Appunti su Johann Gottlieb Fichte

per lo smascheramento di Archiagottlieb

 

 - a cura di Nereo Villa -

 

Ho trascritto questi appunti (dal volume "Storia della filosofia a cura di François Châtelet") al fine di smascherare l'assunzione di abitudini di pensiero di Fichte, o sue di forme di pensiero, o di corpo eterico, nonché della sua generale gebärde (in tedesco: "gesto", "atteggiamento", "comportamento"; vedi il video "Attento alla gebärde, Archiagottlieb") da parte di un individuo psicolabile secondo la psichiatria attuale, ma che preferisco chiamare semplicemente fagno o furbetto. Si tratta di Archiagottlieb, un personaggio di mia creazione - ovviamente non dal nulla - ma ispiratomi da reiterati comportamenti da me a lungo osservati ascoltando mp3 di conferenze tenute da un certo signor Pietro Archiati ex sacerdote, imprenditore editore di opere di Rudolf Steiner. Opere, che egli dimostra di non comprendere o di comprendere secondo pregiudizio conforme a chiavi di lettura ancorate negli scritti di J. Gottlieb Fichte. Fichte è considerato da Rudolf Steiner e dal sottoscritto un impedimento all'evoluzione della filosofia (R. Steiner, "Verità e scienza. Proemio di una filosofia della libertà", Milano, 2012, pp. 8-9).

Nereo Villa

 

Ancora più di Kant, Fichte (1762-1814) fu detto "il padre della filosofia moderna" (Alexis Philonenko in "Storia della filosofia a cura di François Châtelet", Milano 1976, vol. V, p. 44ss). Così lo chiamava del resto Schopenhauer, mentre nella tesi di laurea di Rudolf Steiner risulta essere - assieme ad altri pensatori privi di fondamenta quali Schelling ed Hegel - un danneggiatore del pensare ("Verità e scienza", op. cit., ibid.).

 

"Ciò che caratterizza il pensiero di Fichte è innanzitutto la sua difficoltà" (Philonenko, ibid.).

 

Anche se egli divenne rapidamente celebre (cfr. X. Léon, "Fichte et son temps", Colin, Paris 1922-1927, vol. I, p. 265), i suoi lettori si scoraggiarono ben presto dinanzi alla straordinarie confusioni presenti nei sui scritti e soprattutto nella "Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre" (Principi della teoria della scienza, 174). Quest'opera supera in oscurità tanto la Critica della ragion pura quanto la Fenomenologia dello spirito (cfr. Philonenko, op. cit. p. 44), tanto che lo spirito della filosofia di Fichte fu in parte frainteso e in parte determinato da commentatori famosi come Jacobi, e appunto Hegel e Schelling, che a partire dal 1795, pubblicò esposizioni un po' più chiare.

 

"L'opera di Fichte coincide in una certa misura con la sua vita. Nato da genitori poveri, Fichte poté compiere studi solidi grazie a un filantropo (X. Léon, op. cit., vol. I, pp. 33-34) ma, giunto all'età adulta, si ritrovò senza risorse, al punto che, da una notizia fornita dal figlio, pare si possa desumere un suo tentativo di suicidio" [il grassetto è mio - nota del curatore] (A. Philonenko, "La liberté humaine dans la philosophie de Fichte", Vrin, Paris 1966, p. 12, in "Storia della filosofia...", op. cit).

 

Chi, come Fichte, scrive per vivere, cioè fa lo scrittore di professione, non è uno che ha sempre qualcosa da dire, bensì che pur non avendo sempre qualcosa da dire scrivere sempre qualcosa per... mangiare. È noto che Fichte fosse scrittore di professione. Cioè scriveva per vivere. Se però la gente non ti capisce perché sei troppo confuso, delle due l'una: o cerchi una migliore chiarezza espressiva oppure c'è da suicidarsi, soprattutto se di fronte al tuo insuccesso di scrittore permani nell'assolutamente convinzione che quella dello scrivere sia la tua missione... In merito allo scrivere è mia opinione che, per facilitare il compito del lettore, nei libri dovrebbe essere sempre indicato il contratto editoriale, in modo che l’utente sappia subito individuare il tipo di rapporto instaurato fra scrivente ed editore. Infatti molti sono gli scriventi di professione che si sono fatti un nome, o un’immagine, calpestando il mondo e/o dicendo di esso il bene o il male a seconda del proprio tornaconto.

 

Comunque Fichte ebbe fortuna oppure fu molto furbo nel farsi conoscere? Massimamente entusiasta della filosofia kantiana, per guadagnare un po' di denaro, scrisse in stile kantiano "Versuch einer Kritik aller Offenbarung" (Saggio di critica di ogni rivelazione), e fece uscire il libro senza indicazione del nome dell'autore.

 

Lo scritto fu allora attribuito per generale consenso a Kant, allora molto di moda, dato che incominciava il tempo della massima sfiducia nel pensare umano in nome del dover essere in un certo modo per compensarla. E tutti i critici salutarono questo nuovo gioiello come prodotto da Kant.

 

Ben presto il vero autore fu scoperto e, grazie a questo scoop, Fichte fu conosciuto, dato che questa sua prima opera comportava una solida premessa, dato che "soltanto uno spirito impregnato della filosofia trascendentale di Kant poteva averla concepita" (M. Gueroult, "L'évolution et la structure de la Doctrine de la science chez Fichte", Parls-Strasbourg 1930, vol. I, pp. 165 sgg., in ibid. p.45).

 

L'incontro di Fichte con la "Critica della ragion pratica" di Kant era stata determinante per il suo pensiero. E da quel momento in poi Fichte si sforzò "di portare la filosofia trascendentale di Kant a un punto di perfezione sistematica" (ibid.).

 

A differenza di Steiner, il quale confuta la filosofia di Kant come come oscurantista, Fichte la perfeziona facendone un sistema.

 

Fra la fine del 1792 e i primi mesi del 1793, Fichte vive a Danzica, lavorando come precettore presso i Conti di Krokow e viene introdotto alla loggia massonica "Eugenia ai leoni coronati". In questo periodo che si guadagna l’epiteto di “giacobino”.

 

Nel 1794 Fichte diventa professore a Jena. Questo è il periodo della sua massima fama. Ma prima di essere chiamato a insegnare filosofia (o, più esattamente, la "sua", cioè di Kant, filosofia), un anno dopo quel suo primo libro, nel 1973, Fichte ne pubblicava un altro intitolato "Beitrag zur Berichtigung der Urteile über die Französische Revolution" [Contributi destinati a rettificare il giudizio del pubblico sulla Rivoluzione francese].

 

Fichte non firmò neanche questo suo secondo libro che riguardava il secondo aspetto del pensiero fichtiano: la politica. Non lo firmò per la solita furberia o per scaramanzia? Oppure ancora perché non ne ebbe il coraggio? Philonenko scrive che "non osò firmare" (ibid.). Probabilmente perché in quel momento "in Germania si andava attenuando o addirittura ribaltando il precedente entusiasmo per la rivoluzione francese" (Valerio Verra, alla voce "Fichte" nell'"Enciclopedia Garzanti di Filosofia", Milano 1991). Di fatto in quegli anni il giornale "Eudaemonia" del 1795, recensendo la seconda edizione del "Beitrag", aveva chiaramente paragonato Fichte a Robespierre, definendolo "patriarca dei sanculotti tedeschi" e "vangelo dei decapitatori" e lo aveva presentato come il difensore teorico, in area tedesca, della ghigliottina francese!

 

Se si cerca in Internet i rapporti fra Fichte e la "Todesstrafe" (pena di morte") si trovano tracce dell'ambiguità della posizione di questo pennivendolo in merito alla pena capitale. Infatti gli ipocriti del comunismo giuridico di Fichte sostengono, a differenza dei liberi, che Fichte era contrario alla pena di morte.


In effetti nel 1797, Fichte aveva respinto la dottrina penale kantiana ma solo "nella misura in cui" Kant la presentava "non come mezzo, ma essa stessa come un fine", fondandola "in un imperscrutabile imperativo categorico"
(J. Gottlieb Fichte, "Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza" a cura di L. Fonnesu, Bari, Laterza 1994, pp. 229, 245 e sgg.). Quindi la respinse esclusivamente per riproporla con altra veste formale, mostrandosi al pubblico come il perfezionatore di Kant, facendosi passare come suo discepolo!

 

Gottlieb Fichte giustificava così il fine della pena di morte non come kantiano imperativo categorico ma come sicurezza di Stato: "La pena è mezzo per il fine ultimo dello Stato - la sicurezza pubblica - e l'unico scopo che con essa ci si pone è impedire la trasgressione tramite la sua minaccia" (ibid., p. 229).

 

Il massimo dell'ipocrisia di Fichte lo raggiunse con le seguenti sue parole talmente stataliste da evocare una mafiosa (almeno per me) distinzione, e cioè che che la morte data dallo Stato non era morte: "Se lo Stato uccide il criminale, non lo fa come Stato, ma come forza fisica più grande, come mera forza naturale [...]. La morte del condannato non è affatto una pena, ma soltanto una misura di sicurezza. Ciò ci da' l'intera teoria della pena di morte. Lo Stato come tale, come giudice, non uccide; esso, semplicemente dichiara nullo il contratto" (ibid. p. 243).
 

Insomma per questo balordo, l'esecuzione di un colpevole non era una pena di morte ma "solo" un provvedimento statale di sicurezza per cui "la morte non deve nella legislazione criminale assumere i caratteri di una pena. I tribunali si devono limitare a sciogliere verso il malfattore il contratto sociale: costui resta per conseguenza destituito di ogni diritto, e può essere consegnato alla polizia perché ne faccia ciò che meglio le piace" (cfr. archive.org).

 

La veemenza con cui si può dichiarare bianca una cosa ma anche nera (come nel video del Partito ma-anchista di Crozza che imita bonariamente Veltroni) emerge, per es., nello stile di Archiagottlieb quando parla dell'espianto organi dicendo tutto e il contrario di tutto (vedi il video "Tutto e il contrario di tutto"), in quanto assolutizza fichtianamente i concetti di libertà e di convinzione. Perché si comporta così? Lo fa per ragioni ideologiche in quanto, se non lo facesse, crollerebbe tutto il sistema del comunismo giuridico di Fichte di cui è divulgatore, mascherato da divulgatore dell'opera omnia di Rudolf Steiner, così come Fichte si mascherava da discepolo di Kant. È una dinamica notoria oramai questa: quando intorno a un messaggio si costruisce un gruppo, un crocchio, una chiesa, ecc., o intorno a un'idea un'ideologia, ogni assolutizzazione delle norme (vedi il video "Norma e logica") tarpa le ali al ogni sempreverde intuire umano e prende il sopravvento sullo spirito. Lo spirito incarnato però sospende la legge (epicheia) in nome dell'amore (individualismo etico), ed è lo stesso Logos a dichiararlo quando dice: "Il sabato (la legge) è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato" (Marco 2,27).  

 

Ancora oggi, coloro che tendono al pensiero debole o al neomarxismo sedicente filosofico, sorvolano, confutano, o negano queste cose, dato che la furbizia di Fichte, tanto osservata quanto occultata, è diventata la furbizia di coloro che oggi, terzo millennio, ci governano ancora, sia da destra che da sinistra, e che si fanno passare per quelli che non sono, esattamente come Fichte si faceva passare come discepolo di Kant: "Fichte, non discepolo, ma caricatura di Kant dice: Sciocchi! Lasciate stare quella porta [della cosa in sé]; Kant ha scherzato; dentro non ci è nulla. La cosa in sé, il vero reale, non esiste; tutto è prodotto del cervello, dell'io. E fu Fichte che introdusse nella filosofia le formole, gli oracoli, tutto l'apparato della ciarlataneria" (Francesco De Sanctis, "Schopenhauer e Leopardi", Reggio Calabria 2007)!

 

L'essenziale dei contenuti del furbissimo Fichte è comunque costituito da un lato da ricerche di filosofia pura, la "Wissenschaftslehre", [Dottrina (o Teoria) della scienza"] e dall'altro dai suoi lavori politici. "Questi due aspetti del pensiero fichtiano sono legati in modo assai stretto" (Philonenko, ibid.).

 

Nel 1799, Fichte attraversa un periodo decisivo: accusato di ateismo, è "costretto ad abbandonare l'insegnamento a Jena e a rifugiarsi a Berlino" (ibid.). È così costretto anche a mutare la sua ideologia e molte cose della sua professione di scrittore e di filosofo cambiano: mette da parte innanzitutto la filosofia, e cioè le sue ricerche fondamentali (vale a dire la "Wissenschaftslehre", che chiamerà "W.-L."), e incomincerà a produrre solo esposizioni "facili" e popolari del suo furbo pensiero ("Die Bestimmung des Menschen" [La missione dell'uomo], 1800; "Die Anweisung zum seligen Leben" [Guida alla vita beata], 1806), tendendo perfino nei titoli ad inaugurare lo stile new age.

 

Più che un padre della filosofia, Fichte mi pare a questo punto il padre fondatore della new age dei guru odierni, dato che l'espressione dei suoi pensieri diventa subito e in modo netto più religiosa mostrando così "un contrasto nettissimo fra la sua prima e la sua "seconda filosofia"" (E. Cassirer, "Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neuren Zeit", Berlin 1923, p. 1911 [trad. it. Storia della filosofia moderna, 4 voll., Einaudi, Torino 1954 sgg.] in ibid.).

 

Il Fichte, il "pennivendolo degli illuminati e dei massoni" (Dioniso in "Fichte e la Propaganda Filosofica degli Illuminati") modifica pubblicamente e decisamente la sua opinione sui problemi politici e diventa, come si vede nel suo articolo dedicato a "Machiavelli scrittore" (A. Philonenko, "Le problème de la guerre et le machiavélisme chez Fichte", "Guerre et Paix", 1968/3 in ibid.) "un teorico della politica della forza, rinnegando in parte le sue prime convinzioni repubblicane" ("Storia della filosofia a cura di François Châtelet", op. cit.).

 

Dopo l'accusa di ateismo, nonostante i rattoppamenti tipici del pennivendolo, il fiasco di Fichte aumentando il suo declino: "fu soppiantato nei favori del pubblico filosofico dapprima da Schelling, cui lo oppose una polemica amara, e poi naturalmente da Hegel. Nonostante i suoi roboanti "Discorsi alla nazione tedesca", egli soccombette nell'indifferenza generale e la sua morte passò pressoché inavvertita (X. Léon, op. cit., vol. lI, p. 285 in ibid. p.46).

 

Così si concludeva la storia di furbizia filosofica del giacobino (così lo chiamavano) J. Gottlieb Fichte, che fin dall'inizio aveva dovuto fare i conti col suo essere "incerto se abbracciare la carriera ecclesiastica o dedicarsi interamente alla filosofia, data la situazione economica estremamente difficile" (Valerio Verra, op. cit. p. 303).

 

Anche se la pubblicazione delle sue opere postume, a cura del figlio - che evidentemente seguiva lo stile paterno del rattoppamento ideologico secondo le convenienze del momento - sono un'"edizione spesso infedele: i testi sono stati corretti in modo assai contestabile" (Philonenko, "Storia della filosofia...", op. cit. p. 46), l'interesse del pubblico per Fichte termina, e solo all'inizio del XX secolo ci si dedica nuovamente allo studio del suo pensiero: le pubblicazioni di F. Médicus, i lavori di X. Léon (ad es., la grande biografia "Fichte et son temps", e "La philosophie de Fichte", Colin, Paris 1902), di M. Gueroult (op. cit.; si vedano anche le introduzioni di Gueroult alle traduzioni francesi "Destination de l'homme" di Molitor, Montaigne, Paris 1942, e "Initiation à la vie bienheureuse" di Rouché, Montaigne Paris 1944), di E. Lask (E. Lask, "Fichtes Idealismus und die Geschichte", in "Gesammelte Schriften", Mohr, Tübingen 1923, vol. I.) e di G. Gurvitch (G. Gurvitch, "Fichtes System der konkreten Ethik", Mohr, Tübingen 1924), suscitano la cosiddetta corrente fichtiana illustrata da varie opere, tra cui, in primo piano, il tomo di J. Dreschler "Fichtes Lehre vom Bild" (Kohlhammer, Stuttgart 1955; cfr. anche D. Julia, "La question de l'homme et le fondement de la philosophie", Aubier-Montaigne, Paris 1964; L. Pareyson, Fichte, Edizioni di "Filosofia", Torino 1950; si consulterà in generale per la bibliografia fichtiana il "Bulletin de l'idéalisme allemand" di X. Tilliette, in "Archives de Philosophie", 1967; da sottolineare anche, in queste stesse "Archives de Philosophie", il volume edito nel 1962, secondo centenario della nascita di Fichte, e nel N. 4 del 1965 l'articolo di R. Lauth, "L'ìdée totale de la philosophie d'après Fichte"). È questa in definitiva la corrente matrice dell'odierno pensiero debole, la quale kantianamente continuò a "rivelare" nell'uomo "una impressionante riserva di negatività e una straordinaria vocazione annientatrice" (Luigi Pareyson, "Filosofia della libertà", Genova 2000, p. 27), nonché la scoperta del dolore come senso della vita (ibid., p. 32) in cui il prevalere del significato negativo della libertà per l'uomo, il cui essere autenticamente libero solo come testimone sofferente della propria nullità, evocano un'ontologia del dolore, cioè tutto il contrario dei contenuti di individualismo etico scoperti da Steiner nella sua filosofia della libertà.

 

Secondo Xavier Tilliette, filosofo e teologo, allievo del grande Urs von Balthasar, il momento più importante del pensiero di Fichte - anche se la maggior parte degli interpreti si orienta verso i suoi  ultimi lavori e soprattutto verso la "Wissenschaftslehre" del 1804 - è quello del suo "Grundlage" del 1794 (X. Tilliette, in "Archives...", 1967, p. 578, in Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 46), precedente all'accusa di ateismo.
 

Nel "Beitrag", il libro favorevole alla rivoluzione francese (Fichte era favorevole alla ghigliottina), e del quale Fichte aveva dichiarato che gli aveva offerto l'occasione per la genesi del suo sistema (Cfr. Philonenko, "Théorie et praxis dans la philosophie morale et politique de Kant et de Fichte nel 1793", Vrin, Paris 1968, §§ 32 e 47, in "Storia della filosofia", op. cit., ibid.), sono riportati più elementi della futura "Wissenschaftslehre". In questo libro emerge innanzitutto l'idea dialettica: Fichte concepisce il movimento della storia umana come contrapposizione fra despotismo e libertà, che tende a restaurare una situazione in cui gli opposti sono conciliati nella vittoria di un'idea (Sämmtliche Werke: vol. VI, pp. 93 sgg., in Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 46). Dunque secondo Fichte nel rapporto fra due idee, una deve vincere e l'altra scomparire, ed esse non possono convivere assieme! Secondo questo modo di procedere eliocentrismo e geocentrismo si escludono a vicenda: se per esempio dovesse vincere l'idea dell'eliocentrismo, e cioè che il sole sta fermo, non dovrebbero esistere ombre, dato che le ombre dicono che il sole si muove. Ed esse sarebbero per Fichte la dimostrazione che la percezione è un inganno!

 

Archiagottlieb cosa fa? Scrive il libro "La percezione un inganno da superare"!

 

Nel "Beitrag" era sorto un problema: preoccupato dall'idea di popolo nonché dalla nozione di "volontà generale" di Rousseau (Cfr. "Théorie et praxis...", op. cit. pp.191 sgg.,), Fichte è trascinato nell'aporetica dell'intersoggettività: in che modo una coscienza può essere per un'altra? Idea della dialettica (nella lotta fra despotismo monarchico e libertà), problema dell'intersoggettività. Questo problema si ricollega altresì al disaccordo con Kant politico ed è trattato in "Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten" [Sulla missione del dotto]. La questione è comunque molto semplice: per Fichte che, a differenza di Kant, costruisce tutto sull'io, il mondo esterno è il non-io. Ammettere l'esistenza altrui equivale perciò ad ammettere l'esistenza di un mondo, quindi significa anche darsi una mossa - ecco la missione del dotto - per costruire un diritto e una morale, cosa che determina anche l'orizzonte primario della filosofia, che "deve tornare alla coscienza comune, la quale crede che esista un mondo e vuole un diritto e una morale" ("Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre". Trad. it. Prima introduzione alla dottrina della scienza", in "Rivista di Filosofia", 1946, NN. 3-4, in Philonenko, ibid. p. 47).

 

In tal modo, cioè prendendo due piccioni con una fava, a Fichte basta una sola questione per porre il problema della filosofia nella sua totalità. La missione del dotto consisterebbe dunque nell'intellettuale ed astratto darsi da fare per... la coscienza comune, la quale crede che esista un mondo e vuole un diritto e una morale. Ecco così delinearsi il modo in cui una coscienza può essere per un'altra, anche se per Fichte lui l'altra coscienza è illusione, inganno, non-io!

 

Per Rudolf Steiner l'illusione e l'impegno scientifico-spirituale sono ben diversi: "Nella scienza dello spirito ci si educa a formulare giudizi sulla base dell'esperienza, mentre la presunta esperienza degli attuali scienziati è solo un'illusione: essi parlano molto di esperienza, ma giudicano poi seguendo solo una mera intellettualità astratta" (R. Steiner, "Come si opera per la triarticolazione dell'organismo sociale", Antroposofica, Milano 1988, pp. 25-26.).

 

Ma perché abbiamo bisogno di educarci a formulare i nostri giudizi sulla base di un'esperienza che non sia mera intellettualità astratta? Perché ciò che appare, cioè il fenomeno (o l'oggetto di percezione che dir si voglia), è l'osservare nella sua felicità immediata, cioè non ancora mediata dal pensare. È la felicità dell'osservare immediato di oggetti così come si danno ai sensi e verso i quali non è ancora intervenuta l'intuizione.

 

Ecco perché Aristotele parla di felicità come di "una sorta di "teoria" (theorìa). Nella lingua greca theorìa significa appunto "visione", "contemplazione". Per Aristotele la felicità non è una contemplazione qualsiasi, ma quella che è propria della sapienza (sophìa), ossia è filosofia. La felicità è contemplazione filosofica: è la filosofia". (Emanuele Severino, "Fiera, Festa, Theorìa", cap. 1° di "Nascere. Ed altri problemi della coscienza religiosa", Milano 2005, p. 17).

 

Ed ecco perché, pur trovando strano tutto questo (Cfr. Severino, op. cit. p.17), Severino scrive altresì che "ogni theorìa è un'immagine del mondo, che per un verso vede il mondo, per altro verso lo interpreta. Come interpretazione del mondo si solleva al di sopra di esso, al di sopra cioè del dolore e dell'angoscia della vita. Anche quando l'immagine non è filosofia, la theorìa è già un sollevarsi al di sopra del dolore e dell'angoscia, un cacciarli via da sé. Per questo è felicità" (Severino, op. cit. p.18).

 

Per la gnoseologia de "La filosofia della libertà" di Steiner ciò non è affatto strano, dato che per un verso io vedo il mondo, per un altro lo interpreto. Detto con le parole di Steiner: per un verso sperimento percezioni immediate, per un altro i relativi concetto attraverso il lavoro mai esaustivo del formarmi rappresentazioni.

 

Formulare giudizi sulla base dell'esperienza e non sulla base di intellettualità astratta è dunque importante, e Goethe conferma questo giudizio quando afferma che "il fenomeno è già teoria, e questa, in quanto "implicita" nel fenomeno, esige appunto di essere "scoperta" o "esplicitata", e non - come usa fare l'"intellettualità astratta" - "inventata", "escogitata" o "congetturata"; per la scienza dello spirito, in altre parole, il fenomeno è la teoria così come si da' ai sensi, mentre la teoria è il fenomeno così come si da' al pensiero o allo spirito" (Francesco Giorgi, "Il cadavere vivente" in "La spocchia di Archiagottlieb").
 

Ebbene, dopo i secoli che ci dividono dal tempo in cui furono scritte queste osservazioni, siamo ancora fermi all'intellettualità astratta di Fichte, che è oro colato per i neogiacobini odierni.

 

Le cose dunque non solo non sono migliorate, ma sono andate peggiorando, e di molto, dato che c'è ancora chi prende le parti di Fichte: "La filosofia di Fichte non è un idealismo ontologico (quello appunto che riconduce il mondo alla coscienza) bensì un idealismo semantico, ossia una dottrina la quale rivela che un mondo, un diritto e una morale sono possibili a partire dalla coscienza, che ne fonda l'essenza" (Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 47). E in base a ciò si procede coi dogmatismi del comunismo giuridico proibizionista di Fichte, nel quale però manca sempre l'esperienza del concetto nella misura in cui egli nega realtà al mondo esterno chiamandolo non-io?

 

La grande convinzione di Fichte era che per evitare i procedimenti dogmatici, si dovesse filosofare sull'atto di filosofare (Sämmtliche Werke, vol. I, pp. 29 sgg., in Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 48) in modo da "elaborare la struttura della filosofia, facendo vedere come essa dovesse essere costituita da una logica trascendentale, ciascun momento della quale avrebbe fornito il punto di partenza di una scienza particolare" (ibid. p. 63); "la formalizzazione, l'astrazione dei contenuti della logica trascendentale avrebbero condotto alla logica formale" (ibid. pp. 66 sgg.), così che "infine sarebbe stata determinata la struttura dei principi su cui deve fondarsi ogni sapere" (Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 48).

 

Cos'altro è la formalizzazione, la logica formale del sapere fichtiano per il perfezionamento del kantismo se non "tutto l'apparato della ciarlataneria" visto in Fichte dal De Sanctis? (Francesco De Sanctis, "Schopenhauer e Leopardi", Reggio Calabria 2007).

 

Con le formulette - vedi, ad es., le aberranti determinazioni che Fichte chiama "sintesi quintuple" - la cosiddetta sintesi quintupla è il filo conduttore strutturale dell'intero suo  sragionare, che vorrebbe imitare furbescamente ma irrazionalmente (Cfr. X. Tilliette, loc. cit., p. 582) lo sviluppo triadico presente in Hegel - Fichte in fondo non ha mai chiarito a sufficienza a se stesso che cos'è una fenomenologia. Eppure anche qui, prendendo due piccioni con una fava, riesce a caratterizzare la sua furbizia come se fosse scienza, inserendosi così "nella tradizione logico-matematica di Spinoza e di Leibniz" (ibid., p. 119) pur secondo "un metodo di analisi abbastanza insolito nelle opere filosofiche" (ibid.).
 

Più si studia Fichte più è facile rilevare la sua antilogica: per questo cialtrone del pensare "la regola superiore della logica formale conduce alla fondazione universale di ogni sapere" (Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 49) in cui comunque "tutto ciò che è, è solo nella misura in cui (vedi il video "Nella misura in cui") è posto nell'io, mentre fuori dell'io non c'è nulla" ("Grundlage"), salvo poi a dimenticarsi della "conditio sine qua non" più importante: quella che riguarda la possibilità della libertà umana: la sanità della natura umana.

 

Archiagottlieb, da buon pappagallo di Fichte, predica amore e libertà affermando che "l'organismo dell'umanità non è sano per natura" in quanto se fosse sano "la libertà non avrebbe nessun compito da svolgere"! Dunque delle due l'una: o sragiona perché non si accorge che la libertà può svolgersi nella natura della creatura umana proprio perché la creazione è sana, oppure ragiona secondo avversione all'umanità, esattamente come Kant che la criticava negativamente mostrandola come un legno storto da raddrizzare, o come il massone Fichte che, con tutte le sue astrazioni, deduzioni e "conditio sine qua non", si spacciava come discepolo perfezionatore di Kant, negando la "conditio sine qua non" più importante: quella della sanità della natura umana, creata del creatore (vedi il video "Norma e logica"). La Archiagottlieb-stupidità poi si manifesta ancora di più quando presume dichiarare insana la natura della creatura in nome del creatore! 

 

Insomma, se fuori dell'io non c'è nulla, abbiamo l'aporia per la quale è impossibile rispondere alla domanda: come mai allora la dottrina della scienza di Fichte non può compiersi al suo primo capoverso?

 

Hegel darà proporzioni massicce a quest'aporia. M. Gueroult mostrerà  con Maimon che essa poggia su idealismo soggettivo in quanto "manca il mezzo per passare al non-identico" (Gueroult, op. cit., vol. I, p. 124). Tiliette afferma addirittura che il procedimento dialettico di Fiche si areni prima ancora di avviarsi: "in effetti, se l'io incondizionato è assolutamente tutto non si vede da dove possa sorgere il non-io; e se questo è attinto dall'esperienza, questa scappatoia è illegittima ovvero l'ambizione speculativa è spezzata di netto" (X. Tilliette, loc. cit., p. 602, in Philomenko, op. cit., p. 50).

 

Sulla base di questa antilogica Fichte arriva, con giochetti di parole e trasformismi, a mostrare la trasformazione della filosofia teoretica in filosofia pratica. Ciò è esposto nella terza parte della "Grundlage" in due momenti (da un lato il § 5, dall'altro i §§ 6-11): "nel § 5 l'io si comprende nella sua verità come apertura all'essere, che si accinge a superare per stabilire la sua identità con sé. L'io deve essere assoluto. E l'io assoluto è infine definito nella sua autenticità: è l'Ideale della coscienza, il Dover-essere" (Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p.52).

 

Solo Rudolf Steiner con "La filosofia della libertà" riuscirà a liberarsi del "dover-essere" kantiano.

 

Fichte invece lo perfezionò, legittimandolo fino al punto di farne una specie di principio neo-teocratico mascherato di libertà, assolutizzandolo nel proibizionismo legale a favore di questa. Sembra incredibile che un uomo possa arrivare a tanto nel giocare al trasformismo con le parole. Eppure è così! Per questo giocoliere dei concetti "l'oggetto del dovere è l'esistenza assoluta. E le coscienze, che compongono l'ordine morale del mondo, legandosi le une alle altre costituiscono la costruzione del divino" (ibid. p. 53).

 

È ovvio che questi incredibili vaneggiamenti massonici - dopo avere aderito nel 1793 Fichte alla Massoneria, iscrivendosi alla loggia di Zurigo sopra accennata, l'anno immediatamente successivo, 1794, ottiene la cattedra all'Università di Jena - e dopo i relativi continui trasformismi della sua dottrina - Fichte è costretto ben presto a difendere il suo sistema. Nel 1797, sapendo che sarebbe stato sconfessato da Kant (I. Kant, "Gesaimmelte Schriften", edizione della Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften, vol. XII, Berlin 1922, pp. 370-371) egli prosegue negli aggiustamenti dei lavori fino ad avere per esempio addirittura due "Introduzioni" alla "Dottrina della scienza", per chiarire ulteriormente i vari punti del suo sistema.

 

Non mi dilungo su questo punto, in quanto lo scopo di questi appunti è di mostrare come i contributi di questo imbroglio filosofico servano oggi agli imbroglioni e/o ai predicatori di professione, mascherati da studiosi di Rudolf Steiner, per l'annientamento e la sostituzione de "La filosofia della libertà" di Steiner con la massoneria statalista di Fichte.

 

Dopo i primi successi ottenuti con la furbizia, i lettori incominciano ad accorgersi dell'antilogica presente nell'ordito delle congetture fichtiane, dato che il sistema di Fichte mostrava l'uomo come condannato alla libertà: seguendo tale sistema bisognava prima di tutto negare la realtà del mondo, per affermare l'esistenza del mero spirito umano. All'origine di tutto, dice il massone Fichte, vi è un io umano infinito, assolutamente libero e creatore, il quale si contrappone, autolimitandosi, un non-io, la natura, creata appunto dall'io, e nella quale l'io si rispecchia. Da questo rispecchiarsi dell'io nel non-io, e cioè nella natura creata da sé, nasce l'autocoscienza. Dall'autocoscienza deriva la conoscenza. Gli io singoli, che io riconosco negli altri, dipenderebbero dal non-io e cioè dalla natura, o dal mondo il quale, rispetto ad essi, appare esterno e autonomo, ma che se partecipano dell'io assoluto, possono capire che il non-io è prodotto dall'io. Da questo vaneggiamento proviene che l'io è costretto ad affermare l'unità, l'identità fra pensiero e pensato, vale a dire fra pensiero ed essere. Le conseguenze di questa affermazione sono le più paradossali che si possano immaginare: se il mio pensiero coincide con l'oggetto pensato, è evidente che esso non può mai sbagliare, per cui l'errore del pensare non esiste, e sarebbe un errore dire che esiste l'errore. Del resto, se tutto l'universo è dio, e quindi io sono dio, come può, in dio, esservi errore? 

 

L'antilogica del codino del giacobino gabellino, assolutamente convinto della giustezza della pena di morte, è appunto qui un'aberrazione talmente inferocita contro la bontà della natura umana, che sembra estendersi nei secoli dei secoli fino al mito ed alla massoneria assoluta: accorgendosi che nell'Eden si stava meglio ma che oggi Dio è morto, il giacobino, gabellino e legalista, cosa fa? Continua a "ridiscendere" in terra appeso, romanticamente, al nulla del suo pensiero debole, cioè all'antilogica postmoderna. Le avventure del barone di Munchausen non sono forse le sempreverdi avventure del pensiero debole, destinato a rafforzarsi come antilogica? Oggi siamo addirittura arrivati all'aberrante negazione della filosofia della libertà di Steiner in nome della sua fichtiana assolutizzazione: "L'essenza dell'antroposofia è far sparire Rudolf Steiner e metterci il tuo pensiero" (cfr. P. Archiati in un convegno di sedicente scienza dello spirito, tenutosi all'università "La Sapienza" di Roma dal 3 al 5 maggio 2013). In questo esempio di spiritualismo assoluto del terzo millennio, domina appunto l'antilogica essenziale.

 

Se infatti l'essenza dell'antroposofia fosse il far sparire Rudolf Steiner per sostituirlo col proprio pensiero (Vedi il video "Antroposofia senza Steiner. Risultati"), bisognerebbe dire che chi afferma cose come questa non propone davvero un'antroposofia essenziale, dato che egli continua a nominare Steiner...

 

In ogni caso, da buon giocoliere delle parole,  Fichte si vide sempre costretto a numerosissime redazioni o feedback dei suoi "Principi fondamentali dell'intera dottrina della scienza", sempre più smascherati come ciarlatanerie da coloro che non avevano ancora perso la sindéresi in nome dell'antilogica del pensiero debole postmoderno.

 

Per esempio, per controbattere coloro che osservavano che nel suo sistema l'uomo risultava condannato alla libertà, egli scriveva che ciò non era vero nella misura in cui l'uomo poteva volere se stesso come essere libero o al contrario cogliersi come una cosa senza volizioni, non accorgendosi che in tal modo riduceva la filosofia a biografia (H. Cohen, "Kants Begründung der Ethik", p. 291), ed affermava: "Ciò che si sceglie come filosofia dipende dal tipo di individuo che si è; un sistema filosofico non è, in effetti, uno strumento morto, che si possa prendere o rifiutare ad libitum, ma è animato dallo spirito dell'uomo che lo possiede"! (Philonenko, "Storia della filosofia", op. cit., p. 54).

 

Fichte concentrò sempre più la sua attenzione sul problema del sapere assoluto, orientandosi in tal modo verso una deduzione dell'esistenza sociale come espressione primaria della ragione.

 

Deducendo a priori le "conditio sine qua non" dell'esistenza sociale dell'individuo, e in particolare del corpo umano, le cui funzioni recherebbero il segno della loro destinazione, Fichte arriva a giustificare a priori l'aria e la luce, muovendo così al riso i suoi contemporanei (ibid., p. 55). Nel corpo che egli vede come "conditio sine qua non" del diritto, egli vede anche la "conditio sine qua non" del definire l'altro come un essere a cui si può portare rispetto, pur giudicando questa condizione insufficiente senza lo Stato, concepito come un potere che imponga alle diverse volontà una costrizione che le obblighi a tenersi nei limiti loro propri.

 

Pertanto, lo Stato di Fichte è fondato sull'idea di volontà generale, da lui interpretata alla Rousseau (cfr. ibid., p. 55) ma con considerazioni moraleggianti di tipo comunista in merito alla proprietà, e conformi al giacobinismo della rivoluzione francese (ibid.). Nasce da qui lo Stato poliziesco inventato da Fichte, tanto avversato da Hegel

 

Nel "System der Sittenlehre" Fichte opera una nuova deduzione dell'io, legata direttamente all'intuizione intellettuale. Il suo fine ultimo è la realizzazione della ragione in una comunità di esseri liberi, e la sua categoria finale e decisiva dell'etica è l'idea di progresso infinito (X. Léon, op. cit., vol. I, p. 512) applicato al luterano riunirsi delle coscienze in un'unità pura ("Storia della filosofia", op. cit., p. 56).

 

Associando in tal modo la dinamica della ragione all'"Ut unum" di Lutero, e distinguendo fra doveri generali e doveri particolari sintetizza tutta la sua morale relativa al corpo nella considerazione che si deve trattare questo come uno strumento della ragione e, poiché la ragione compresa come unità delle coscienze, è Dio, come uno strumento dell'Assoluto. Da qui il famoso dogma morale di Fiche secondo il quale l'uomo deve nutrirsi solo per glorificare Dio: "Mangiate e bevete per la gloria di Dio; e se questa morale vi sembra troppo dura e troppo austera, tanto peggio per voi, non ne esiste un'altra". Se a questo vaneggiamento misticheggiante si associa l'invenzione dello Stato poliziesco di questo massone e la sua giustificazione della ghigliottina, si può immaginare l'alienazione essenziale dell'organismo sociale fichtiano in cui gli anticorpi (i poliziotti) ammazzino tutti i corpi di persone grasse o diabetiche in nome della gloria di Dio!

 

Tutto il bestialismo materialistico pratico ma sedicente spirituale che erompe dalle rappresentazioni di Fichte è presto riassunto: all'origine di tutto vi è l'io umano assoluto, cosmico ed eterno, che però è un nulla, cioè non solo non è materiale, ma non è neppure immateriale, dato che l'immateriale pensare autocosciente sorge solo quando l'io si oppone al non-io e in esso si riflette. Coi suoi giochetti antilogici ed appellandosi al un malcompreso Faust di Goethe, Fichte trasforma però questo nulla in azione, sostenendo che "Im Anfang war die Tat" (In principio era l'azione). Dunque il fondamento originario di tutto non sarebbe l'essere, ma l'attività che lo produce. Qui sorge una domanda che non ha risposta: come può esserci un'attività che non abbia essere e che quindi non è? Oppure: come può esserci qualcosa che non esiste?

 

D'altra parte però Fichte supera se stesso insistendo, come fa con molta energia nella quinta conferenza dell'opera "Die Anweisung zum seligen Leben" (Guida alla vita beata), sul fatto che ogni coscienza è collocata di fronte al "suo" dovere: "un dovere che appartiene a lei sola e che contrassegna il suo posto nella storia delle coscienze" ("Storia della filosofia", op. cit., p. 56).

 

A questo punto di esaltazione del "dover essere" di Kant risultano anche comprensibili le rappresentazioni che Fichte si fa del male essenziale, punto cardine della dottrina kantiana: "il male radicale non può essere altro che il contrario del progresso, che è la sola categoria che possa definire l'uomo nella sua totalità L'uomo non sarà perciò detto cattivo nella misura in cui è un essere sensibile bensì nella misura in cui è un essere immobile, inerte: la pigrizia, dice Fichte, è il vero male radicale, innato nell'uomo, che lo spinge nella via delle abitudini in cui s'impastoia la libertà" (ibid., Sämmtliche Werke: vol. IV, pp. 198 sg.) (Vedi il video "Archiagottlieb. La fregnaccia").

 

Cosa si può fare contro la pigrizia? Per l'ideologia fichtiana dell'attivismo esiste un'unica difesa: l'educazione. E l'idea educativa (che animava già la "deduzione della rappresentazione" nella "Grundlage" del 1794) diventa a tal punto il motore dell'intera congettura di Fiche, per cui accogliendo l'idea di filosofo intesa da Lessing come di educatore del genere umano, scriverà di se stesso e con la massima serietà nella sua prefazione alla sua teoria della scienza: "Io sono un sacerdote della verità".
 

Si comprende allora come Fichte, che è davvero un caso "umano", in senso di patologico, cioè di un uomo assolutamente convinto di vivere nel regno della "verità" come condottiero del genere umano, abbia voluto non solo condurre, ma forzare gli altri ad intenderla, intitolando un suo scritto: "Esposizione chiara, come il sole, rivolta al grande pubblico, sull'essenza propria della filosofia moderna. Un tentativo per costringere i lettori a comprendere".


"Una personalità che non crede di aver bisogno della realtà e dei suoi fatti, ma che tiene continuamente lo sguardo fisso sul mondo delle idee, tale è Fichte" (R. Steiner, "L'evoluzione della filosofia dai presocratici ai postkantiani", Ed. Bocca, Milano 1949).

 

Solipsismo trascendentale? Malattia mentale? Ai posteri la sentenza. Di fatto, i suoi studenti, per dimostrare a Fichte la realtà del mondo confutata dai suoi vaneggiamenti "scagliavano sassi contro le sue finestre gridando: "Ecco il Non-Io!" ("Storia della filosofia", op. cit., p. 57), dato che non potevano dimenticare che egli era stato un ardente difensore della ghigliottina!

 

Fichte arriva a dire che il sapere assoluto è il sapere dell'Assoluto stesso (stato di luce): "Ora, non si perviene a questo sapere assoluto se non sotto la condizione dell'essere assoluto, anche nel sapere stesso; e così sicuramente questo sapere è, in se stesso, l'essere assoluto. E così l'essere assoluto e il sapere sono riuniti, quello entra in questo e appare nella forma del sapere, rendendo questa appunto assoluta" (ibid., Sämmtliche Werke: vol. II, p. 153).

 

Con questi riaggiustamenti o feedback fichtiani il sapere non è più la conditio sine qua non dell'essere, bensì l'essere diventa ora la conditio sine qua non del sapere. Leggendo Fichte mi sembra proprio di assistere alla filosofia della settimana enigmistica! E non la considero neanche filosofia, ma balordaggini: l'essere di cui Fichte tratta nel 1801 non coincide infatti col non-io del 1794 "che continua a essere determinato dalla coscienza, come si vede nell'esposizione del 1801 la cui seconda parte cerca di far vedere come, dall'unione tra la riflessione (principio della divisibilità, del multiplo) e l'unità, derivino mediante composizione tutte le determinazioni che costituiscono il nostro mondo nel suo contenuto e nella sua forma: lo spazio, il tempo, la materia, il sentimento, la coscienza in cui si realizza il sapere, l'individualità organica, il tendere, principio del movimento, che nel suo essere-riflesso diviene principio della volontà, costituendo la vera sostanza dell'io ed esprimendo la nostra relazione all'universo" (ibid., Sämmtliche Werke: vol. II, p. 78 sg.). Ok! Ma la coscienza, le coscienze, rimangono il solo punto in cui si realizza l'Assoluto trans-soggettivo, se è vero che il sapere assoluto è il sapere dell'Assoluto stesso o lo stato di luce!

 

Ecco perché allora le congetture di Fichte si sviluppano nel senso di una filosofia dell'esperienza religiosa, in cui bisogna cogliere l'unione fra la coscienza e l'Assoluto da cui la coscienza proviene, cercando però - come un elefante che si muove a fatica fra cristalli preziosi - di sfuggire al vecchio monismo spinoziano del rinchiudere in Dio la realtà.

 

Nella "Wissenschaftslehre" del 1804 (che Fichte considera la sua opera finale) vi è il tentativo mal riuscito di conciliare il dualismo, necessario alla distinzione fra Dio e mondo, col monismo richiesto dall'intelletto assoluto. Fichte, consapevole delle difficoltà incontrate da Schelling, in una lettera a Jacobi del 31 marzo 1804 scrive: "Se Schelling cade nell'Assoluto, vi perde il relativo; se cade nella natura, allora il suo Assoluto discende propriamente al livello dei funghi che spuntano sul letame della sua immaginazione...". Fichte ritiene dunque che non si debba partire dall'Assoluto come Schelling nella filosofia dell'identità, come da un "in sé", poiché come tale esso ci è inaccessibile. Spiega allora che occorre invece prendere l'avvio dal sapere che ci è dato umanamente, operando a partire da esso un'esposizione genetica dell'Assoluto e, continuando a giocare con le parole, arriva a dire che si tratta di far vedere geneticamente l'unità dell'ideale e del reale in un Assoluto, ma che quest'Assoluto è determinato non più come "essere assoluto" bensì come "luce assoluta"!

 

Ed a questo punto sembra davvero di sentire gli mp3 di Archiagottlieb in cui è detto tutto ed il contrario di tutto! Per Gottlieb Fichte, il maestro di Archiagottlieb, l'assoluto è, sì, il Primo, la "conditio sine qua non" che precede ogni pluralità e molteplicità; ma l'Assoluto non può essere, come in Schelling, l'indifferenza di fronte alla dualità del pensiero e dell'essere, del soggetto e dell'oggetto. No! Il senso dell'Assoluto consiste nell'essere sapere, e questa "pura luce è l'unico punto centrale e l'unico principio sia dell'essere sia del concetto" (Nachgelassene Werke, herausgegeben von J. H. Fichte, A. Marcus, Bonn 1834, vol. II, p. 118). Occcorre infine far vedere come abbia luogo, per noi, il passaggio dalla forma della coscienza alla forma dell'Assoluto: "All'inconcepibile (all'Assoluto) in quanto fondato su sé solo, per poter pervenire alla luce, alla coscienza di sé, occorre la distruzione preliminare del concetto e, perché questa distruzione sia possibile, occorre che il concetto sia già stato posto... In questa distruzione del concetto alla luce della pura evidenza interiore, nella produzione dell'inconcepibilità, consiste la costruzione viva della qualità pura del sapere, della sua unità assoluta" (ibid. p. 17). Chiaro no?

 

Fichte mostra di accordare al sapere filosofico un primato sulla religione, ma il senso religioso della "Wissenschaftslehre" del 1804 è manifesto.

 

Rimane il fatto che la sua dottrina diventa pretescamente una dottrina dell'amore: "L'amore dell'Assoluto, o di Dio, è il vero elemento dello spirito razionale, nel quale solo esso trova il riposo e la felicità; ma l'espressione più pura dell'Assoluto è la scienza, e come l'Assoluto questa non può essere amata se non per se stessa" (ibid. p. 127). Così nella "Guida alla vita beata" del 1806, la filosofia fichtiana pretende accordarsi col cristianesimo.

("Storia della filosofia", op. cit., p. 60).

 

A me pare fin troppo evidente che tutti i trasformismi della cosiddetta evoluzione della filosofia di Fichte non siano altro che mera evoluzione dialettica, parole, parole, parole, pensiero dialettico...

 

Egli colloca la vera realtà nella legge che s'impone alla libertà sviluppando, nella prima forma della "Dottrina della scienza" e nel "Der geschlossene Handelsstaat" (Lo Stato economico chiuso), la cosiddetta legalità oggettiva (SW, vol. V, p. 467) che sarà poi chiamata comunismo giuridico proibizionista in quanto si prospetta con essa "un regime comunista e proibizionista" (Giorgio Del Vecchio, "Il comunismo giuridico del Fichte").

 

Nel 1793 e nel 1796 Fichte difese con grande energia gli ideali della rivoluzione francese, ghigliottina compresa. Dopo l'abdicazione della rivoluzione, si scagliò violentemente contro Napoleone (l'uomo senza nome) che aveva tradito le speranze del 1789 e che sognava una monarchia europea. Di qui le "Reden an die deutsche Nation" (Discorsi alla nazione tedesca) del 1807. Nel suo scritto "Machiavelli als Schriftsteller" [Machiavelli scrittore], Fichte definiva così il principio della sua politica interna: "Il principio della politica di Machiavelli, che è anche il nostro, come ci permettiamo di aggiungere senza vergogna, così come il principio di ogni teoria coerente dello Stato, è contenuto nel seguente testo di Machiavelli: «... a chi dispone una res publica ed ordina leggi in quella, è necessario presupporre tutti gli uomini colpevoli" (Nachgelassene Werke, op. cit., vol. III, p. 420 [Machiavelli, "Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio", I, 3, in "Il Principe e Discorsi", Feltrinelli, Milano 1960; p. 135]).

 

"Questo principio di diffidenza [il grassetto è mio - ndc] ispirava anche la politica internazionale di Fichte" ("Storia della filosofia", op. cit., p. 62) il quale precisava: "Nei rapporti con gli altri Stati non c'è né Legge, né Diritto se non il diritto del più forte; ciò giustifica l'uso di rimettere nelle mani responsabili del Principe i diritti di sovranità divina del destino del Governo mondiale elevandolo al di sopra dei precetti della morale individuale, in un ordine etico superiore il cui contenuto è compreso in queste parole: "salus et decus populi suprema lex esto" (Nachgelassene Werke, vol. III, p. 427).

 

Di fatto Fichte pronunciava nello stesso tempo l'insuccesso dell'umanesimo rivoluzionario, cioè la futura apoteosi della Germania, concepita come nazione salvatrice (!) e la carta di nascita della "Realpolitik".

 

Nonostante la storia abbia mostrato quanto queste idee fichtiane, ancora vive quando l'impero napoleonico era ormai tramontato da molto tempo, siano state potenti e micidiali, vi è ancora chi - come Archiagottlieb, le predichi come cosa buona e giusta.
 

BIBLIOGRAFIA


Sämtliche Werke, herausgegeben von J. H. Fichte, Veit, Berlin 1845.
Nachgelassene Werke, herausgegeben von J. H. Fichte, A. Marcus, Bonn 1834.
Nachgelassene Schriften, herausgegeben von H. Jacob, Berlin 1938.
Una grande edizione critica è stata intrapresa da R. Lauth e H. Jacob.
 

Traduzioni italiane:
"Dottrina della scienza", trad. di A. Tilgher, Laterza, Bari 1910; nuova ed. "Sul concetto della dottrina della scienza o della così detta filosofia. Fondamenti dell'intera dottrina della scienza", riv. e accr. a cura di F. Costa, ivi 1971
"Prima introduzione alla Dottrina della Scienza", in "Rivista di Filosofia", NN. 3-4, 1946
"Teoria della scienza 1798 «nova methodo»", trad. di A. Cantoni, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese 1959
"Il sistema della dottrina morale", trad. di R. Cantoni, Sansoni, Firenze 1937
"L'essenza del dotto e le sue manifestazioni nel campo della libertà. Lezioni tenute ad Erlangen nel semestre estivo del 1805", trad. di A. Cantoni, introd. di E. Garin, La Nuova Italia, Firenze 1949; nuova ed., ivi 1967
"Sulla Rivoluzione francese. Sulla libertà dl pensiero", a cura di V. E. Alfieri, Laterza, Bari 1966
"L'essenza del dotto", trad. di A. Cantoni, La Nuova Italia, Firenze 1935

"La missione dell'uomo", trad. di R. Cantoni, M. A. Denti, Milano 1944
"Guida alla vita beata", trad. di A. Cantoni, Principato, Milano-Messina 1950
"I discorsi alla nazione tedesca", trad. di B. Allason, UTET, Torino 1939

Alcuni studi su Fichte:
B. Bourgeois, "L'idéalisme de Fichte", PUF, Paris 1968
V. Delbos, "De Kant aur postkantiens", Montaigne, Paris 1940
J. Drechsler, "Fichtes Lehre vom Bild", Kohlhammer, Stuttgart 1955
M. Gueroult, "L'évolution et la structure de la Doctrine de la Science chez Fichte", Paris-Strasbourg 1930
- introduzioni alle traduzioni: "La destination de l'homme", Montaigne, Paris 1942, e "L'initiation a la vie bienheureuse", Montaigne, Paris 1944
G. Gurvitch, "Fichtes System der konkreten Ethik", Mohr, Tübingen 1924
D. Julia, "La question de l'homme et le fondement de la philosophie" Aubier-Montaigne, Paris 1964
R. Kroner, "Von Kant bis Hegel", vol. I, Mohr, Tübingen 1921

E. Lask, "Fichtes Idealismus und die Geschichte", in Gesammelte Schriften, vol. I, Mohr, Tübingen 1923
X. Léon, "Fichte et son temps", vol. I, vol. II, Tomi 1 e 2, Colin, Paris 1922-1927
B. Noll, "Kants und Fichtes Frage nach dem Ding", Klostermann, Frankfurt 1936
A. Philonenko, "La liberté humaine dans la philosophie de Fichte", Vrin, Paris 1966
- "Théorie et praxis dans la pensée morale et politique de Kant et Fichte en 1793", Vrin, Paris 1968
J. Vuillemin, "L'héritage kantien et la révolution copernicienne", PUF, Paris 1964
C. Luporini, "Filosofi vecchi e nuovi", Sansoni, Firenze 1947
A. Massolo, "Fichte e la filosofia", Sansoni, Firenze 1948
L. Pareyson, "Fichte", Ed. di "Filosofia", Torino 1950
R. Garaudy, "Fichte et Marx", in Annali dell'istituto G. G. Feltrinelli, VII (1964-1965), Milano 1965

Si consultino anche le "Archives de Philosophie" (numero del 1962, edito in occasione del II centenario della nascita di Fichte; numero dei 1967, Bulletin de l'idéalisme allemand, di X. Tilliette).