una muraglia di sbarramento” .

 



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