Giuseppe Di Saverio

La crisi dei fondamenti della MATEMATICA

 

[Nota di Nereo Villa: inserisco qui la medesima nota della pagina "Il business della relatività e le chiavi per smascherarlo" in quanto mi sembra sintetizzare, anche se molto modestamente, il contenuto essenziale del seguente scritto del matematico Giuseppe di Saverio, a cui va la mia massima stima: «Quando al finito mondo fisico-minerale delle unità di misura si applica il concetto di infinito si può sempre ricavare la misura di qualcosa e contemporaneamente leggerla come metà o doppio, triplo, ecc., all'infinito. Ciò è verificabile come segue. Si immagini una lista o tabellina di numeri: 1, 2, 3, 4, ecc., all’infinito, e un’altra di numeri pari: 2, 4, 6, 8, ecc., anch'essa crescente o decrescente all’infinito. Si può già dire che la prima e la seconda tabellina, giocando fisicamente il proprio ruolo all'infinito, hanno il medesimo quantitativo di numeri perché l’infinito è infinito per entrambe le liste. Eppure nella lista o tabella dei soli numeri pari, mancano i numeri dispari, quindi si può affermare paradossalmente che, pur avendo il medesimo quantitativo di numeri dell’altra, questa ne ha la metà! Lo stesso ragionamento si può fare non solo con le liste 1 e 2 ma con tutte le altre: 3, 6, 9, 12, ecc., 4, 8, 12, 16, ecc., 5, 10, 15, 20, ecc., e così via all’infinito. In tal modo si può dire che le varie quantità sono uguali ma diverse. Questo ragionamento, degno dei giochetti della "Settimana enigmistica", non poggia sulla realtà ma solo su astrazioni. Qui la logica astratta si scontra con la logica di realtà. Lo stesso avveniva più di due millenni e mezzo fa col ragionamento eleatico, a cui si ispirò Einstein, e secondo il quale Achille non raggiunge mai la tartaruga... In altre parole si rientra così nella (o si ritorna alla) FEDE, dato che con simili giochetti si arriva poi a CREDERE in una materia oscura o in un’energia oscura: togliendo realtà all'Etere è ovvio che poi il mondo risulti oscuro, dato che la misurazione dell'etere (creduto misurazione della luce) genererà sempre miriadi e miriadi di "nuove particelle" atomiche»]. Le evidenziazioni in grassetto-rosso nel testo di Giuseppe Di Saverio sono mie, mentre ho evidenziato in caratteri maiuscoli il suo testo in corsivo. Buona lettura.

N. Villa

Castell'Arquato, 6 Ottobre 2017

 

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Premessa

 

Questo scritto è il primo capitolo della mia tesi di laurea ("Dal paradiso di Hilbert all'inferno di Gödel", Corso di Laurea in Matematica, Università di Perugia, A.A. 2002-2003, relatore il Prof. Umberto Bartocci). Si tratta di un resoconto storico del dibattito matematico e filosofico sulle questioni fondazionali che ha coinvolto la comunità scientifica nel primo trentennio del XX secolo. È diviso in due paragrafi: "Le cause" e "La crisi". Nel primo si analizzano i più importanti risultati della matematica ottocentesca che precedettero il periodo critico. Noi li abbiamo classificati come segue: "La nascita dell'analisi moderna", "La scoperta delle geometrie non euclidee", "La nascita della logica matematica", "L'aritmetizzazione dell'analisi" e la nascita della teoria degli insiemi", "La logicizzazione dell'aritmetica" e "La formalizzazione della geometria". Nel secondo paragrafo abbiamo introdotto le problematiche legate ai paradossi (di cui diamo un elenco esaustivo) che emersero nel primi anni del secolo, per poi esporre ed analizzare le posizioni delle tre grandi scuole della filosofia matematica di quel tempo ("Il Logicismo di Russell", "L'Intuizionismo di Brouwer", "Il Formalismo di Hilbert"), anche in relazione alla dottrina classica della matematica ("Il Kantismo"). Abbiamo cercato di presentare una ricostruzione storica abbastanza oggettiva, pur non rinunciando ad un'analisi critica dei temi trattati. 

 

[Il secondo capitolo della tesi, completamente dedicato all'articolo di Kurt Gödel del 1931 "Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme I" (Proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini I), si trova in: http://www.cartesio-episteme.net/mat/disav2.doc].

 

 

Introduzione

 

Con "crisi dei fondamenti della matematica" (questa è l'espressione che utilizzano quasi tutti gli storici) si vuole indicare l'ampio dibattito che ha coinvolto l'intera comunità dei matematici, e dei filosofi, nel primo trentennio del XX secolo, incentrato sulla natura della matematica, cioè su quali siano, se ci sono, gli enti primitivi indimostrabili che costituiscono il punto di partenza di questa disciplina. In sintesi, ci si chiedeva qual è la risposta giusta alla domanda COS’È LA MATEMATICA?  Tale dibattito fu di dimensioni così vaste che portò praticamente tutti gli uomini di scienza a pronunciarsi in proposito. Da un lato, le posizioni filosofiche più innovatrici diedero vita a vere e proprie scuole matematiche, come l'Intuizionismo, il Formalismo e il Logicismo. Dall'altro vi fu una rinascita delle dottrine classiche, come il Kantismo [1]. Dalle nuove impostazioni epistemologiche derivò addirittura la nascita di nuove discipline, come la "teoria della dimostrazione" o "metamatematica", ed il consolidamento di quelle emergenti, come la logica matematica. 

 

Nonostante le questioni fondazionali abbiano monopolizzato l'interesse della comunità scientifica per diversi decenni, si deve constatare che non si è mai giunti a conclusioni soddisfacenti, cioè universalmente accettate. Almeno da una cinquantina d'anni i matematici hanno quasi del tutto rinunciato a portare avanti il dibattito, o per lo meno lo considerano di interesse esclusivamente filosofico. La matematica contemporanea è sempre più prolifica di risultati tecnici, anche grazie alla recente commistione con l'informatica e al rapidissimo sviluppo del calcolo delle probabilità e della statistica, e pare ormai allontanarsi quasi del tutto dalle investigazioni epistemologiche, così che la crisi dei fondamenti può considerarsi chiusa nella pratica. 

 

Nei prossimi paragrafi cercheremo di fare un resoconto chiaro della crisi, analizzando le possibili cause, le diverse scuole di pensiero, le opere più importanti. Tutto ciò in modo abbastanza sintetico, quindi senza alcuna pretesa di completezza.

 

 

Le cause

 

Fondamentali per capire quali sono le radici storiche della crisi sono i profondi cambiamenti che la matematica ha subito nell'arco del XIX secolo. Noi li abbiamo raggruppati, molto schematicamente, in sette "eventi" [2]: la nascita dell'analisi moderna, la scoperta delle geometrie non euclidee, la nascita della logica matematica, la nascita della teoria degli insiemi, l'aritmetizzazione dell'analisi, la logicizzazione dell'aritmetica, la formalizzazione della geometria.

 

 

La nascita dell'analisi moderna

 

Negli ultimi anni del '700 l'attenzione dei matematici era in gran parte rivolta alla sistemazione della neonata analisi che, dopo le geniali intuizioni di Newton e Leibniz (suoi fondatori), prometteva di essere una delle più fruttifere discipline, sia in campo teorico che in campo applicato, ma che, proprio per la sua "giovane età", era ancora priva di fondamenta sicure e difettava in organicità. Si imponeva cioè di dare alle definizioni di "infinitesimo", "limite", "derivata", "integrale" ecc. una veste rigorosa, così da poter costruire l'intera analisi (reale e complessa) su basi solide, e domare una volta per tutte gli sfuggevoli concetti dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo che tanto avevano tormentato l'HOMO MATHEMATICUS sin dall'inizio delle sue speculazioni.

 

Nel periodo che seguì, passato alla storia come ETÀ DEL RIGORE [3], attraverso l'operato di Lagrange, Carnot, Cauchy, Fourier, Dirichlet, Abel, Jacobi, Green, Gauss, Weierstrass ed altri, si diede vita all'analisi moderna così come oggi la studiamo.

 

 

La scoperta delle geometrie non euclidee

 

Negli "Elementi" di Euclide, che per circa due millenni è stato il testo più autorevole, la geometria è sviluppata come un sistema assiomatico non formale. Gli enti primitivi sono quelli dettati dall'intuizione dello spazio ideale: punto, retta, piano. Sono dati cinque postulati [4] di cui il quinto, noto come POSTULATO DELLE PARALLELE, recita: "se una retta, incontrandone altre due, forma gli angoli interni da una stessa parte minori di due retti, le due rette prolungate all'infinito si incontrano dalla parte in cui sono i due angoli minori di due retti".

 

Con riferimento alla figura, il quinto postulato afferma che se α + β < 180, allora le rette a e b si incontrano dalla parte di α e β.

 

Nella definizione 23 del libro 1°, Euclide definisce PARALLELE due rette che, se prolungate indefinitamente in entrambe le direzioni, non si incontrano. Si può dimostrare che il quinto postulato è equivalente alla seguente proposizione: "dati, in un piano, una retta e un punto esterno ad essa, esiste una e una sola retta, in quel piano, parallela a quella retta e passante per quel punto".

 

Per motivi non ben identificati si era sviluppato sin dall'antichità il presentimento che questo postulato fosse sovrabbondante (cioè che fosse dimostrabile a partire dagli altri quattro, perciò non necessario per la deduzione completa della geometria, dunque eliminabile [5]) o, comunque, poco evidente, nella forma in cui era stato dato da Euclide. Vi furono dunque, fin dall'antichità, vari tentativi di dimostrazione o "correzione".

 

Come dice C. B. Boyer [6] infatti, la questione del postulato delle parallele già tra i greci era diventato il "quarto famoso problema della geometria" [7], se n'erano interessati, tra gli altri, gli arabi Alhazen ed Omar Khayyam, l'italiano Girolamo Saccheri, Lambert, Legendre e Gauss.

 

Mangione e Bozzi ritengono che i tentativi di sistemazione del quinto postulato "possono sostanzialmente farsi rientrare in uno dei seguenti tre tipi, non necessariamente escludentisi fra loro: 1) assunzione di una definizione di rette parallele diversa da quella euclidea; 2) sostituzione del quinto postulato con un'altra proposizione più intuitiva, ossia la cui verità risultasse più «evidente», e quindi di più facile accettazione; 3) dimostrazione del postulato come teorema, deducendolo dai quattro postulati rimanenti" [8].

 

Indipendentemente l'uno dall'altro Nicolaj Ivanovič Lobacevskij (1793-1856) nel 1829 [9] in "O načlach geometrii" (Sui principi della geometria) e János Bólyai (1802-1860) nel 1832 [10] in "Scienza assoluta dello spazio", apparsa in appendice all'opera "Tentamen" [11] di suo padre Farkas  Bólyai (amico di Gauss), ebbero l'idea di sviluppare una nuova geometria in cui non fosse valido il quinto postulato. Essi sostituirono il quinto postulato con l'assunzione che per un punto esterno a una retta data si potessero tracciare più rette parallele ad essa.

 

Lobacevskij e Bólyai diedero vita a una geometria, oggi detta "geometria iperbolica", la quale pur andando evidentemente contro le intuizioni dello spazio ordinario (euclideo, appunto), non presenta contraddizioni logiche, a patto che non ve ne siano in quella euclidea [12]. Il fatto che possano non presentarsi contraddizioni logiche se in un sistema assiomatico (se pur originariamente non formale) ben funzionante (nella fattispecie quello euclideo) si modificano uno o più assiomi ci sembra oggi evidente, ma allora, quando non erano ancora stati studiati i sistemi assiomatici, questo poteva sembrare abbastanza sconvolgente. A riprova di ciò infatti, a quanto ci dice Boyer [13], Gauss elogiò in diverse lettere ad amici Lobacevskij (lo fece anche eleggere nel 1842 membro della Società Scientifica di Gottinga) ma non volle mai riconoscere ufficialmente il valore della sua opera [14].

 

Le geometrie non euclidee quindi non ebbero una grande risonanza fino al 1854, anno di pubblicazione di "Uber die Hypotesen welche der Geometrie zu Grunde liegen" (Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria) del più influente Georg Friedrich Bernhard Riemann (1826-1866). La geometria qui presentata era, per dirla con Boyer, "non euclidea" in un senso molto più generale delle precedenti. Si "sosteneva […] una visione globale della geometria come studio di varietà di un numero qualsiasi di dimensioni in qualsiasi genere di spazio" [15]. Anzi "secondo la concezione di Riemann la geometria non dovrebbe neppure necessariamente trattare di punti o di rette o di spazio nel senso ordinario, ma di insiemi di ennuple ordinate che vengono raggruppate secondo certe regole" [16]. Dall'opera riemaniana sorsero la geometria ellittica e quella sferica. Dicono Mangione e Bozzi: "La memoria di Riemann […] va indubbiamente considerata come un punto nodale per la ricerca matematica ­ e filosofica - sul concetto di spazio. In essa, in particolare, raggiunsero un alto grado di rigorizzazione e organicità le considerazioni di geometria differenziale iniziate qualche decennio prima da Gauss […] che impostano il problema dei fondamenti della geometria in modo nuovo, originale e profondo" [17].

 

Si fece quindi un grosso passo verso la GENERALIZZAZIONE della geometria e, conseguentemente, verso il progressivo abbandono dell'intuizione spaziale, che, come abbiamo detto, costituiva uno dei due pilastri su cui poggiava l'intero edificio della matematica.

 

La situazione è descritta perfettamente da Paolo Zellini:

 

"Il pensare che la geometria parli di oggetti le cui proprietà debbono dedursi principalmente dagli ASSIOMI (così, dopo Riemann, sentenziò Hilbert nelle sue "Grundlagen der Geometrie", 1899) offrì sicuramente un ulteriore apporto all'idea di una matematica che sceglie DA SÈ, fuori dall'imperativo di presunte ESSENZE precostituite, le basi della propria edificazione. I «punti» e le «linee» cominciano a essere non più cose chiare in sé, ma oggetti descritti da proposizioni atte a specificarne l'USO, e quindi, in buona misura, prodotti di scelte volontarie, di assiomi revocabili o di convenzioni «prestabilite». La «realtà» naturale era certamente in grado, ancora, di influire sulle scelte, ma non di condizionarle del tutto" [18].

 

La messa in discussione dell'intuizione kantiana divise i matematici in due partiti opposti che potremmo definire PARTITO CONSERVATORE e PARTITO PROGRESSISTA. I CONSERVATORI ritenevano che le geometrie non euclidee potessero essere un ottimo strumento per la matematica, ma che non intaccassero minimamente l'unicità dello spazio euclideo come intuizione pura della mente. Difendevano dunque la filosofia matematica classica. Al contrario i PROGRESSISTI accolsero la scoperta delle geometrie non euclidee come una sorta di liberazione dalle antiche concezioni dogmatiche, cioè come una sorta di "affrancamento" della matematica dalla metafisica.

 

Come testimonianza del sentimento progressista, riportiamo un piccolo brano di Herbert Meschkowsky:

 

"Per Platone le proposizioni geometriche erano visioni di una realtà metafisica; che ci fosse soltanto UNA geometria, non era per lui cosa da mettere neppure in discussione. Anche dalla concezione fondamentale di Kant si ottiene la medesima conseguenza. L'idea che una geometria "non euclidea" sia in generale pensabile, e che essa debba essere priva di contraddizioni interne insieme a quella euclidea […] significa in ogni caso una scossa alle ordinarie concezioni base sull'essenza della conoscenza matematica" [19].

 

Il merito fondamentale delle geometrie non euclidee (tralasciando le loro applicazioni fisiche), ci pare, è quello di aver evidenziato l'importanza dei sistemi assiomatici e di aver posto l'accento sulla natura ipotetico deduttiva della matematica; però ci sembra un falso storico vederle come una sorta di liberazione e paragonare la loro scoperta, e per portata e per natura, alle precedenti rivoluzioni scientifiche, come quella copernicana e quella galileiana; così pure il predominio bimillenario della fede platonica e kantiana nell'intuizione non ci pare assimilabile all'oscurantismo della Chiesa Cattolica nei secoli bui [20]. Anzi, l'aver constatato che è possibile costruire svariati sistemi assiomatici formali, che, sotto particolari interpretazioni contenutistiche, possono essere visti come assiomatizzazioni di GEOMETRIE ARTIFICIALI, a ben vedere, non ha nessun legame con il dibattito su quali siano le nostre intuizioni spaziali (e se esse esistano o meno), per cui non confuta in alcun modo la fede nella geometria classica: l'arbitrarietà di un sistema assiomatico non implica l'arbitrarietà della geometria. Ciò potrebbe erroneamente sembrare solo nel caso in cui gli INDIVIDUI dei sistemi assiomatici delle geometrie non euclidee li chiamassimo "punto", "retta", ecc…; ma è evidente che questo è solo un fatto linguistico: quella che nella geometria di Lobacevskij si chiama "retta" niente ha a che fare con quella che Euclide chiama retta, che è quella che VEDIAMO (ANSCHAUEN) (ci pare) "chiara e distinta". Se mai, le geometrie non euclidee, spalancando la porta ai fondamentali studi sull'assiomatica, possono suggerire che, oltre alle intuizioni di quantità e misura, la matematica si fonda anche sulle INTUIZIONI LOGICHE (sarebbe allora discutibile se le tre intuizioni fin qui riconosciute - quella di quantità, quella di misura e quelle logiche - sono in qualche modo interdipendenti, e se le intuizioni logiche caratterizzano la matematica, al pari di quelle spaziali e temporali). Ma pur sempre di intuizioni si tratta. Non si vede come i fondamenti, cioè il punto di partenza, della matematica possano essere qualcosa di non intuitivo. In questo caso ci schieriamo dunque dalla parte dei conservatori.

 

Come vedremo nel seguito, l'intuizione sarà presente anche nei fondamenti della teoria degli insiemi.

 

 

La nascita della logica matematica

 

La nascita della LOGICA, che potrebbe essere definita come LA SCIENZA CHE STUDIA LE FORME E LE LEGGI DEL PENSIERO, coincide con la nascita del pensiero filosofico [21]. La storia della logica si può dividere in due fasi: la logica aristotelica e la logica moderna [22]. La logica aristotelica, il cui primo teorizzatore fu appunto Aristotele, si fonda prevalentemente sul SILLOGISMO, cioè "un ragionamento consistente di tre parti, una premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione" [23], e sulla deduzione. Con LOGICA MATEMATICA o FORMALE si vuole indicare quella branca della logica moderna che rappresenta i modi del pensiero con combinazioni di stringhe di segni e, spogliate queste di ogni significato, riconduce lo studio del pensiero allo studio di tali stringhe e alle leggi che ne regolano le trasformazioni. Si usa l'aggettivo "matematica" o "formale" per distinguerla da altri tipi di logica moderna come la LOGICA FILOSOFICA o la LOGICA MODALE (tuttavia c'è chi sostiene che si possa identificare la logica moderna con quella matematica [24]).

 

La differenza fondamentale tra logica aristotelica e logica matematica (a parte l'aspetto puramente estetico: parole nella prima, segni nella seconda) è che a differenza della seconda, la prima concepisce una dimostrazione soprattutto come metodo di "persuasione". Cioè in essa si dà molto peso alla psicologia [25] che, al contrario, è totalmente assente nella logica matematica. Così si esprime Chaïm Perelman: "La verità è che per Aristotele il ragionamento è a un tempo una struttura espressa in formule determinate e un discorso interiore dell'anima.[…] La logica moderna, al contrario, dopo Frege e la sua lotta contro lo psicologismo […], ha cercato di eliminare ogni traccia di psicologia dalla logica, alla quale la nozione stessa di mente sarebbe, come dice Russell […], totalmente estranea ("irrelevant")" [26].

 

Il precursore della logica matematica fu Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) che nel 1666 espresse, nel suo primo lavoro matematico, l'idea-utopia di creare un alfabeto universale di segni tale che tutti i possibili pensieri potessero essere espressi tramite stringhe di tali segni, così che "lo stesso sillogismo avrebbe dovuto essere ridotto a una sorta di calcolo espresso in un simbolismo universale comprensibile in tutte le lingue. La verità e l'errore si sarebbero ridotti allora semplicemente a una questione di calcoli esatti o errati all'interno del sistema, e si sarebbe posto fine a tutte le controversie filosofiche" [27]. Nonostante quella di Leibniz fosse un'idea pionieristica di grande portata, essa fu accolta con scarsissimo entusiasmo dai suoi contemporanei e la logica matematica dovette rimandare la sua nascita di circa due secoli.

 

L'anno che di solito si sceglie per datare la nascita della logica matematica è il 1847, anno di pubblicazione di "The mathematical Analysis of Logic" (L'analisi matematica della logica) di Gorge Boole (1815-1864), anche se forse sarebbe più giusto scegliere l'anno 1854, in cui uscì l'"Investigation of the Laws of Tought" (Investigazione sulle leggi del pensiero) sempre di Boole.

 

In ogni caso tutti sono concordi nel considerare Boole il padre della logica moderna [28]. Dice Agazzi: "È noto che questa idea leibniziana trovò in certo senso la sua prima forma di realizzazione effettiva nell'opera di Gorge Boole, […] nella quale si forniva con una certa ricchezza di sviluppi lo strumento simbolico che avrebbe permesso l'effettiva formulazione della deduzione logica come «calcolo»" [29].

 

Le idee più innovative contenute nelle opere di Boole sono:

1) la convinzione che la logica è collegata con la matematica più che con la metafisica;

 

2) la concezione della logica come scienza che studia le "forme" dei ragionamenti più che i loro "contenuti", da cui la cosiddetta "formalizzazione della logica";

 

3) la convinzione che la vera essenza della matematica risiede nella logica che vi sta sotto, non negli oggetti classici (numeri e figure) del suo studio.

Il punto 3 è IN NUCE la prima formulazione del LOGICISMO, il cui il massimo esponente Bertrand Russell, come ci ricorda Boyer: "affermò che la più grande scoperta del XIX secolo fu quella della natura della matematica pura, aggiungendo che "la matematica pura era stata scoperta da Boole in un lavoro da lui intitolato "The Laws of Tought"" [30].

 

Più che eloquente ci pare il seguente brano di Boole, riportato da Mangione e Bozzi, tratto dalla prefazione di "The mathematical Analysis of Logic": "Nella primavera di quest'anno la mia attenzione fu attratta dalla disputa allora sorta fra Sir W. Hamilton e il professor De Morgan; e fui indotto dall'interesse che la ispirava a riesumare trame, ormai dimenticate, di indagini precedenti. Mi sembrava che, malgrado la logica possa essere riguardata con riferimento all'idea di quantità, essa fosse caratterizzata anche da un altro e più profondo sistema di relazioni. Se era legittimo riguardarla dall'ESTERNO come una scienza che attraverso la mediazione del Numero si connette con le intuizioni di spazio e tempo, era legittimo anche riguardarla dall'INTERNO come basata su fatti di ordine diverso che hanno la loro sede nella costituzione della mente" [31].

 

Immediati continuatori dell'opera di Boole sono Augustus De Morgan (1806-1871), con la sua "Formal Logic" del 1874, e Benjamin Peirce la cui opera più importante è "Linear Associative Algebra" del 1864.Celebre è la definizione che quest'ultimo diede della matematica: "la matematica è la scienza che trae conclusioni necessarie" [32].

 

Naturalmente lo sviluppo della logica formale fu, nei dettagli, un processo molto complicato che un resoconto schematico come quello che qui si sta facendo non può rendere a pieno. Ad esempio essa fu, nei primi tempi, indissolubilmente legata all'algebra astratta, e spesso è quasi impossibile scindere i progressi fatti nelle due discipline, proprio per il fatto che esse sono nate come un UNICUM e solo in seguito distinte. (Questa sorta di commistione sussiste comunque per quasi tutte le branche della matematica nel loro stadio embrionale).

 

Per cui chiudiamo qui il paragrafetto sulla nascita della logica matematica e passiamo a parlare della teoria degli insiemi e dell'aritmetizzazione dell'analisi, che, pur essendo cose distinte, sono così interdipendenti da risultare irrimediabilmente legate.

 

 

L'aritmetizzazione dell'analisi e la nascita della teoria degli insiemi

 

La matematica classica si divideva in ARITMETICA e GEOMETRIA che erano state concepite come lo studio della QUANTITÀ e lo studio della MISURA, ovvero del DISCRETO e del CONTINUO, del NUMERO e della FIGURA, del TEMPO e dello SPAZIO. Questo DUALISMO INTUITIVO era sempre esistito [33], ma le due parti che lo generano sono sempre state strettamente legate come se fossero l'una il completamento dell'altra, imperfette da sole e armoniose insieme. Per usare un'immagine letteraria, si può dire che la matematica è nata da un parto gemellare, e che i gemelli sono siamesi, con un unico cuore.

 

Naturalmente con il tempo l'aritmetica e la geometria si sono evolute e hanno cambiato aspetto. L'aritmetica con gli arabi è diventata ALGEBRA [34]; nel Rinascimento ARTE COSSICA [35]; con Viète viene PARAMETRIZZATA [36] fino a dividersi nel XIX secolo in ALGEBRA ASTRATTA (con Boole, De Morgan e Peacock) e TEORIA DEI NUMERI. La geometria fu campo di notevolissimi risultati presso i Greci (Euclide, Archimede, Apollonio), poi fu trascurata per molti secoli fino alle due grandi rivoluzioni apportate da Cartesio, con l'introduzione delle COORDINATE e dell'approccio analitico, e da Newton e Leibniz, con l'invenzione del CALCOLO INFINITESIMALE.

 

In definitiva, verso la metà del XIX secolo la matematica appariva come sempre divisa in due filoni che erano l'ALGEBRA e l'ANALISI [37], cioè lo studio delle grandezze discrete e di quelle continue.

 

La cosiddetta ARITMETIZZAZIONE DELL'ANALISI [38] altro non è che la riduzione dello studio del continuo allo studio del discreto, ovvero dell'analisi all'aritmetica, e i suoi principali artefici furono quattro matematici tedeschi: Karl Weierstrass (1835-1897), H. Edward. Heine (1821-1881), Georg Cantor (1845-1945), Julius Wilhem Richard Dedekind (1831-1916).

 

Prima di esporre brevemente un distillato delle idee fondamentali che si trovano nelle loro opere, va ricordato che altri uomini ricoprirono un ruolo di rilievo nell'aritmetizzazione (ma non c'è dubbio che quelli da noi sopra menzionati furono i più importanti). Secondo Carl Boyer essi sono: Joseph Fourier (1768-1830), Bernard Riemann (1826-1866), Charles Hermite (1822-1901), H. C. R. Méray (1835-1911), Hermann Hankel (1839-1873).

 

Lo scopo di ridurre l'analisi all'aritmetica sarebbe stato raggiunto se si fosse riusciti nell'impresa di definire i numeri reali, cioè le grandezze continue, in funzione dei numeri naturali, cioè delle quantità discrete. In pratica era necessario riuscire a definire un numero irrazionale senza ricorrere al concetto di "limite", visto che per definire quest'ultimo fino a quel momento era stata necessaria la nozione di "irrazionale".

 

Borga e Furinghetti scrivono: "Bandire il lato geometrico dall'analisi ha portato alla necessità di una definizione dell'analogo della nozione geometrica di intervallo, segmento o retta, cioè di una teoria aritmetica degli irrazionali" [39].

 

Ebbene i quattro tedeschi vi riuscirono. Vediamo in che modo.

- K. Weierstrass: Egli non pubblicò mai i propri studi ma le sue idee furono divulgate dai suoi allievi. Riportiamo il sunto che Mangione e Bozzi fanno della definizione di Weierstrass: "Questi parte dalla considerazione di insiemi infiniti {av} di razionali positivi che soddisfano la condizione che tutte le somme di un numero FINITO di loro elementi siano complessivamente limitate […]. A ognuno di tali insiemi viene «associato» un numero b e si dimostra quindi che per tali numeri possono definirsi le usuali relazioni di «uguaglianza», «maggiore» e «minore», in termini di proprietà degli insiemi cui essi sono associati. Va esplicitamente osservato […] che il numero b associato all'insieme {av} […] NON viene definito ponendolo uguale alla sommatoria dell'insieme stesso (∑v av), e ciò proprio per evitare […] di definire un numero tramite se stesso" [40].

 

- J. W. R. Dedekind: Nel suo famoso trattato "Stetigkeit und Irrationale Zahlen" (La continuità e i numeri irrazionali) (1874)formulò la teoria dei numeri irrazionali, considerati come particolari SEZIONI del campo dei razionali, cioè in particolare come quelle sezioni che risultano prive di un ELEMENTO DI SEPARAZIONE. Ad esempio, se A={razionali negativi e razionali positivi con quadrato minore di 2} e B={razionali positivi con quadrato maggiore di 2}, allora la coppia (A,B) è il numero irrazionale √2.

 

- Cantor e Heine: nel 1872 Cantor diede una definizione degli irrazionali simile ad un'altra formulata precedentemente da Méray. Heine vi apportò delle modifiche così che essa portò il nome di Heine-Cantor. Gli irrazionali erano definiti pressappoco come successioni convergenti di razionali che non convergono ad alcun numero razionale.

Cartesio aveva dato inizio alla trasformazione della geometria da scienza sintetica in analitica; Newton e Leibniz con l'introduzione degli infinitesimi l'avevano completamente ricondotta all'analisi [41]; con l'aritmetizzazione l'analisi si riduceva allo studio dei numeri razionali, i quali a loro volta non sono altro che classi di equivalenza di coppie ordinate di naturali. Tutta la matematica classica, in circa due secoli (ma se si escludono Cartesio, Newton e Leibniz, possiamo dire in dieci anni), era stata ridotta ai numeri naturali. Ma cosa si sapeva allora dei numeri naturali? E dei razionali? Sono più i razionali o i naturali? E gli irrazionali? Che cos'è una quantità infinita?

 

Ad alcune di queste domande aveva dato delle risposte Dedekind nel 1874 in "Stetigkeit und Irrationale Zahlen" e poi nel 1888 in "Was sind und was sollen die Zahlen" (Cosa sono e cosa dovrebbero essere i numeri), ma le grandi idee furono, in questo caso, di Cantor.

 

Elenchiamo qui di seguito alcuni dei risultati che egli raggiunse:

1) Definì la CARDINALITÀ insieme finito nel seguente modo:

 

- due insiemi hanno uguale cardinalità se gli elementi dell'uno possono essere messi in corrispondenza biunivoca con quelli dell'altro;

 

- il primo ha cardinalità maggiore del secondo se può essere messo in corrispondenza biunivoca con un sottoinsieme proprio del secondo;

 

2) definì la POTENZA di un insieme infinito come segue:

 

- due insiemi infiniti sono equipotenti se i loro elementi possono essere messi in corrispondenza biunivoca;

 

- il primo ha una potenza maggiore del secondo se esiste un sottoinsieme proprio del primo che è equipotente al secondo, ma non esiste nessuna corrispondenza biunivoca tra gli elementi del primo e quelli del secondo;

 

3) dimostrò che contiene sottoinsiemi propri che hanno la sua stessa potenza. Per esempio e l'insieme dei quadrati perfetti sono equipotenti grazie alla corrispondenza biunivoca n n2;

 

4) dimostrò, tramite il celeberrimo PROCESSO DIAGONALE, che e sono equipotenti;

 

5) dimostrò che e l'insieme dei numeri algebrici sono equipotenti;

 

6) dimostrò che R ha una potenza maggiore di . Chiamò NUMERABILE ogni insieme equipotente a , e CONTINUO ogni insieme equipotente a ;

 

7) dimostrò che un qualsiasi segmento e una qualsiasi superficie sono insiemi continui, cioè che un segmento, una superficie ed contengono lo stesso "numero" di punti. Più in generale dimostrò che ed sono equipotenti (per qualsiasi n > 1);

 

8) dimostrò che l'insieme delle parti P(A) di un insieme A (cioè l'insieme di tutti i sottoinsiemi di A) ha una potenza di 1 maggiore di quella di A. Così, ad esempio, P() è un insieme continuo.

Cantor rimase così impressionato dai suoi risultati sugli insiemi infiniti che, si dice, nel 1877 riferendosi ad essi scrisse al suo amico Dedekind: "lo vedo ma non ci credo".

 

A partire dal 1874 (anno in cui apparvero i suoi articoli più innovativi) Cantor formulò la "Mengenlehre" (Teoria degli insiemi) come disciplina matematica a sé. In essa si sviluppava la cosiddetta ARITMETICA TRANSFINITA che rivoluzionava letteralmente la nozione matematica di infinito, e che sarebbe stata destinata a cambiare la storia della matematica, nel bene e nel male.

Egli assegnò ad ogni insieme infinito un CARDINALE, partendo da 1 per e assegnando via via numeri maggiori ad insiemi con una potenza maggiore. Dimostrò che esistono infiniti numeri transfiniti [42], ma è ancora aperta la questione se ve ne sia qualcuno maggiore di quello di e minore di quello di .

 

La teoria degli insiemi di Cantor è un indubbio capolavoro e stupisce per la chiarezza con cui tratta quell'ORRIBILE INFINITO che aveva offuscato le migliori menti [43], per imbrigliarlo in secche ed eleganti definizioni [44]. Essa "difettava" però proprio nella definizione di partenza, cioè nella definizione di INSIEME, che era: PER INSIEME SI INTENDE UN RAGGRUPPAMENTO IN UN TUTTO DI OGGETTI BEN DISTINTI DELLA NOSTRA INTUIZIONE O DEL NOSTRO PENSIERO.

 

Ma cos'è un RAGGRUPPAMENTO? E un TUTTO? Un OGGETTO? Ebbene Cantor non ci dice niente di preciso sui primi due ma dice chiaramente che OGGETTO è una nozione intuitiva dell'uomo. Dunque la matematica, anche per Georg Cantor, nasce dall'intuizione [45].

 

È strano che proprio la teoria degli insiemi, che sarà una delle principali armi scagliate contro l'intuizione, era stata costruita dal suo fondatore intorno a una definizione che ricorreva all'intuizione esplicitamente (la nominava addirittura), riconoscendole quindi una esistenza fuori discussione.

 

Vedremo nel seguito che sarà proprio la natura intuitiva del concetto di INSIEME a cozzare, a causa dei PARADOSSI che emergeranno, con le pretese di una matematica antiintuitiva, e a far fallire il programma formalista e in parte anche quello logicista di rifondazione della matematica.

 

L'accoglienza riservata alle idee di Cantor non fu all'inizio delle migliori: dei tedeschi solo Weierstrass lo seguì; le più forti critiche giunsero da Leopold Kronecker (1823-1891), il quale, ci dice Meschkowski, "riteneva non ammissibile assumere l'"infinito" come dato IN ACTU. Per lui esisteva soltanto l'"infinito potenziale", qualcosa come la possibilità di continuare a contare illimitatamente" [46]. Celebre è la sua affermazione: "Dio ha creato i numeri interi; tutto il resto è opera dell'uomo" [47]. Non si può non ricordare però, a riprova dell'importanza che l'opera di Cantor ha avuto nella storia, la notissima affermazione che David Hilbert fece nel 1925 (come dice Boyer, "di fronte all'esitazione di anime timide" [48]): "nessuno potrà scacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi" [49].

 

 

La logicizzazione dell'aritmetica

 

Quella che abbiamo chiamato LOGICIZZAZIONE DELL'ARITMETICA è la riformulazione di tutta l'aritmetica classica, cioè la teoria dei numeri interi, in modo assiomatico formale [50]. Il che è una novità assoluta. Infatti, mentre la geometria era sempre stata concepita come un sistema assiomatico, anche se non formale (per essere precisi dovremmo dire da Euclide in poi), l'aritmetica era rimasta intuitiva e non formale, senza nessuna definizione per il concetto di NUMERO e soprattutto senza che nessuna delle proprietà riconosciute ai numeri venisse scelta come punto di partenza, cioè come ASSIOMA, da cui dedurre le altre [51].    

 

I matematici che realizzarono la LOGICIZZAZIONE sono Friedrich Ludwig Gottlab Frege (1848-1925), Giuseppe Peano (1858-1932) e Julius Wilhem Richard Dedekind (1831-1916).

 

Vediamo quali furono le loro idee.

 

F. L. G. Frege: nelle sue opere più importanti "Die Grundlagen der Arithmetik" (I fondamenti dell'aritmetica) (1884) e "Grudgesetze der Arithmetik" (Leggi fondamentali dell'aritmetica) (I volume 1893, II volume 1903) egli, come dice Boyer, "affrontò l'impresa di derivare i concetti dell'aritmetica da quelli della logica formale" [52]. Bourbaki dice: "il proposito di Frege era di fondare l'aritmetica su una logica formalizzata in una “scrittura di concetti” (Begriffschrift). […] Le sue opere sono caratterizzate dall'esame preciso e minuzioso nell'analisi dei concetti." [53].

Frege definisce un NUMERO CARDINALE di una classe, finita o infinita che sia, come LA CLASSE DI TUTTE LE CLASSI I CUI ELEMENTI POSSONO ESSERE MESSI IN CORRISPONDENZA BIUNIVOCA CON QUELLI DELLA CLASSE DATA. Da questa definizione egli deriva poi tutte le proprietà dei numeri interi.

 

Si noti che, in base a tale definizione, i normali numeri interi positivi, che nessuno mai aveva immaginato di dover DEFINIRE, tanto atavica (quasi congenita) sembrava la loro nozione, per Frege sono CLASSI DI CLASSI [54]. Il salto nell'astrazione è notevole.

 

L'aspetto storicamente più importante dell'opera di Frege è che nella sua sistemazione dell'aritmetica riesce a fondere logica matematica e teoria degli insiemi. Questa "fusione" costituisce una sintesi emblematica della tendenza della matematica di fine '800.

 

Le innovazioni fregeane nel campo dell'aritmetica si inseriscono a pieno titolo in quel processo di DEKANTIZZAZIONE-FORMALIZZAZIONE della matematica che era iniziato con le geometrie non euclidee e che di lì a poco avrebbe condotto alla crisi dei fondamenti. Bottazzini dice: "Richiamandosi a lontane suggestioni leibziane, Frege vedeva nella costruzione di una «lingua per concetti», un «linguaggio in formule del pensiero puro» come ebbe a definirla, la condizione indispensabile e preliminare alla soluzione del problema dei fondamenti dell'aritmetica che fosse rigorosa e «definitiva»" [55], e poi ancora: "I «canoni» ai quali secondo Frege bisognava attenersi per andare oltre «la pura parvenza» del rigore e individuare le «basi logiche» profonde dell'aritmetica erano le seguenti:

«a) separare lo psicologico dal logico, il soggettivo dall'oggettivo;

 

b) cercare i significati delle parole, considerandole non isolatamente ma nei loro nessi reciproci;

 

c) tenere presente in ogni caso la differenza fra oggetto e concetto»" [56].

L'accoglienza delle idee di Frege non fu subito delle migliori. Secondo Bourbaki "Sfortunatamente i simboli da lui adottati sono poco suggestivi, di una estrema complessità tipografica e ben lontani dalla consuetudine dei matematici: difetti che allontanarono questi ultimi e ridussero notevolmente l'influsso di Frege sui suoi contemporanei" [57]. I suoi lavori furono riscoperti e rivalutati solo agli inizi del '900 quando li riprese Bertrand Russell, e da lì in poi hanno cominciato a riscuotere un grande successo: pare che Zermelo abbia affermato che i "Grundlagen" di Frege costituiscono "quanto di più bello e di più chiaro sia stato finora pubblicato sul concetto di numero".

 

G. Peano: il suo intento era quello di sviluppare un sistema logico formale che fosse in grado di esprimere tutta la matematica, per cui egli può essere considerato un logicista puro. Egli fu il primo a dare una veste assiomatica formale abbastanza rigorosa all'aritmetica [58].

 

In "Arithmetices principia nova metodo exposita" (1889) e nella sua opera più importante, il "Formulario di matematica" (1894-1908, con la collaborazione di allievi), si trova presentato il sistema formale [59] costituito dai famosi "assiomi di Peano-Dedekind" [60]. Essi sono:

1) 0 è un numero naturale;

 

2) se x è un numero naturale, esiste un altro numero naturale denotato da x' (chiamato SUCCESSIVO di x);

 

3) 0≠x' per ogni numero naturale x;

 

4) se x'=y' allora x=y;

 

5) se Q è una proprietà che può oppure può non valere per tutti i numeri naturali, e se a) 0 ha la proprietà Q; e b) se un qualsiasi numero naturale x ha la proprietà Q, allora ce l'ha anche il successivo x'; allora tutti i numeri naturali hanno la proprietà Q (PRINCIPIO DI INDUZIONE).

Al contrario di quella di Frege, l'opera di Peano raccolse un buon successo fin da subito, e ciò è in parte dovuto, secondo Boyer, "al suo rifiuto di usare qualsiasi linguaggio metafisico e alla sua scelta felice di un simbolismo che è in gran parte usato ancora oggi: per esempio (appartiene alla classe di), ∪(somma logica o unione), ∩ (prodotto logico o intersezione), e  (contiene)" [61].

 

J. W. R. Dedekind: nel già citato "Was sind und was sollen die Zahlen?" (Cosa sono e cosa dovrebbero essere i numeri?) (1888) Dedekind, riconduce l'aritmetica alla logica e completa il suo cammino di RIDUZIONE intrapreso nel 1874 con l'aritmetizzazione dell'analisi realizzata in "Stetigkeit und Irrationale Zahlen", guadagnandosi così un posto d'onore anche per la logicizzazione dell'aritmetica.

 

Egli dapprincipio definisce una COSA come un qualsiasi oggetto del pensiero, e dice che ogni COSA è completamente determinata da tutto ciò che può essere pensato o affermato riguardo ad essa. Se più COSE possono essere pensate in un unico pensiero esse costituiscono un SISTEMA. Una APPLICAZIONE f di un sistema S in un sistema S' è una legge che a ogni cosa s di S associa una ben determinata cosa f(s) di S'. Un sistema KS è una CATENA relativamente ad una applicazione f se f(K)K. Dato un sistema AS, la CATENA DEL SISTEMA A è l'intersezione di tutte le catene contenenti A. Da questa definizione Dedekind riusciva a dimostrare il principio di induzione completa e a costruire i numeri naturali per i quali dava gli assiomi che fondamentalmente sono gli stessi che darà Peano nel '94 (si veda la nota 60).

 

Dedekind va segnalato, oltre che per i notevoli risultati tecnici, come uno degli uomini che più rappresentano quello strappo ideologico, generatosi nel giro di un trentennio, che divide nettamente la scienza VECCHIA dalla NUOVA, quella propulsione motoristica verso il futuro, quella consapevolezza di potenza e volontà, quel "virilismo" del pensiero, quel dissacrare i padri, quel salto nel novecentismo che abbatté la statua di Kant per erigere quella di Einstein. Nella prefazione a "Was sind und was sollen die Zahlen?" egli dice di considerare i numeri "del tutto indipendenti dalle nozioni o dalle intuizioni dello spazio e del tempo" anzi essi sarebbero "libere creazioni della mente umana". Egli incarna a pieno quel POTERE DI CREARE, evidenziato da Zellini, che caratterizzò quello scorcio di secolo. Zellini dice: "Molti erano i sintomi dell'avvento di una specie di «libertà», di un modo di ragionare affrancato dai vincoli imposti dall'osservazione della natura e dei fenomeni ESTERNI. Il matematico cominciava a essere solo con il suo «pensiero puro», a pensare di poter fabbricare astrazioni senza doversi sottomettere all'intuizione dello spazio e del tempo, senza dover ubbidire ai tradizionali A PRIORI DELLA CONOSCENZA" [62]; e poi ancora: "L'universo aritmetico di Dedekind aspira a non lasciar nulla fuori di sé, e sposta nel contempo l'ATTUALITÀ dal numero al sistema, dal singolo al tutto. L'infinito attuale può introdursi nella matematica non tanto perché ci sono «numeri infiniti», quanto piuttosto per il fatto che i numeri sono parti di «qualcosa di infinito» che racchiude virtualmente tutto quello che con i numeri può essere fatto o inventato" [63].

 

 

La formalizzazione della geometria [64]

 

La formalizzazione della geometria è, almeno nella sua fase compiuta, opera di David Hilbert (1862-1943), anch'egli, come Frege, Cantor, Weierstrass, Dedekind e Heine, tedesco.

 

Nel 1899 con la sua opera più famosa "Grundlagen der Geometrie" (Fondamenti della geometria) egli ricostruiva interamente la geometria euclidea conferendole un assetto assiomatico puramente formale, che come si è già detto mancava in Euclide.

 

Dice Boyer: "[…] all'inizio della sua trattazione della geometria assunse tre oggetti indefiniti: punto, linea e piano; e sei relazioni indefinite: essere su, essere in, trovarsi tra, essere congruente con, essere parallelo a, ed essere continuo. In luogo dei cinque assiomi (o nozioni comuni) e dei cinque postulati di Euclide, Hilbert formulò per la sua geometria un insieme di ventuno assunzioni, note come assiomi di Hilbert. Di questi, otto riguardano la relazione di incidenza, e comprendono il primo postulato di Euclide; quattro concernono proprietà di ordinamento; cinque vertono sulla congruenza; tre riguardano la relazione di continuità (assunzioni tacitamente presenti in Euclide, ma non esplicitamente dichiarate), e infine un assioma è un postulato delle parallele essenzialmente equivalente al quinto postulato di Euclide" [65].

 

Naturalmente l'intenzione di Hilbert era quella di dare una presentazione della geometria euclidea in cui non comparissero nel modo più assoluto riferimenti all'intuizione (tanto meno, si capisce, all'esperienza sensibile), e tale che le proprietà degli enti indefiniti, che si CHIAMANO "punto", "linea", "piano", (ma in realtà non corrispondono a niente in senso ontologico) apparissero vere solo perché dedotte meccanicamente dagli assiomi. In tal modo, il fatto che la geometria dei Grundlagen era euclidea appariva come una SCELTA (derivante dalla scelta degli assiomi) del matematico che crea, e non come una CONSTATAZIONE di qualcosa creato da altri o esistente di per sé. Insomma, Hilbert fece alla geometria quello che Frege, Peano e Dedekind avevano fatto all'aritmetica. Boyer ci ricorda che "I Grundlagen si aprivano con una frase emblematica di Kant: "ogni conoscenza umana parte da intuizioni, procede attraverso concetti, e culmina in idee"" [66], ma subito dopo ci avverte che: "L'assetto della geometria elaborato da Hilbert consolidò però una concezione decisamente anti-kantiana di questa disciplina" [67]. Infatti, nonostante citasse Kant, Hilbert non partiva da INTUIZIONI ma da SCELTE ARBITRARIE e la sua geometria non parlava di oggetti CHIARAMENTE INTUITI, ma di QUALSIASI COSA SODDISFACESSE GLI ASSIOMI SCELTI.

 

Famosa è la sua affermazione: "si deve sempre poter dire al posto di "punti, rette, piani", "tavoli, sedie, boccali di birra"".

 

Tuttavia nel sistema assiomatico hilbertiano, pur essendo di gran lunga più rigoroso e formalizzato dei precedenti, "nonostante le apparenze […] erano ancora parecchie le cose sottintese, e in particolare era sottinteso in blocco tutto il complesso delle regole della logica in base alle quali si conducevano le deduzioni. […] a ben guardare non si è fatto altro che prendere tal quale il metodo assiomatico assumendolo come una matrice metodologica già nota e pacifica, e lo si è applicato alla geometria, senza una preventiva analisi critica del metodo stesso, e in particolare delle sue condizioni di applicazione e dei procedimenti deduttivi in esso codificati" [68]. Come abbiamo detto nel paragrafo sulle geometrie non euclidee, è ovvio che l'arbitrarietà della scelta degli assiomi è una caratteristica dei sistemi assiomatici, non della geometria. A maggior ragione, propria dei sistemi assiomatici è la scelta dei termini primitivi [69].

 

Agazzi mette in evidenza proprio questo quando scrive: "In fondo il meccanismo stesso del gioco ipotetico-deduttivo, che si è visto funzionare per gli assiomi geometrici, ci ha per altro verso mostrato che l'ultima cosa a interessare è proprio il carattere geometrico degli assiomi […] dal momento che non ci si è mai occupati del senso di ciò che gli assiomi dicevano, ma semplicemente dei loro legami formali" [70].

 

Anche Hilbert era consapevole di ciò, ed infatti in seguito, anche per motivi che vedremo nel prossimo paragrafo, si occupò dei sistemi assiomatici. 

 

 

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Prima di concludere questo paragrafo ed analizzare la vera e propria crisi dei fondamenti, facciamo il punto di quanto abbiamo fin qui detto.

 

Il XIX è stato per la matematica (ma potremmo dire più in generale per la scienza) un secolo di grandi cambiamenti. Per andare all'estrema sintesi si può affermare, crediamo, che le cause scatenanti di tali rivoluzioni siano state la contaminazione della matematica con la logica, ed il gusto per l'ESSENZIALITÀ. Spieghiamoci meglio. Dall'antichità fino al XVIII secolo la matematica e la logica erano sempre state due cose distinte: la prima era stata concepita come scienza che studia i numeri e le figure, intesi questi come entità intuitive; la seconda era invece l'arte di trarre conclusioni vere da premesse vere. Verso la metà dell'800, con l'operato di Boole, la logica fu MATEMATIZZATA (cioè furono espresse le leggi logiche, fino a quel momento date in modo discorsivo, in forma di calcolo) e nacque la logica matematica.

 

Nel frattempo c'era stata la scoperta delle geometrie non euclidee che ebbe due conseguenze: da un lato si sviluppò un grande interesse per i sistemi assiomatici, quindi in definitiva per la logica; dall'altro si generò, a torto o a ragione, una sorta di impulso irrefrenabile alla libertà creativa e alla non accettazione dei vecchi modelli, che causò la messa in discussione di tutta la matematica classica.

 

La matematica classica, abbiamo detto, poggiava su due pilastri: l'aritmetica e la geometria. Quello che abbiamo chiamato gusto per l'essenzialità e la voglia di rinnovamento spinsero a RIDURRE i fondamenti della matematica da due a uno: tra l'aritmetica e la geometria si scelse di salvare l'aritmetica e si ebbe l'aritmetizzazione dell'analisi (e la nascita della correlata teoria degli insiemi). Quella voglia di ridurre, unita all'innamoramento per la logica, portarono poi alla logicizzazione dell'aritmetica, e più tardi della geometria.

 

La tendenza ottocentesca alla minimizzazione delle basi su cui poggia la matematica è stata in seguito chiamata RIDUZIONISMO.

 

Ma da dove nascevano quelle che noi abbiamo chiamato CAUSE SCATENANTI?

 

L'interesse per la logica, l'abbiamo già detto, nacque dall'importanza dei sistemi assiomatici messa in luce dalle geometrie non euclidee. A noi pare un'ipotesi sensata supporre che il gusto per l'essenzialità sia stata una conseguenza dei mutamenti dei canoni estetici che l'età del rigore ha apportato nella matematica. Rigore vuol dire precisione, chiarezza, non ambiguità, ma anche non sovrabbondanza, minimizzazione delle ipotesi e massimizzazione delle tesi; insomma crediamo voglia dire anche ESSENZIALITÀ. Con ciò naturalmente non si vuol dire che il rigore è l'inizio del riduzionismo, ma solo che il riduzionismo può essere un'esasperazione-distorsione del rigore. È per questo che abbiamo incluso l'età del rigore tra gli antefatti della crisi

 

In definitiva negli ultimi anni del XIX secolo le sorti dell'intera matematica erano ridotte alle sorti dei sistemi assiomatici formali.

 

E se questi ultimi si fossero rivelati contraddittori?

 

 

La crisi

 

Al secondo Congresso Internazionale dei Matematici tenutosi a Parigi nel 1900 [71] David Hilbert presentò una lista di ventitré problemi irrisolti [72] che secondo lui sarebbero stati, o avrebbero dovuto essere, al centro delle ricerche matematiche del XX secolo. Tra questi i primi due erano particolarmente legati alla questione dei fondamenti.

 

In H1 si chiedeva:

1) se esiste un numero transfinito maggiore di quello di e minore di quello di ;

2) se è un insieme ben ordinato.

In H2 si chiedeva una dimostrazione della NON CONTRADDITTORIETÀ [73] degli assiomi dell'aritmetica, cioè del fatto che partendo da quegli assiomi non fosse possibile dedurre due proposizioni che fossero l'una la negazione logica dell'altra.

 

Come abbiamo già detto, la matematica nell'ultimo trentennio dell''800 aveva subito trasformazioni radicali da un punto di vista non solo tecnico, ma anche, e soprattutto, epistemologico. Lo spostamento dei fondamenti della matematica dall'intuizione alla logica, avvenuto negli ultimi decenni del XIX secolo, era una rivoluzione filosofica mirata a spazzare via il Kantismo dalla scienza. Il matematico tedesco, concittadino di Kant [74], si rendeva perfettamente conto che, per evitare ogni tipo di critica, i matematici avrebbero dovuto rendere inattaccabili le loro CREAZIONI con un rigore dimostrativo assoluto. Il fatto che Hilbert aprisse la sua lista con due problemi così mirati alla sistemazione delle più moderne discipline era un segnale del terremoto che di lì a poco avrebbe scosso la matematica dalle fondamenta. Il tedesco si rendeva conto che le meraviglie create da Lobačewskij, Bolyai, Riemann, Weierstass, Cantor, Dedekind, Heine, Frege, Peano e da lui stesso, proprio perché rifiutavano l'intuizione come fonte di verità, avevano bisogno di essere legittimate da un rigore che ancora mancava. Scrive Casari: "Il pericolo che l'intera costruzione teorica potesse dissolversi nell'inesattezza era […] bene o male scongiurato nella concezione classica dall'evidenza intuitiva degli elementi primitivi. Venuta a mancare questa, o almeno la fiducia in essa, ecco che quel pericolo si affacciava con tutta la sua forza" [75]. La matematica classica aveva concepito i propri principi come delle VERITÀ RIVELATE che, in quanto tali, non necessitavano di nessuna giustificazione. Una RIVELAZIONE non si dimostra, si vede e basta. Anzi, essa è un mezzo per accettare o confutare altre tesi. Come gli scolastici adoperavano la bontà di Dio per dimostrare altre cose, così i matematici classici avevano usato il postulato delle parallele per dimostrare le proprietà delle figure.

 

Hilbert intuiva che quella libertà di creare, che trasformava gli uomini in dei (e liberavano l'uomo da Dio), i matematici dovevano guadagnarsela con delle prove inconfutabili. Per l'affrancamento dell'uomo dalle "catene" dell'intuizione era necessario compiere un ultimo sforzo, il più difficile: dimostrare che le creazioni umane sono armoniose e perfette tanto quanto quelle della Natura.

L'episodio che aprì ufficialmente la crisi dei fondamenti fu una lettera che il giovane Bertrand Russell [76] spedì a Frege il 16 giugno 1902, proprio mentre si stava ultimando la stampa del II volume dei "Grudgesetze der Arithmetik". Russell lo informava di un'antinomia [77] derivabile dal sistema logico della sua opera. L'antinomia individuata da Russell, che tra poco enunceremo, non era dovuta a una svista di Frege ma era radicata nei fondamenti della teoria degli insiemi. Come dicono Mangione e Bozzi "Frege fu comprensibilmente annichilito da questa comunicazione, ma non solamente su un piano «personale»" [78].

 

Per dare un'idea dello stato d'animo di Frege, trascriviamo un brano tratto dall'appendice al II volume dei "Grudgesetze", riportato da Boyer:

 

"Nulla di più indesiderabile può capitare a uno scienziato del fatto che una delle fondamenta del suo edificio si incrini dopo che l'opera è finita. È questa la situazione in cui mi trovo in seguito ad una lettera (contenente il paradosso) inviatami dal sig. Bertrand Russell proprio mentre si stava ultimando la stampa di questo (secondo) volume […] "Solatium miseris, socios habuisse malorum". Anch'io ho questo sollievo, se sollievo lo possiamo chiamare: infatti chiunque nelle sue dimostrazioni abbia fatto uso di estensioni di concetti, di classi, di insiemi (compresi i sistemi di Dedekind) si trova nella mia stessa posizione. Non è soltanto questione del mio particolare modo di gettare le fondamenta, ma è in questione la possibilità o meno di dare all'aritmetica un qualsiasi fondamento logico" [79].

 

L'antinomia di Russell ebbe una risonanza devastante, ma non fu la prima ad essere individuata, e non fu l'ultima.

 

Diamo di seguito un elenco dei più importanti paradossi emersi nella storia della matematica e della logica, distinguendo tra paradossi logici e paradossi semantici [80].

 

 

Paradossi logici

1) (Russell 1902) Diciamo un insieme NORMALE se esso non è un elemento di se stesso. Altrimenti lo diremo NON NORMALE. Ad esempio l'insieme di tutte le penne è normale, in quanto non è una penna; l'insieme di tutti gli insiemi è non normale, poiché è evidentemente un insieme. Sia A l'insieme di tutti gli insiemi normali. Se A fosse normale allora A non apparterrebbe a se stesso, cioè non sarebbe nell'insieme di tutti gli insiemi normali, quindi sarebbe non normale. Se A fosse non normale apparterrebbe a se stesso, cioè sarebbe nell'insieme di tutti gli insiemi normali, quindi sarebbe normale [81].

 

2) (Cantor 1899) "[…] Si definisce il numero cardinale │Y│ di un insieme Y come l'insieme di tutti gli insiemi X che sono equipotenti con Y […]. Per definizione con │Y│≤│Z│ intendiamo che Y è equipotente con un sottoinsieme di Z; con │Y│<│Z│ intendiamo che │Y│≤│Z│ e │Y│≠│Z│. Cantor ha dimostrato che se P(Y) è l'insieme di tutti i sottoinsiemi di Y, allora │Y│<│P(Y) │[…]. Sia C l'insieme totale, cioè l'insieme di tutti gli insiemi. Ora P(C) è un sottoinsieme di C e ne deriva che │P(C)││C│. D'altra parte per il teorema di Cantor │C│<│P(C)│. Il teorema di Schröder-Berstein […] afferma che se │Y││Z│ e │Z││Y│ allora │Y│=│Z│. Ne risulta che │C│=│P(C)│, in contraddizione con │C│<│P(C)│".

 

3) (Burali-Forti 1897) "[…] Dato un ordinale qualsiasi esiste sempre un ordinale maggiore; ma il numero ordinale determinato dall'insieme di tutti i numeri ordinali è il massimo numero ordinale".

 

Paradossi semantici

4) (Paradosso del mentitore) [82] "Un uomo dice “Io sto mentendo”. Se egli sta mentendo, allora ciò che dice è falso; e perciò egli non sta mentendo. Se egli non sta mentendo, allora ciò che dice è vero e perciò egli sta mentendo. In ogni caso egli sta contemporaneamente mentendo e non mentendo".

 

5) (Richard 1905) In una lingua ci sono frasi che denotano numeri reali. Ad esempio in italiano le frasi "il doppio di due" e "quel numero positivo che elevato al quadrato dà due" indicano rispettivamente 4 e √2. Chiamiamo "numero di Richard" un qualsiasi numero reale individuabile da una frase della lingua italiana. Ordiniamo tutte le frasi della lingua italiana che indicano numeri reali secondo i due criteri che seguono: a) se una frase A è formata da un numero minore di lettere di una frase B, allora A precede B; b) se due o più frasi sono formate da un numero uguale di lettere, esse sono ordinate lessicograficamente (come in un vocabolario). Chiamiamo "n-esimo numero di Richard" il numero reale indicato dall'n-esima delle frasi che abbiamo ordinato. Si consideri la frase: “il numero reale la cui n-esima cifra decimale è 1, se l'n-esima cifra decimale dell'n-esimo numero di Richard non è 1, e la cui n-esima cifra decimale è 2 se l'n-esima cifra decimale dell'n-esimo numero di Richard è 1”. Questa frase definisce ovviamente un numero richardiano, diciamo il k-esimo. Ma esso differisce, per definizione, dal k-esimo numero richardiano nella k-esima cifra decimale.

 

6) (Berry 1906) Nella lingua italiana, le frasi che contengono un numero di sillabe minore di cinquanta sono in numero finito (visto che esistono solo un numero finito di sillabe). Quindi con una frase contenente meno di cinquanta sillabe si può designare solo un numero finito di interi positivi. Ce ne sarà allora uno massimo. Sia k "il più piccolo intero positivo che non è denotato da un'espressione nella lingua italiana contenente meno di cinquanta sillabe". La frase italiana in corsivo contiene meno di cinquanta sillabe e denota l'intero positivo k.

 

7) (Grelling 1908) Un aggettivo si dice AUTOLOGICO se possiede la proprietà che esso denota; altrimenti si dice ETEROLOGICO. Ad esempio: “plurisillabico” e “qualificativo” sono autologici, mentre “monosillabico”, “interrogativo” e “montuoso” sono eterologici. Consideriamo l'aggettivo “eterologico”. Se “eterologico” è eterologico, allora non è eterologico. Se “eterologico” non è eterologico, allora è eterologico.

Dopo la lettera di Russell, "Frege rinunciò a intervenire nel dibattito sui fondamenti della matematica […] abbandonando di fatto la ricerca logica attiva" [83]. La reazione di Dedekind fu altrettanto rinunciataria. Cantor, invece, "riteneva che nella sostanza essa [l'antinomia di Russell] fosse riconducibile a un tipo di paradossi che egli stesso da tempo aveva trovato (e comunicato per lettera a Dedekind e Hilbert) relativi a molteplicità inconsistenti (secondo la sua terminologia) come la classe di tutti i cardinali - una classe «troppo grande», che non poteva essere pensata costituire un insieme" [84].

 

Il paradosso di Russell, pur non paralizzando in senso stretto l'attività dei matematici (come aveva fatto osservare Cantor, infatti, essi si trovavano a "lavorare" con insiemi non così strani come l'insieme di tutti gli insiemi, ecc.), era un durissimo colpo per il FONDAMENTO LOGICO che si stava cercando di dare alla matematica da Boole in poi. Dicono Mangione e Bozzi: "Il paradosso russelliano colpiva, diciamo così, il carattere troppo liberale ed illimitato della definizione cantoriana di insieme come estensione di proprietà arbitrarie". [85], e poi ancora: "[…] l'aspetto più rilevante dei paradossi era il fatto che essi colpivano la connessione stabilita da Frege, Cantor e Dedekind fra logica e matematica; in altri termini, veniva messa in crisi la possibilità di definire con un vocabolario e principi puramente logici, privi di riferimento a dati esterni, e quindi assoluti, i concetti matematici fondamentali" [86].

 

Riferendosi ai paradossi, Bourbaki così si esprime: "Benché simili ragionamenti, così lontani dall'uso corrente dei matematici, sembrassero a molti di loro giochi di parole, essi indicavano nondimeno la necessità di una revisione dei fondamenti della matematica, destinata ad eliminare “paradossi” di tale natura" [87].

 

Quel che dice Bourbaki è sacrosanto, però a nostro parere manca una premessa. I paradossi erano emersi dalle nuove tendenze fondazionaliste che avevano eliminato dalla matematica l'intuizione, non ritenendo quest'ultima un vero e proprio fondamento. I matematici riduzionisti ottocenteschi ritenevano che la matematica classica fosse COMPLETAMENTE PRIVA DI FONDAMENTI, non "DOTATA DI FONDAMENTI SBAGLIATI". Il ricondurre la matematica alla logica era stata cioè per loro una FONDAZIONE, non una RIFONDAZIONE. Quindi, quando Bourbaki dice che era necessaria una revisione dei fondamenti, dà per scontato che quelli classici basati sull'intuizione non erano fondamenti (quindi condivide il fondazionalismo ottocentesco), per cui ritiene superfluo specificare che erano i nuovi fondamenti ad essere sotto accusa.

 

Immediatamente dopo la scoperta dei paradossi vi fu una tendenza istintiva da parte di alcuni a rifiutare ogni fondazione logica della matematica. Il più autorevole rappresentante di questo movimento "antilogicista" fu Henri Poincaré (1854-1912). Egli sosteneva che gli enti matematici primitivi derivano direttamente dall'intuizione, e non da elaborazioni logiche dei dati acquisiti attraverso i sensi dal mondo esterno. "In questo senso, la logica non è che una veste che per scopi di comunicazione viene IMPOSTA a contenuti che ne sono del tutto indipendenti. La logica rimane quindi una pura forma, irrimediabilmente vincolata a strutture linguistiche e come tale niente affatto normativa nei riguardi di contenuti che provengono da ben altra fonte, l'intuizione appunto. […] Per Poincaré, i paradossi non colpiscono minimamente la matematica «vera», quella fondata su precisi dati intuitivi, proprio perché la nozione di insieme cantoriana è una creazione puramente logico-linguistica sprovvista di contenuti intuitivi" [88].

 

In ogni caso, dal 1902 agli anni trenta la storia della matematica coincide con la storia dei tentativi fatti per eliminare i paradossi e, più in generale, per dare dei fondamenti solidi (diversi da quelli kantiani) alla matematica. Le varie posizioni fondazionaliste si fanno di solito rientrare in una delle tre scuole di filosofia matematica che sorsero all'inizio del secolo. Esse sono il LOGICISMO di Russell, il FORMALISMO Hilbert e l'INTUIZIONISMO di Brouwer. Come ogni classificazione, anche questa ha il merito della chiarezza e il demerito della imprecisione. Infatti ci furono anche matematici che presero posizioni intermedie (che non possono essere classificate né come logiciste, né come formaliste, né come intuizioniste), le quali non sono oggi ricordate con un nome preciso. Si sa che la storia penalizza i più cauti. 

 

Prima di analizzare un po' più nel dettaglio le tre scuole filosofiche sopra dette, diamo qui di seguito un elenco degli avvenimenti più significativi a partire dal 1902 fino al 1931, con lo scopo di avere un quadro storico preliminare chiaro, anche se sintetico. 

· 1902 Paradosso di Russell.

 

· 1903 Esce il primo volume di "The principles of mathematics" (I principi della matematica) di Bertrand Russell.

 

· 1904 - Congresso Internazionale dei Matematici (Heidelberg) - Assioma di scelta di Zermelo: dato un insieme qualsiasi di insiemi non vuoti disgiunti, esiste almeno un insieme che contiene uno e un solo elemento in comune con ciascuno degli insiemi non vuoti.

 

· Luitzen Egbertus Brouwer fonda la "scuola intuzionistica" nella sua dissertazione di dottorato.

 

· 1910-1913 Escono i tre volumi dei "Principia Mathematica" di Bertrand Russell e Alfred North Whitehead.

 

· 1914 Esce "Grundzuge der Mengenlehre" (Caratteristiche fondamentali della teoria degli insiemi) di Felix Hausdorff (1868-1942).

 

· 1917 David Hilbert fonda la "Beweistheorie" (Teoria della dimostrazione) in una conferenza a Zurigo.

 

· 1928 Congresso Internazionale dei Matematici (Bologna): Hilbert parla per la prima volta della necessità di una dimostrazione di COMPLETEZZA dei sistemi formali su cui è costruita l'aritmetica.

 

· 1930 Hermann Weyl (1885-1955) succede nella cattedra di Gottinga a Hilbert.

 

· 1931 "Teoremi di incompletezza" di Kurt Gödel (1906-1978).

 

Il logicismo di Russell

 

Come si è già detto Russell abbracciò, a partire dal 1900, la tesi peaniana (e in principio fregeana) che la vera natura della matematica risiede anche nelle strutture logiche [89]. Egli però portò alle estreme conseguenze il cammino intrapreso da Peano.

 

Con i "Principi" Russell si proponeva di ricostruire interamente la matematica a partire da un sistema assiomatico formale che contenesse anche la teoria degli insiemi [90]. Tuttavia, quando nel 1902 egli scovò il paradosso, la sua opera era quasi ultimata e non era immune dalla catastrofiche conseguenze che esso aveva generato. Il risultato fu che l'opera uscì con un'appendice in cui Russell proponeva un accorgimento tecnico per evitare le antinomie. Questo accorgimento era quella che in seguito sarebbe stata chiamata "teoria dei tipi". Essa approssimativamente consiste nel disporre gerarchicamente gli enti che costituiscono l'oggetto della teoria: alla base ci sono gli enti individuali, o individui, poi le classi di individui, poi le classi di classi di individui, e così via.

 

Inizialmente il progetto di Russell era di pubblicare un secondo volume dei "Principi", ma esso non uscì mai. In compenso tra il 1910 e il 1913 vide la luce la più rigorosa (fino a quel momento) [91] e monumentale opera di logica formale della storia, i "Principia Mathematica" di Bertrand Russell e Alfred North Whitehead. Il sistema assiomatico dei "Principia", che, a differenza di quelli proposti in precedenza (ad esempio quello di Hilbert per la geometria), conteneva anche le regole di derivazione, si proponeva di descrivere formalmente, attraverso stringhe di segni, le leggi che regolano il pensiero deduttivo. Lo stesso concetto di "verità" di una certa stringa perdeva importanza, a discapito della "dimostrabilità", cioè della "derivabilità" di tale stringa di segni da un'altra, tramite le regole di derivazione. La "verità", nei Principia, era però ancora presente. Più che nelle ipotesi, cioè negli assiomi, essa andava cercata nelle regole di derivazione [92]. Per Russell sono esse ad essere intuitive, non gli oggetti a cui si applicano. Cioè esse costituirebbero un substrato logico congenito, tramite il quale la mente decide se da alcune premesse è lecito dedurre alcune conseguenze. La matematica sarebbe l'applicazione della logica ad alcuni concetti, come quelli spaziali e quelli temporali, che ci derivano dalle percezioni sensoriali. Non riconosce dunque l'apriorità agli "oggetti" della matematica classica (spazio, retta, punto).

 

Dice Gödel: "Egli [Russell] paragona gli assiomi della logica e della matematica con le leggi della natura e l'evidenza logica con la percezione sensoriale, cosicché non è necessario che gli assiomi siano di per sé evidenti, ma la loro giustificazione sta piuttosto (esattamente come in fisica) nel fatto che essi rendono possibile dedurre queste percezioni "sensoriali"" [93].

 

È difficile esimersi dal citare l'attacco del capitolo "Matematica e logica" della "Introduzione alla filosofia matematica", che sembra quasi il manifesto del Logicismo:

 

"La matematica e la logica, storicamente parlando, sono state due discipline interamente distinte. La matematica viene di solito idealmente collegata con la scienza, la logica con i greci. Ma entrambe si sono sviluppate nell'epoca moderna: la logica è diventata più matematica e la matematica è diventata più logica. La conseguenza è che adesso è assolutamente impossibile tirare una linea tra le due, perché sono una cosa sola. Differiscono come il ragazzo e l'uomo: la logica è la gioventù della matematica, e la matematica è la maturità della logica" [94]. Sotto si dice: "La logica tradizionale dice: «Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale». Ora è chiaro che ciò che INTENDIAMO asserire, tanto per cominciare, è che le premesse implicano la conclusione, non che le premesse e la conclusione sono effettivamente vere. […] Gli enunciati logici sono conoscibili A PRIORI, senza studiare il mondo reale. Soltanto da uno studio dei fatti empirici sappiamo che Socrate è un uomo, ma riconosciamo l'esattezza del sillogismo nella sua forma astratta […] senza bisogno di alcun appello all'esperienza" [95].

 

Qui Russell porta Socrate come esempio di "concetto" derivante dall'esperienza, ma egli ritiene della stessa natura anche gli oggetti matematici. Questo emerge in modo chiaro dalla frase che abbiamo citato nella nota 89 a proposito del giovanile "kantismo" di Russell: "Il quarto argomento metafisico… "[96]. Russell sostiene, quindi, che se vivessimo in un altro mondo, completamente diverso da questo, o avessimo percezioni sensoriali diverse da quelle che abbiamo, continueremmo a vedere che [(((a →b)&(b → c)) → (a → c))& a] c, ma potremmo non continuare a vedere il postulato delle parallele.

La concezione russelliana della matematica è espressa perfettamente da Mangione e Bozzi: "L'assunto di fondo, per Russell, è […] il carattere di organizzazione formale e di schematizzazione di contenuti extralogici di ogni concetto e teoria matematica. Ben lungi quindi dal trovare il proprio significato nel collegamento con specifici contenuti matematici, […] le singole teorie matematiche trovano la loro ragion d'essere e la loro determinatezza nel tipo di schemi generali astratti che individuano. Il loro ruolo nel sistema della conoscenza umana è appunto quello di fornire e rendere esplicite queste forme. Che poi queste, per ragioni legate alla natura del mondo della nostra esperienza o intuizione, risultino applicabili oppure no, di volta in volta, ad ambiti specifici e limitati, può spiegare il nostro interesse o meno per esse ma non toglie nulla al loro carattere puramente logico e astratto[…]. Dire però che le singole teorie matematiche non hanno un contenuto specifico offerto dall'intuizione o dall'esperienza non significa per Russell che l'intero edificio della matematica non abbia contenuto e sia un puro sistema formale. Sono le stesse forme, isolate e definite in termini logici generali, che costituiscono il contenuto della matematica nel suo complesso, ed è in questo senso che la matematica non è che un aspetto della logica e su di essa si fonda" [97].

 

Per Russell, dunque, se Tizio dice "visto che fuori piove, prendo l'ombrello prima di uscire di casa" e Caio dice "se la retta a è parallela alla retta b e la retta b è parallela alla retta c, allora la retta a è parallela alla retta c", entrambi stanno applicando la logica a concetti che hanno maturato nel corso della loro vita. Il fatto che quello di Tizio si chiami BUON SENSO e quella di Caio si chiami MATEMATICA dipende dalla diversa natura di quei concetti. Il ragionamento di Tizio, se fatto con precisione suonerebbe: "visto che:

1) fuori piove;

 

2) se piove ed esco senza ombrello mi bagno;

 

3) non mi piace bagnarmi;

 

4) devo uscire; allora prendo l'ombrello".

Egli sta applicando lo schema logico astratto [98] [((a&¬b)→c)&a&¬c)] → b. Il discorso di Caio sarebbe: "visto che:

1) la relazione di parallelismo è transitiva;

 

2) a è parallela a b e b è parallela a c; allora a è parallela a c".

Egli sta applicando lo schema [(((a →b)&(b → c)) → (a → c))& a] c. Per Russell l'evidenza di queste due leggi astratte è innata. Cioè, riferendoci al caso di Caio, è innato che la proprietà transitiva e la verità di a implicano la verità di c. Quel che non è innato è l'evidenza della proprietà transitiva. Per i logicisti, il fatto che essa debba valere o no deve esserci suggerito dalla percezione sensoriale che abbiamo degli oggetti a cui applichiamo la logica. Il mondo in cui viviamo ci suggerisce che la relazione di parallelismo è transitiva, ma la relazione di perpendicolarità non lo è.

 

Non è molto chiaro cosa voglia intendere di preciso Russell quando afferma di IDENTIFICARE la matematica con la logica.

 

Egli ritiene che l'unica cosa innata sia la logica. Questa è un'idea discutibile, ma certamente rispettabilissima. Però, quando Russell identifica la matematica con la logica, crediamo, non vuol dire che chi fa logica fa matematica in senso classico e chi fa matematica in senso classico fa logica, o che Tizio è un matematico solo perché sa quando prendere l'ombrello. Egli ritiene che la matematica, intesa in senso classico, è solo una particolare applicazione della logica. D'altra parte, diciamo noi, sono applicazioni della logica anche la linguistica, la ragioneria, la psicologia, ecc. Tutto è applicazione della logica. Ma allora, se pur si volesse identificare la matematica con la logica pura (la logica pura è, per Russell, lo studio degli schemi mentali in sé, espressi in simboli grafici privi di significato), bisognerebbe pur trovare un altro nome per indicare la disciplina che applica la logica ai numeri e alle figure. Quindi ci pare più esatto dire che Russell RIDUSSE (o cercò di ridurre) la matematica alla logica, più che la IDENTIFICÒ con la logica. Infatti egli si inserisce nella corrente riduzionista, portando questa verso posizioni sempre più esasperate. Comunque si sarebbe dovuto aspettare Hilbert perché il riduzionismo raggiungesse il suo picco massimo.

 

Va detto, a onor del vero, che Russell stesso ha sempre dichiarato di ritenere IDENTICHE matematica e logica. Scrive Wang: "La tesi fondamentale del libro [i "Principi della Matematica"] è che la matematica e la logica sono identiche (riducibilità della matematica alla logica), una posizione, questa, cui Russell rimase fedele fino alla morte" [99]. Riteniamo che quel "identiche" abbia senso se inteso come segue: la matematica è la logica applicata ai concetti di quantità e misura derivanti dall'esperienza; se si escludono le mere percezioni sensoriali, la matematica si identifica con la logica. Da questi assunti seguirebbe però che qualsiasi disciplina, se si escludono le percezioni sensoriali, si identifica con la logica. La questione rimane dubbia. Quel che si vuole qui sostenere è solo che, il riconoscere una qualche esistenza indipendente dalla logica ai dati sensoriali [100], affermare che alcuni concetti matematici derivano dall'esperienza e l'affermare che la matematica e la logica sono indistinguibili costituisce una contraddizione [101].

 

Hilary Putnam ha detto: "L'aver mostrato che il «confine» fra «logica» e «matematica» è in certo qual modo arbitrario è stata una grande impresa; ed è STATA, io sostengo, l'impresa dei Principia" [102].

 

Molto interessante è l'analisi che Alonzo Church fa della tesi logicista nel suo articolo "Matematica e logica". All'inizio precisa che: "La priorità della logica rispetto alla matematica è stata sostenuta in due sensi differenti. Il primo, che chiamerò il senso forte, è la dottrina che va sotto il nome di logicismo; l'altro, il senso debole, è quello secondo cui la comune concezione postulazionale o assiomatica della natura della matematica implica la priorità della logica vista come strumento con il quale si determinano le conseguenze di un particolare sistema di postulati matematici. […] la tesi logicista è che la logica e la matematica stanno fra loro non come due argomenti differenti ma come la prima e la seconda parte di uno stesso argomento: in tal modo si può ottenere tutta la matematica dalla logica pura senza introdurre ulteriori nozioni primitive o assunzioni" [103]. Come abbiamo detto sopra, ci pare che Russell non volesse sostenere (almeno non sempre) che la visione del cerchio deriva dalla logica pura, ma solo che la visione del cerchio deriva dal mondo esterno e non dalla mente. Quindi, quando Church dice "si può ottenere tutta la matematica dalla logica pura senza introdurre ulteriori nozioni primitive o assunzioni", crediamo, dà per scontata l'introduzione di nozioni derivate dai sensi, le quali costituiscono gli oggetti su cui la logica agisce. Neanche il logicista più radicale potrebbe negare che tra un cerchio e una stringa di segni qualche differenza c'è. Russell riconosce un'esistenza sia alle leggi logiche astratte che agli "oggetti" matematici classici [104], come il cerchio. Fa però una distinzione: l'esistenza delle prime è A PRIORI, quella dei secondi è A POSTERIORI, cioè EMPIRICA [105].

 

Church espone poi tre obiezioni al logicismo. Di queste le prime due sono di carattere piuttosto tecnico, mentre la terza è più interessante dal punto di vista filosofico. In essa si sostiene che "la matematica non ha bisogno della logica nel senso di una teoria del ragionamento deduttivo, ma solo di vari esempi concreti del ragionamento deduttivo" [106]. Poi Church conclude che: "[…] è vero che ogni fondazione della matematica e della logica è circolare, cioè rimangono sempre dei presupposti che si debbono accettare per fede o per intuizione senza essere a loro volta fondati: possiamo ridurre al minimo i presupposti, ma non possiamo eliminarli. Se il minimo di presupposti che resta dopo la riduzione debba chiamarsi matematica o logica, o tutte e due, o nessuna delle due, diventa una questione terminologica" [107].

 

Visto che questa ci sembra una buona conclusione, chiudiamo il paragrafetto su Russell e passiamo a parlare dell'intuizionismo.

 

 

L'Intuizionismo di Brouwer 

 

Nel 1907 l'allora giovanissimo Brouwer sferrò, nella sua dissertazione di dottorato, un attacco frontale alla dottrina logicista, e più in generale a tutte le recenti tendenze antiintuizioniste. Egli negava ogni tipo di priorità della logica sulla strada della conoscenza matematica e riaffermava il carattere puramente intuitivo dei concetti matematici. Riconosceva però come primario solo il concetto di quantità. Sosteneva cioè la natura intuitiva della matematica, ma riduceva i suoi fondamenti da due a uno, escludendo la geometria. Brauwer non si limitò tuttavia a riaffermare l'apriorità del numero. Egli si spinse oltre. Pose infatti delle restrizioni notevoli ai metodi dimostrativi adoperati anche dalla matematica classica. Le più importanti sono:

1) Si considerano "esistenti" solo gli oggetti matematici COSTRUIBILI, cioè che possono essere COSTRUITI con un numero finito di passi [108]. Tutti gli altri non hanno senso alcuno, per cui è perfettamente inutile speculare su di essi. Ciò comporta il rifiuto dell'infinito attuale.

 

2) Si rifiuta la legge del terzo escluso [109] e, conseguentemente, non si riconosce valido il metodo di dimostrazione indiretta (cioè per assurdo).

La non accettazione dell'infinito attuale, come abbiamo visto [110], non era una novità assoluta. Ma, mentre in precedenza il dibattito era avvenuto più che altro su un piano filosofico, senza intaccare la pratica matematica in alcun modo, ora esso diventa limitante in senso stretto.

 

Infatti negli anni che seguirono si sviluppò, parallelamente alla matematica per così dire "normale", una MATEMATICA INTUIZIONISTICA, che si proponeva di ricostruire tutto il corpus matematico con le restrizioni metodologiche che abbiamo visto [111]. Scrive Casari: "Ciò che importa sottolineare è che […] il rifiuto dell'attualismo matematico non si trasformò affatto in Brouwer in una sorta di rielaborazione costruttiva della matematica numerabile o, se si preferisce, in una sorta di mutilazione riduttiva della matematica «tradizionale», ma si rivelò invece capace di aprire all'indagine razionale un nuovo universo, la cui ricchezza, vastità e bellezza, probabilmente non sono inferiori a quelle dell'universo più tradizionale, si incominciano forse solo da pochi anni a intravedere e apprezzare realmente [Casari scrive nel 1979]" [112].

 

Ci pare interessante citare testualmente i due atti che costituiscono il manifesto della scuola intuizionista:

- "[…] il PRIMO ATTO DELL'INTUIZIONISMO separa la matematica dal linguaggio matematico, in particolare dai fenomeni linguistici descritti dalla logica teorica, e riconosce che la matematica intuizionista è un'attività della mente di natura alinguistica, che trae origine dalla percezione di un passaggio di tempo, cioè dello scindersi di un momento di vita in due cose distinte, l'una delle quali cede il posto all'altra ma è conservata dalla memoria. Se la biunità così originata viene spogliata di ogni qualità rimane la forma vuota del substrato comune di tutte le unità. È questo substrato comune, questa forma vuota che costituisce l'intuizione-base della matematica" [113].

 

- "[il] SECONDO ATTO DELL'INTUIZIONISMO […] riconosce la possibilità di generare nuove entità matematiche: in primo luogo sotto forma di successioni che proseguono all'infinito p1, p2,…, i cui termini sono scelti più o meno liberamente tra entità matematiche già costruite, in modo che la libertà di scelta eventualmente esistente per il primo elemento p1 può essere sottoposta ad una restrizione permanente per qualche pv successivo e sempre di nuovo a restrizioni maggiori fino a essere completamente abolita per i pv successivi […], laddove tutti questi interventi restrittivi e le stesse scelte dei pv possono essere fatti dipendere ad ogni passo da eventuali esperienze matematiche successive del soggetto creatore; in secondo luogo sotto forma di specie matematiche, cioè di proprietà che si può supporre che entità matematiche precedentemente acquisite posseggano, le quali soddisfano inoltre la condizione che, se valgono per una certa entità matematica, valgono anche per tutte le entità matematiche che sono state definite eguali ad essa, dove la relazione di eguaglianza dev'essere simmetrica, riflessiva e transitiva; le entità matematiche precedentemente acquisite per cui vale la proprietà si dicono gli elementi della specie" [114].

La concezione brouweriana dell'intuizione non è un ritorno alla filosofia kantiana dello spazio e del tempo. Egli riconosce infatti come intuizione primaria quella del tempo (che genera i numeri naturali), ma in alcun modo quella dello spazio.

 

Borga e Furinghetti riportano dei brani molto espliciti, direttamente dalla tesi di dissertazione di Brouwer del 1907. Li riportiamo anche noi. 

 

"L'esperienza umana non è soggetta passivamente ad alcun singolo sistema matematico; nemmeno alle coordinate del tempo, o al continuo temporale vuoto di misura. Noi otteniamo le nostre esperienze fuori di tutta la matematica […], quindi indipendentemente da ogni concezione di spazio; la classificazione matematica di gruppi di esperienze, quindi anche la creazione di un concetto di spazio, sono libere azioni dell'intelletto, e noi possiamo con atto arbitrario riferire le nostre esperienze a questa catalogazione, oppure subirle in modo non matematico. […] Non esiste uno spazio empirico definito. Noi possiamo catalogare tutti i fenomeni in ogni spazio, con un numero qualunque di dimensioni, tanto grottescamente curvo quanto vogliamo, quindi anche senza mobilità. Certo la scienza empirica è legata alla matematica, ma l'esperienza non ci può mai costringere alla scelta di un sistema matematico definito. […]. Attraverso il suo uso costante, la geometria euclidea è diventata parte utilissima della matematica, ma si può immaginare che con la stessa organizzazione dell'intelletto umano un'altra costruzione matematica avrebbe potuto diventare altrettanto popolare" [115].

 

Anche la scuola intuizionista mutilava dunque il dualismo originario della matematica.

 

Brouwer, contrastando la linea logicista, va inserito comunque in quella corrente, che va da Kronecker a Poincaré, che cerca di recuperare l'identità della matematica come scienza indipendente dalla logica [116]. Scrivono Mangione e Bozzi:" […] che rapporti esistono fra logica e matematica, quali fatti giustificano la significatività e la verità della matematica? […] La risposta a questo problema, seppure con enfasi diverse, è comune tanto a Poincaré quanto a Luitzen Egbertus Brouwer (1881-1966): la matematica ha un contenuto suo proprio che le proviene direttamente e senza mediazione dall'intuizione ed è come tale indipendente tanto dall'esperienza sensoriale quanto dalla strutturazione logica. In questo senso la logica non è che una veste che per scopi di comunicazione viene IMPOSTA a contenuti che ne sono del tutto indipendenti.[…]. Scompare così il ruolo creativo della logica come capace di ricostruire e addirittura creare EX NOVO i concetti matematici di base" [117]. Ma la strada presa da Brouwer fu molto più radicale di quella di Poincarè, infatti egli: "tentò l'impresa […] di ricostruire la matematica EX NOVO, basandosi su un'analisi diretta del concetto di costruzione e rigettando così ogni forma di compromissione con la matematica classica o con l'atteggiamento logicista. […] Il salto dalla posizione di Poincaré è così molto netto: Poincaré e gli stessi semiintuizionisti francesi si erano posti il problema di ricostruire la maggior parte possibile della matematica classica basandosi sul criterio della sensatezza contenutistica […] dei suoi concetti base; per Brouwer il problema è quello di creare una nuova matematica, abbattendo i «rami secchi» nati da puri giochi linguistici privi di contenuto intuitivo genuinamente costruttivo" [118]. Come sintetizza Heyting, per gli intuizionisti: "i due fatti fondamentali […] sono il concepimento di un'entità astratta e la ripetizione all'infinito di tale concepimento. Questi due concetti generano la nozione di successione dei numeri naturali" [119].

 

Per Brouwer la stessa capacità di esprimersi in un linguaggio è una dimostrazione dell'innata capacità di percepire la RIPETIZIONE di un atto, la individuazione della diversità di più cose nel tempo, cioè l'intuizione del discreto, della quantità, del numero. I logicisti, e ancor più i formalisti, per Brouwer, sostengono cose letteralmente SENZA SENSO.

 

Se un logicista dovesse cercare di convincere un intuizionista sulla natura logica della matematica, egli inizierebbe con lo scrivere un certo numero di simboli sul foglio e si accingerebbe a parlare. Al che l'intuizionista lo fermerebbe prima ancora che aprisse la bocca e direbbe: "caro logicista, dal momento che tu hai scritto più simboli diversi e sei capace di riconoscere distintamente ognuno di essi, hai già dato un'ottima prova di possedere l'intuizione delle quantità discrete. Se vuoi continuare col tuo discorso fai pure, ma ti informo che disponi già dei numeri naturali, per cui è perfettamente inutile che tu li definisca". Il logicista potrebbe rispondere: "carissimo intuizionista, se tu fossi stato privo dell'intuizione che [(b → c)&a&b] c, non avresti mai potuto fare il tuo bel discorso. Quindi tu puoi dire che esistono i numeri grazie alla logica. Se ne deduce che la logica PRECEDE la matematica, cioè senza la logica non si può fare matematica. Dunque la matematica è logica". E continuerebbero così senza trovare mai un accordo. (Nel prossimo paragrafo cercheremo di dare anche la possibile obiezione del formalista).

 

I più importanti tra i seguaci di Brouwer furono l'olandese Arend Heyting (1898-1980) e il tedesco, allievo di Hilbert e collega di Einstein, Hermann Weyl (1885-1955).

 

Nonostante le accese controversie nate sulla questione dei fondamenti avessero scosso le basi filosofiche della matematica, non era mai successo, prima del 1907, che fosse messa in dubbio la validità dei risultati classici. I matematici, che erano sempre stati considerati un modello di precisione, rigore ed esattezza, vedevano ora mettere in dubbio il prodotto più inattaccabile del loro lavoro. Le verità eterne, fuori dallo spazio e dal tempo, immutabili, di Pitagora e Talete venivano disconosciute. L'OPINABILITÀ faceva il suo ingresso nella matematica.

 

La scoperta delle geometrie non euclidee aveva inaugurato una stagione di revisionismo fondazionale che si mosse in due direzioni opposte, entrambe estreme: da una parte il logicismo e il formalismo, dall'altra l'intuizionismo. Una sorta di RELATIVISMO ONTOLOGICO invase la matematica e la fisica [120], con una differenza però: in fisica una corrente riuscì ad imporsi sulle altre, in matematica no e in essa regna ancora oggi il disorientamento più totale. Scrive Heyting: "Ci si può chiedere se nella matematica intuizionista si raggiungano un rigore e una certezza assoluti. L'ovvia risposta è che per il pensiero umano la certezza assoluta è impossibile, anzi addirittura non ha senso. La sola giustificazione della matematica intuizionista sta nel potere di convinzione immediata di proposizioni di per sé evidenti come: se un insieme ha 5 elementi differenti, ha anche 4 elementi differenti" [121]. Questo giudizio è la dimostrazione che il relativismo ontologico è ormai tacitamente accettato. L'intuizionismo si sviluppò per reagire al logicismo. Il formalismo (come vedremo) per reagire all'intuizionismo. Queste tre correnti, però, prese nell'insieme, e guardate da lontano, costituiscono un unico groviglio di dubbi che portò inevitabilmente alla PERDITA DELLA CERTEZZA [122]. I tentativi fondazionalisti dei primi del novecento, se pur di segni opposti, erano nati tutti con l'intento di far luce sulle tenebre del pensiero; il risultato è stato che, insieme, dove prima era solo il buio hanno mostrato essere anche la nebbia. Non va dimenticato, comunque, che essi hanno aperto una infinità di porte sulla via della conoscenza e hanno costituito un patrimonio culturale di primaria importanza per lo sviluppo di ogni disciplina (non solo matematica) nel XX secolo.

 

 

Il Formalismo di Hilbert

 

Come abbiamo detto, Hilbert aveva presentato nel 1900 una lista di problemi in cui si dava molto peso alle questioni fondazionali, ed in particolare alla non contraddittorietà dei sistemi assiomatici utilizzati per COSTRUIRE l'aritmetica.

 

A rendere ancora più impellente il bisogno di una dimostrazione di non contraddittorietà, furono il paradosso di Russell e il discreto successo che stavano riscuotendo le obiezioni dei semiintuizionisti e, soprattutto, degli intuizionisti capitanati da Brouwer.

Negli anni '10, la situazione era abbastanza complicata. Da un lato con i "Principia Matematica" si era compiuto un passo verso la totale logicizzazione della matematica, dall'altro Brouwer metteva in discussione il principio del terzo escluso (che è uno dei cardini della logica) e riconosceva validi solo i metodi di dimostrazione COSTRUTTIVI. Nel recente passato, si era ricondotto il problema della non contraddittorietà della geometria a quello della non contraddittorietà dell'aritmetica. Ma l'aritmetica era ridotta ai sistemi assiomatici formali. Per risolvere DEFINITIVAMENTE ogni controversia e mettere a tacere una volta per tutte gli intuizionisti, Hilbert mise a punto un programma, che, insieme ai ventitrè problemi del 1900, tracciò la strada alla matematica almeno fino agli anni '50. Prima di esporre il programma di Hilbert, riportiamo un passo del discorso riguardante la crisi dei fondamenti, che lo stesso tenne a Monaco nel 1925. Esso contiene una delle più celebri frasi di tutta la storia della matematica (che abbiamo già citato a proposito di Cantor): "Per generale riconoscimento la nostra posizione attuale di fronte ai paradossi è insostenibile. Pensate, le definizioni e i metodi deduttivi che tutti imparano, insegnano e adoperano nella matematica, in questa pietra di paragone di ogni sicurezza e di ogni verità, conducono a delle assurdità. Dove trovare sicurezza e verità se non si trovano neppure nel pensiero matematico? C'è tuttavia un modo del tutto soddisfacente per evitare i paradossi senza tradire la nostra scienza. Il punto di vista utile per la scoperta di tale modo e il desiderio che ci mostra la via da prendere sono: 1)  Se c'è anche la più piccola speranza, esamineremo accuratamente tutte le definizioni e i metodi deduttivi fecondi, li cureremo, li potenzieremo e li renderemo utili. Nessuno potrà scacciarci dal paradiso che Cantor ha creato per noi; 2)dobbiamo estendere a tutta la matematica quella sicurezza dei metodi dimostrativi che è propria della teoria elementare dei numeri, di cui nessuno dubita e in cui contraddizioni e paradossi sorgono solo per nostra negligenza" [123].

 

 

"Programma di Hilbert"

1) Individuare un sistema assiomatico formale molto semplice tale che:

a) la sua non contraddittorietà sia dimostrabile direttamente, senza ricorrere alla presunta non contraddittorietà di altri sistemi;

 

b) la sua non contraddittorietà implichi quella di tutti i sistemi assiomatici formali con i quali si può ricostruire tutta la matematica classica;

2) Dimostrare la non contraddittorietà del sistema individuato con metodi di dimostrazione costruttivi, così che tutta la matematica sia al riparo dalle obiezioni degli Intuizionisti.

 

"Soluzione di Hilbert"

1) Il sistema assiomatico da prendere in esame deve essere in grado di esprimere tutta e sola l'aritmetica degli interi, che è né più né meno di quel che serve per costruire l'intera matematica.

 

2) La non contraddittorietà deve essere dimostrata con metodi FINITISTICI o FINITARI, cioè tali che:

a) fanno uso di un numero finito di enti;

b) ogni oggetto deve poter essere costruito con un numero finito di passi;

c) non è lecito parlare di un oggetto senza mostrare come è stato costruito;

d) non è lecito assumere come date collezioni infinite; e) dire che una data proprietà vale per un numero infinito di oggetti, vuol dire che è possibile verificare tale proprietà su di essi, uno per uno [124].

Per realizzare una tale dimostrazione finitistica, Hilbert fondò una vera e propria disciplina matematica. Essa è la "Beweistheorie" (Teoria della dimostrazione o Metamatematica), fondata con il discorso pronunciato da David Hilbert durante una conferenza tenutasi a Zurigo nel 1917.  

 

Prima di esaminare nel dettaglio la "Beweistheorie", diamo una cronologia delle conferenze tenute da Hilbert su di essa. 

· 1917 Zurigo [125]

· 1922 Copenaghen-Amburgo [126]

· 1922 Lipsia [127]

· 1925 Münster [128]

· 1927 Amburgo [129]

· 1928 Bologna [130]

Per i formalisti la matematica può essere completamente dedotta da un sistema assiomatico formale. Per dimostrare, dunque, che la matematica è non contraddittoria è sufficiente dimostrare che quel sistema è non contraddittorio, cioè che, applicando agli assiomi e a ogni formula ben formata [131] le regole di inferenza stabilite, non è possibile giungere a due formule ben formate che siano l'una la negazione logica dell'altra. Quel "dimostrare" che abbiamo scritto sottolineato è il compito che Hilbert affida alla METAMATEMATICA. I sistemi che egli prende in considerazione sono completamente formalizzati: le COSTANTI sono dei simboli grafici che non stanno ad indicare nient'altro che se stessi come pure forme (il numero delle costanti deve essere finito); le VARIABILI sono dei simboli grafici che, secondo alcune regole del sistema, possono essere sostituite con alcune particolari classi di stringhe di costanti (le variabili sono in genere una infinità numerabile); le REGOLE DI FORMAZIONE servono per individuare, tra tutte le possibili stringhe (di qualsiasi lunghezza) di costanti e/o variabili, solo alcune di esse (generalmente sono una infinità numerabile) che si chiamano FORMULE o FORMULE BEN FORMATE; alcune di esse (anche in questo caso sono generalmente una infinità numerabile, ma si devono poter indicare con un numero finito di schemi) sono detti ASSIOMI; le REGOLE DI DERIVAZIONE o DI TRASFORMAZIONE sono delle regole che indicano quali formule sono DERIVABILI da altre; una successione di formule x è una DIMOSTRAZIONE di una certa formula y se il primo elemento di x è un assioma, l'ultimo è y e ogni elemento successivo al primo è derivato da elementi che lo precedono in x; una formula y si dice DIMOSTRABILE se esiste una sua dimostrazione [132]. Lo scopo della matematica sarebbe allora quello di applicare con ingegno le regole di derivazione agli assiomi e alle formule dimostrabili per trovare più formule dimostrabili possibili, senza preoccupazione alcuna di quale sia il "significato" dei suoi segni. Quel che il matematico scrive è per Hilbert completamente privo di significato. La matematica non è che un gioco combinatorio di forme. Le regole del gioco vanno fissate prima che il gioco inizi, ma non sono del tutto arbitrarie. Lo scopo della METAMATEMATICA è quello di controllare che queste regole garantiscano un buon funzionamento del gioco. In un primo momento, quel che noi abbiamo chiamato "buon funzionamento del gioco" è identificato da Hilbert con la NON CONTRADDITTORIETÀ. Dal 1928 in poi, egli si convinse che era necessaria anche una dimostrazione di COMPLETEZZA [133]. La COMPLETEZZA di un sistema assiomatico formale è una cosa un po' più complicata della non contraddittorietà. Proviamo comunque a spiegare cosa si intende. Dato un sistema assiomatico formale, se ne può dare una interpretazione contenutistica, attribuendo ai suoi enti (che sono, abbiamo detto, pure forme) un SIGNIFICATO. Così, ad esempio, un sistema formale, originariamente privo di senso, sotto una particolare interpretazione, può descrivere l'aritmetica. L'aritmetica, d'altra parte, è nata prima dei sistemi formali, per cui molte proposizioni aritmetiche ci appaiono evidentemente vere anche senza averle dimostrate, o grazie a una dimostrazione della matematica classica. Se quel sistema formale descrive davvero l'aritmetica che noi conosciamo, deve essere in grado di esprimere quelle proposizioni come formule ben formate, le quali devono risultare dimostrabili in quel sistema. Se ciò non accadesse, quel sistema formale sarebbe ancora validissimo in quanto tale, ma sarebbe perfettamente inutile per descrivere l'aritmetica. Una prima definizione di completezza potrebbe quindi essere la seguente: un sistema assiomatico formale si dice COMPLETO RELATIVAMENTE ad una sua interpretazione contenutistica se ogni proposizione che si riconosce contenutisticamente vera è espressa da una formula ben formata di quel sistema e se questa formula ben formata è dimostrabile in quel sistema. In questa definizione c'è un evidente miscuglio di sintassi e semantica: la verità è un attributo semantico, la dimostrabilità è un attributo sintattico. Inoltre essa era inutile per gli scopi dei formalisti. Infatti, se riconoscessimo di avere la capacità di discernere con sicurezza ciò che è vero da ciò che è falso, non avrebbe senso complicarsi la vita con una selva di simboli incomprensibili per ricostruire delle cose che già conosciamo (al solo scopo di renderle rigorose), le quali servirebbero poi per verificare se quei simboli le descrivono o no [134].

 

Per i formalisti serviva una definizione "simile" a quella che noi abbiamo dato sopra, ma che riguardasse solo gli attributi sintattici del sistema formale, cioè che facesse riferimento solo alla DIMOSTRABILITÀ, non alla VERITÀ. Diamo questa seconda definizione: un sistema assiomatico formale si dice COMPLETO se data comunque una formula ben formata di quel sistema, ci sono due casi possibili: a) essa è dimostrabile; b) la sua negazione logica è dimostrabile [135]. Una formula ben formata tale che essa o la sua negazione logica siano dimostrabili si dice DECIDIBILE. Dunque, dire che un sistema è completo è equivalente a dire che ogni sua formula ben formata è decidibile. Si fa notare che i due casi possibili a) e b) richiesti dalla completezza non si escludono a vicenda. Potrebbe verificarsi il caso che in un sistema formale completo esista una formula F tale che sia F che ¬ F siano dimostrabili. In tal caso però il sistema sarebbe contraddittorio. Al contrario, in un sistema formale non contraddittorio potrebbe verificarsi che esista una formula F tale che né F né ¬ F siano dimostrabili, cioè che il sistema sia incompleto. È proprio questo il motivo per cui Hilbert, dal 1928 in poi, inserì sia la dimostrazione della coerenza che quella della completezza nel suo programma.

 

Come abbiamo detto, questo era compito della METAMATEMATICA. Ma secondo quali criteri logici la METAMATEMATICA decide se un sistema è coerente e/o completo?

 

Come dice Casari: "Anche per Hilbert era chiaro che, nel processo giustificativo di una teoria assiomatica, un qualche ricorso all'evidenza e all'intuizione sarebbe stato inevitabile; […] La sua idea fu quella di affidare all'intuizione un compito più limitato: giustificare non contenutisticamente ma formalmente gli elementi primitivi, facendo vedere come quei complessi linguistici che intendevano esprimerli non sarebbero stati capaci, attraverso le manipolazioni corrispondenti ai processi dimostrativi, di trasformarsi in complessi simbolici esprimenti una contraddizione" [136].

 

Agazzi scrive: "[...] una teoria matematica formalizzata si configura come una serie di segni privi di significato intuitivo e funzionanti in base a regole di tipo automatico; [...] tuttavia è evidente che la metamatematica non potrà avere questa forma, per la buona ragione che, se essa deve fondare l'aritmetica, bisogna che svolga un discorso fornito di senso, che possa essere «capito» nel senso più pieno e usuale del termine, e le sue dimostrazioni non devono semplicemente presentarsi come concatenazioni impeccabili di frasi, ma devono anche convincere, anzi costringere all'assenso, senza bisogno che si presupponga l'accettazione di regole di deduzione o altro del genere, giacché allora anche queste dovrebbero venir fondate. [...] Questa teoria che si sovrappone alla matematica formalizzata [...] è quindi una teoria intuitiva, ma non nel vecchio senso, in base al quale si davano per «intuitive» le proprietà di certi enti e si procedeva a trarne delle conclusioni, ma nel senso più elementare del termine, per cui, ad esempio, dire che 2+3=3+2 vuol proprio dire che si può andare a constatare che se prendo, ad esempio 2 asticelle e ne aggiungo loro 3, ottengo lo stesso numero di asticelle che se ne prendo prima 3 e ne aggiungo loro 2" [137].    

 

Riportiamo alcuni frammenti del discorso che Hilbert tenne alla conferenza di Lipsia nel 1922. Egli inizia introducendo la "Beweistheorie": "Scopo delle mie ricerche per una nuova fondazione della matematica è niente meno che la definitiva eliminazione dei dubbi diffusi intorno alla sicurezza delle inferenze matematiche. La necessità di una tale ricerca può essere colta non appena si rifletta su quanto mutevoli e imprecise siano state spesso le intuizioni al riguardo persino dei più eminenti matematici, o quando ci si ricordi che da parte di alcuni fra i più noti matematici contemporanei vengono ripudiate inferenze matematiche considerate finora delle più sicure" [138]. (Quest'ultimo è un preciso riferimento a Brouwer e a Weyl, suo ex allievo che aveva abbandonato la causa formalista per aderire all'intuizionismo.) E continua: "Per una completa soluzione delle difficoltà di principio connesse a questo tema, è necessaria, come credo, una teoria della dimostrazione matematica. Con l'aiuto e la collaborazione di Paul Bernays, io ho ormai sviluppato questa teoria della dimostrazione […] a tal punto che per mezzo di essa si riescono a fondare in maniera incontestabile l'analisi e la teoria degli insiemi […]" [139]. Poi passa a spiegare in cosa consiste la metamatematica: "L'idea fondamentale […] è la seguente: tutto ciò che costituisce la matematica nel senso odierno viene rigorosamente formalizzato, cosicché la matematica vera e propria o la matematica in senso stretto diventa un patrimonio di formule. Queste differiscono dalle abituali formule della matematica solo perché compaiono in esse, oltre ai simboli abituali, anche i simboli logici […]. Determinate formule, che servono da mattoni per l'edificio formale della matematica, sono chiamate assiomi. […] Accanto alla matematica vera e propria, così formalizzata, c'è una matematica in certo modo nuova, una metamatematica, necessaria per garantire la sicurezza della prima e nella quale, contrariamente ai procedimenti inferenziali puramente formali della matematica vera e propria, si applicano inferenze contenutistiche, ma unicamente al fine di dimostrare la non-contraddittorietà degli assiomi. In questa matematica si opera con le dimostrazioni della matematica vera e propria, e queste ultime costituiscono l'oggetto stesso dell'indagine contenutistica. […] Gli assiomi e le proposizioni dimostrabili […] sono le copie delle idee che costituiscono il comune procedimento della matematica ordinaria, ma non sono esse la verità in senso assoluto. Come verità assolute devono piuttosto venir considerati i risultati che si ottengono con la mia teoria della dimostrazione a proposito della dimostrabilità e della non-contraddittorietà di tali sistemi di formule" [140].

 

Sopra si è detto che l'ASSOLUTISMO ONTOLOGICO della matematica antica era stato sostituito, agli inizi del XX secolo, da una sorta di RELATIVISMO ONTOLOGICO. Il Formalismo, come dice chiaramente Hilbert, conservò l'ASSOLUTISMO nella metamatematica, ma lo sostituì con il NICHILISMO più puro nella matematica.

 

Riportiamo un ultimo pezzo del discorso di Hilbert che ci sembra una importante fonte per la ricostruzione della sua filosofia matematica, soprattutto in relazione alla polemica intuizionisti-formalisti (ed in particolare Hilbert-Weyl): "La soluzione delle difficoltà offerta dalla mia teoria della dimostrazione può essere resa comprensibile nel modo seguente. Il nostro pensiero è finitario; quando noi pensiamo, si compie un processo finitario. Questa verità che si controlla da sé, è in un certo qual modo impiegata nella mia teoria della dimostrazione in modo che, quando si fosse stabilita una contraddizione, insieme alla conoscenza di questa contraddizione dovrebbe essere stata realizzata anche la relativa scelta tra un'infinità di cose. Nella mia teoria della dimostrazione non viene perciò affermato che può sempre essere compiuto il ritrovamento di un oggetto tra un'infinità di oggetti, ma che tuttavia, senza rischi di errore, ci si può comportare sempre COME SE la scelta fosse stata compiuta. A Weyl potremmo certo concedere che siamo in presenza di un circolo, ma questo circolo non è vizioso: piuttosto, l'uso del TERTIUM NON DATUR è sempre senza pericolo" [141].

In definitiva, il Formalismo si opponeva a tutte le altre correnti filosofiche. Al Kantismo non concedeva l'esistenza degli oggetti matematici e lo accusava di fare metafisica più che matematica [142]. Al Logicismo non riconosceva la priorità della logica sulla matematica [143]. Dell'Intuizionismo non accettava l'esclusione dell'infinito dalla matematica [144]. Citiamo da Mangione e Bozzi uno "sfogo" di Hilbert, in cui non si risparmia nessuno, da Kronecker a Russell: "«la matematica è una scienza senza ipotesi. Per provarlo non ho bisogno di dio, come fa Kronecker, o dell'assunzione di una speciale capacità del nostro intelletto relativa al principio di induzione come fa Poincaré, o dell'intuizione originaria di Brouwer o, infine, come fanno Russell e Whitehead, degli assiomi dell'infinito, di riducibilità, o di completezza, che in effetti sono assunzioni contenutistiche che non possono essere giustificate con una dimostrazione di coerenza»" [145].

 

A questo punto è inutile formulare l'obiezione che il Formalista opporrebbe al Logicista e all'Intuizionista che discutevano qualche pagina indietro, visto che l'ha fatto Hilbert. Diamo invece, ci sembra giusto, la parola al Kantiano. Egli direbbe: "Escludiamo il campo emozionale e le attività materiali da tutto il discorso che segue. La ragione umana si fonda su due intuizioni purissime, quella dello spazio e quella del tempo, e su una capacità innata, la logica. La prima intuizione ci dà la capacità di VEDERE (e non di CREARE) forme nella nostra mente (attraverso le quali classifichiamo gli oggetti esterni), di confrontarle, di ingrandirle e rimpicciolirle come vogliamo. E, badate bene, tutti noi VEDIAMO le stesse cose. Chi di voi ha mai VISTO qualcosa di non euclideo? La seconda ci dà la possibilità di dare un ordine agli eventi della nostra vita, quindi di distinguere una cosa da un'altra. Tramite l'intuizione del tempo ordiniamo anche gli oggetti dell'esperienza sensibile. La logica ci consente di concatenare ed elaborare tutti i dati che il nostro cervello riceve, tanto dall'interno quanto dall'esterno. Le due intuizioni e la logica sono tutte e tre necessarie per compiere ogni attività mentale. Le prime due ci consentono di PERCEPIRE MENTALMENTE, con la terza analizziamo queste PERCEZIONI. La matematica è l'investigazione attraverso la logica delle intuizioni di spazio e di tempo. Queste intuizioni costituiscono pertanto il punto di partenza della matematica. La logica è il mezzo con cui compiamo questa investigazione: essa ci permette di analizzare le caratteristiche degli oggetti che VEDIAMO, e di trarre da esse le deduzioni che VEDIAMO necessarie. Tutte e tre insieme, le due intuizioni e la logica, ci permettono anche di rappresentare le VISIONI della nostra mente con cose materiali. Così la pura intuizione della successione temporale diviene una successione di simboli grafici, i numerali, e l'intuizione spaziale la traduciamo in righe di gesso. Le nostre capacità ci permettono, inoltre, di rappresentare un oggetto dell'intuizione in più modi. Ecco il motivo per cui, ad esempio, i numeri reali possono essere espressi con la teoria delle proporzioni di Euclide, con le successioni di Weierstrass, con le sezioni di Dedekind, ecc., e una retta può essere rappresentata con una "riga dritta", con una successione finita di simboli grafici, con un'onda sonora, ecc. Per compiere queste rappresentazione non basta solo la logica. Sono necessarie anche le due intuizioni. La logica viene esclusa dai fondamenti della matematica perché essa è il mezzo che la matematica utilizza, non un oggetto del suo studio. L'attività che compie il logico matematico ha come oggetto e come mezzo di studio le nostre intuizioni logiche, pertanto è altra cosa della matematica classica. È molto simile ad essa perché il suo oggetto di studio è comunque qualcosa di mentale e innato. Per questi studi però sono necessarie anche l'intuizione temporale (come ha fatto osservare l'Intuizionista a te, Logicista) e quella spaziale. Visto che anche le capacità logiche innate sono diventate, con la nascita della logica matematica, oggetto di speculazione dei matematici, è oggi forse opportuno riconoscere anche la logica come fondamento. Tu Intuizionista che escludi la geometria, sappi che con un ragionamento simile al tuo si potrebbe escludere l'aritmetica. E tu Formalista che svuoti di contenuto la matematica per riempire la metamatematica, non fai altro che spostare il problema. Allo stesso modo potresti svuotare la metamatematica e riempire la metametamatematica, e così via. In conclusione, io credo che gli sviluppi della nostra disciplina potranno indurci ad ampliare i suoi fondamenti, ma mai a ridurli".

 

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Alla fine degli anni venti il dibattito sui fondamenti era diventato un po' più statico. Il Logicismo di Russell fu, delle tre, la dottrina meno seguita. L'Intuizionismo di Brouwer attecchì solo su un gruppo ristretto di studiosi, che intrapresero il lungo e difficile cammino della ROCOSTRUZIONE INTUIZIONISTA di tutta la matematica, svolgendo quindi un percorso parallelo e distinto dal resto della comunità. Il Formalismo di Hilbert, sebbene risultasse a molti FILOSOFICAMENTE ANTIPATICO, era di fatto considerato vincente. Perché il trionfo fosse definitivo era necessaria però la fatidica dimostrazione di coerenza e di completezza di un sistema assiomatico formale che potesse esprimere l'aritmetica. Molti erano i logici che lavoravano per questo. Sembrava che fosse ormai solo questione di tempo. Anche gli oppositori di Hilbert aspettavano. Quella dimostrazione avrebbe comportato l'affermazione del punto di visto formalista. Tutta la matematica si sarebbe modificata. Le dimostrazioni future sarebbero divenute pure manipolazioni di segni. A parte gli Intuizionisti che si erano estromessi anche dalla matematica classica, i Kantiani, i Logicisti e tutti quelli che avevano posizioni intermedie, se pur non fossero stati convinti, neanche da quella dimostrazione, ad accettare il punto di vista formalista, sarebbero stati costretti a convivere con una matematica nuova.

 

Nel 1930 l'allora giovanissimo Kurt Gödel dimostrò la completezza del CALCOLO DEI PREDICATI DEL PRIMO ORDINE, allora chiamato CALCOLO FUNZIONALE RISTRETTO. Dicono Mangione e Bozzi:"[…] è naturale che la dimostrata completezza semantica delle teorie del primo ordine venisse immediatamente riguardata come un'ulteriore conferma della correttezza dell'impostazione hilbertiana nella ricerca sui fondamenti: l'apparato deduttivo formale era in grado di riprodurre fedelmente i rapporti semantici tra proposizione e aveva dalla sua il vantaggio di farlo in termini finitisti, combinatori, senza ricorrere alle pesanti assunzioni insiemistiche che sono ineliminabilmente connesse con i concetti semantici. In altri termini, questo risultato sembrava offrire decisivi argomenti alla convinzione di poter sostituire ad ogni effetto il concetto di DIMOSTRABILITÀ FORMALE a quello di VERITÀ" [146]. Tuttavia, pare che già in quella dimostrazione si intravedessero evidenti segni della irrealizzabilità del programma hilbertiano. Il problema era ancora una volta l'infinito. Stando all'autorevole opinione di Mangione e Bozzi, i metodi dimostrativi utilizzati da Gödel non erano propriamente FINITISTI nel senso che intendeva Hilbert. La questione è molto complessa e richiederebbe un approfondimento tecnico che va ben al di là di un breve resoconto storico come quello che stiamo facendo. Tuttavia riportiamo qualche piccolo brano sempre da "Storia della logica", che, pur non facendo totale chiarezza sulla questione, suggeriscono l'idea generale di quali possano essere i problemi legati alla matematica finitista: "Egli [Gödel] osserva subito [nella dimostrazione di completezza] che l'equivalenza da lui dimostrata tra validità e dimostrabilità […] «contiene per il problema della decisione una riduzione del non numerabile al numerabile, perché “valido” si riferisce alla totalità non numerabile di funzioni [interpretazioni possibili], mentre “dimostrabile” presuppone soltanto la totalità numerabile delle dimostrazioni formali». In altri termini, il teorema mostrava come una nozione come quella di validità veniva SIMULATA da una nozione più dominabile come quella di dimostrabilità" [147]. Poi dicono ancora: "Per Gödel […] le nozioni infinitarie hanno senso, con buona pace di Hilbert, e la dimostrazione di completezza non mostra che esse sono eliminabili, ma solo che esse sono SIMULABILI se ci limitiamo al problema della conseguenza logica" [148]. E più avanti: "Ma altre ragioni c'erano per essere scettici sulla completa eliminabilità dei concetti infinitari. Già da tempo un limite dei linguaggi del primo ordine era stato posto in luce proprio da quel teorema Löwenheim-Skolem che mostrava come ogni teoria del primo ordine con modelli infiniti fosse NON CATEGORICA, ammettesse cioè modelli tra loro non isomorfi. Questo succedeva in particolare per la teoria degli insiemi e per la stessa aritmetica: per la prima lo stesso enunciato del teorema mostrava l'esistenza di modelli NUMERABILI e quindi non certamente isomorfi ad un qualunque altro modello "intuitivo" di questa teoria, che intendiamo ovviamente come più che numerabile; per la seconda lo stesso Skolem costruirà un "modello non standard", cioè non isomorfo alla struttura N dei naturali, in quanto accanto ai numeri naturali contiene "altri" elementi e tuttavia soddisfa tutti gli ordinari assiomi dell'aritmetica. In altri termini, i linguaggi del primo ordine pur se consentivano descrizioni complete delle teorie non riuscivano per così dire a "distinguere" i modelli delle teorie stesse, isolando solo quelli "desiderati". La descrizione di tali modelli non era cioè univoca cosicché se da un lato si disponeva di adeguatezza deduttiva (Gödel) dall'altro rimaneva un ineliminabile inadeguatezza espressivivo-descrittiva (Skolem)" [149].

 

Nel 1931 uscì l'articolo "Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme I" [150] (Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini I) [151] di Gödel, in cui si dimostravano i due seguenti risultati:

1) Il sistema assiomatico formale che si ottiene "aggiungendo alla logica di PM gli assiomi di Peano" e tutti quelli SIMILI (Gödel specifica cosa vuol dire di preciso SIMILI) ad esso sono incompleti, cioè in quei sistemi esistono formule ben formate (che Gödel chiama semplicemente FORMULE) indecidibili, cioè tali che né esse né le loro negazioni logiche risultano dimostrabili in quei sistemi.

 

2) Se tali sistemi fossero coerenti, in essi non sarebbe possibile dimostrare la loro coerenza.

 

3) Tra le formule indecidibili ce ne sono alcune che riguardano l'elementare aritmetica degli interi.

Nonostante Gödel abbia tenuto a precisare, nell'introduzione al suo articolo, che i suoi teoremi non confutano il programma formalista, visto che in linea teorica l'esistenza di dimostrazioni finitiste di coerenza e di completezza DI ALTRO GENERE non si può escludere a priori, i suoi teoremi posero fine alle pretese formaliste di una matematica che si AUTOGIUSTIFICA.

 

Il dibattito sui fondamenti si protrasse per molti anni ancora, ma andò via via scemando, fino ad arrivare ai nostri giorni completamente affievolito.

 

In ogni caso la CRISI DEI FONDAMENTI DELLA MATEMATICA vera e propria può considerarsi chiusa nel 1931.

 

I lavori di Gödel costituiscono dunque la fine del periodo più dinamico e tormentato attraversato dalla filosofia matematica, se si esclude la scoperta delle grandezze incommensurabili da parte dei pitagorici.

 

Sarebbe ingeneroso però vedere Gödel solo da questo punto di vista NEGATIVO. Infatti, al di là dell'indiscusso valore tecnico, la logica gödeliana (che tra l'altro non si limita al lavoro del '31) costituisce un punto nodale di tutta la matematica novecentesca.

 

 

NOTE

 

[1] Con "Kantismo" intendiamo la filosofia che riconosce come fondamenti della matematica le due intuizioni di spazio e di tempo. Sarebbero esse, per questa filosofia, a generare nell'uomo i concetti di misura e quantità, che sono alla base, rispettivamente, della geometria e dell'aritmetica. La matematica sarebbe allora una scienza ipotetico-deduttiva che, come ipotesi, assume queste conoscenze innate. La deduzione sarebbe compiuta secondo precise regole logiche, che il Kantismo riconosce, se pur tacitamente, innate (un esempio di principio logico innato sarebbe il PRINCIPIO DEL TERZO ESCLUSO). Tuttavia le intuizioni logiche non sono riconosciute come "caratterizzanti" la matematica, in quanto esse sono comuni a tutte le scienze, di qualsiasi genere esse siano (ipotetico-deduttive, sperimentali, ecc), a differenza delle intuizioni spaziali e temporali che costituiscono materia di studio esclusivamente della matematica. Questa concezione della matematica fu teorizzata da Kant ma era stata sempre assunta (e mai messa in discussione prima del XIX secolo) più o meno tacitamente, in quanto ritenuta NATURALE. Pertanto useremo il termine "Kantismo" per intendere in senso stretto la filosofia matematica sopra accennata, e non più largamente "il complesso dei principi filosofici di Kant". Nel corso di questo capitolo avremo comunque modo di approfondire l'argomento. 

[2] Quelli che qui abbiamo chiamato "eventi" furono in realtà dei processi articolati che durarono decenni. Forse solo per la scoperta delle geometrie non euclidee si può parlare di "evento" sebbene, come vedremo, anche in questo caso la storia fu piuttosto complessa.

[3] L'inizio dell'ETÀ DEL RIGORE di solito si fa risalire al 1797, anno in cui furono pubblicate "Théorie des functions analytiques" di J. L. Lagrange e "Réflections" di L. Carnot. La sua fine può considerarsi mai avvenuta, in quanto il rigore introdotto non è più stato abbandonato. Comunque, come si dice in M. Borga-F. Furinghetti, "Il problema dei fondamenti della matematica", ECID, Genova 1986, p. 26, "L'analisi è completamente fondata con il corso "Introduzione all'analisi" dell'inverno 1859-60 tenuto all'università di Berlino da Weierstrass".

[4] I "postulati" di Euclide corrispondono a quelli che oggi chiamiamo "assiomi".

[5] H. Wang, a pagina 220 del suo "Dalla matematica alla filosofia", Bollati Boringhieri, Torino 2002, dice: "lo scetticismo sul postulato delle parallele viene spesso attribuito alla difficoltà di raffigurarsi l'estensione infinita della linea retta". In C. Mangione-S. Bozzi, "Storia della logica. Da Boole ai nostri giorni", Garzanti, Milano 1993, p. 25-26, si legge: "…[la proposizione enunciata nel quinto postulato] non ha le stesse peculiari caratteristiche di «evidenza» godute dalle altre quattro: è anzi estremamente probabile che tale fosse anche la convinzione di Euclide, il quale non impiega il postulato in questione se non nella proposizione 29 del libro I […] dopo di che esso diventa anche operativamente una delle basi fondamentali per l'intero sistema".

[6] C. B. Boyer, "Storia della matematica", I.S.E.D.I., Milano 1976, p. 283, 503, 621.

[7] I primi tre erano la quadratura del cerchio, la duplicazione del cubo e la trisezione dell'angolo con riga e compasso.

[8] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 27.

[9] Pare, stando a quel che dice Boyer, che Lobacevskij avesse espresso compiutamente le sue idee già nel 1926 in un'opera scritta in francese ora perduta.

[10] In realtà aveva raggiunto i suoi risultati già nel 1829.

[11] Questa è solo la versione abbreviata del titolo originale, molto più lungo.

[12] Infatti verso la metà dell'800' vennero costruiti dei modelli all'interno della geometria euclidea che RAPPRESENTANO le geometrie non euclidee.

[13] C. B. Boyer, op. cit., p. 623.

[14] Va ricordato che Gauss ricoprì un ruolo importante nella scoperta della geometria non euclidea. A quanto ci dicono gli storici, infatti, pare che nel rispondere al suo amico Farkas Bólyai, padre di Janos, che gli chiedeva un giudizio sulle scoperte di suo figlio, Gauss dichiarò di non poter lodare quel lavoro poiché sarebbe stato come lodare se stesso, visto che aveva raggiunto gli stessi risultati già da anni. Risultati che egli non aveva fatto pubblicare per evitare le "risa dei beoti", in quanto la comunità matematica, a suo parere, avrebbe ritenuto ridicole quelle idee .

[15] C. B. Boyer, op. cit, p. 625.

[16] Ibid,. p. 625.

[17] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 58.

[18] P. Zellini, "La ribellione del numero", Adelphi, Milano 1985, p. 13.

[19] H. Meschkowski, "Mutamenti nel pensiero matematico", Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 37-38.

[20] È certo che la rivoluzione matematica del XIX secolo e le precedenti rivoluzioni scientifiche sono frutto di un'unica grande corrente ideologica che portò alla nascita della scienza moderna. C'è tuttavia una differenza fondamentale che le distingue: la fede religiosa è stata spesso usata dalla Chiesa Cattolica come strumento di potere per la repressione del libero pensiero (il martirio di Giordano Bruno ne è una testimonianza); la fede nell'intuizione matematica, da Pitagora in poi, è stata una delle punte più alte del libero pensiero, e mai ne ha costituito un impedimento. Se mai la matematica è stata vittima del fanatismo religioso (si pensi all'uccisione di Ipazia). 

[21] Naturalmente ci riferiamo solo all'Occidente.

[22] La LOGICA SCOLASTICA la comprendiamo in quella aristotelica.

[23] B. Russell, "Storia della filosofia occidentale", TEA, Milano 2001, p. 203. Un esempio di sillogismo: tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore); Socrate è un uomo (premessa minore); Socrate è mortale (conclusione).

[24] Si veda, a tal proposito, A. Robinson, "Logica matematica", in "Enciclopedia del Novecento", Treccani Roma 1990, III p.1055.

[25] L'uso del termine "psicologia" costituisce un anacronismo.

[26] C. Perelman, "Logica matematica", in "Enciclopedia del Novecento", Treccani Roma 1990, III p.1046.

[27] C. B. Boyer,op. cit.., Milano 1976, p. 467.

[28] Ad esempio Bourbaki in "Elementi di storia della matematica", Feltrinelli, Milano 1963, p.18, dice: "…G. Boole, il quale deve essere considerato il vero creatore della logica simbolica moderna".

[29] E. Agazzi, "Introduzione ai problemi dell'assiomatica", Vita e Pensiero, Milano 1961, p. 10.

[30] C. B. Boyer, op. cit., p.672.

[31] C. Mangione-B. Bozzi, op. cit., p. 132.

[32] Impressionante la somiglianza di questa definizione con quella, successiva, di Russell: "la matematica è un'immensa tautologia". Il fatto strano è che Russell, padre del Logicismo, fu in totale disaccordo su questo punto con Charles S. Peirce (1839-1914), figlio di Benjamin, che invece pare fosse completamente d'accordo col padre.

[33] In C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 19, si dice: "A questa concezione «intuitiva» della geometria come noto darà una perfetta sistemazione teorica Kant. […] Ma Kant, ripetiamolo, vedendo nella geometria un nesso indissolubile tra ragionamento e intuizione, non farà che sistemare filosoficamente una concezione che si era tramandata fin dall'antichità greca per quanto riguarda la natura della geometria come interprete fedele e assoluta della struttura dello spazio fisico".

[34] Da "Al-Jabr", titolo della più importante opera del matematico arabo Al-Khuwarizmi.

[35] Dal termine tedesco "coss" per indicare l'incognita.

[36] Cioè l'uso di lettere dell'alfabeto per indicare le incognite.

[37] La teoria dei numeri interi ci pare non costituisca parte a sé, in quanto i metodi che in essa si usano sono comunque metodi algebrici, o analitici. Si è esclusa la logica matematica poiché essa non è la continuazione di una branca della matematica antica, bensì della filosofia antica.

[38] Espressione coniata da Klein nel 1895.

[39] M. Borga-F. Furinghetti, op. cit, p. 26.

[40] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 274.

[41] Ovviamente non si vuole sostenere che le grandiose innovazioni apportate da Cartesio, Newton e Leibniz si riducono a questo.

[42] L'insieme dei sottoinsiemi di un insieme ha una cardinalità maggiore di quella dell'insieme di partenza.

[43] Va ricordato che un vero e proprio pioniere della teoria degli insiemi fu Galileo che già 250 anni prima di Cantor aveva notato come l'assioma "il tutto è maggiore di una sua parte" non può essere applicato agli insiemi infiniti, visto che nn2 mette in corrispondenza biunivoca i naturali e i loro quadrati.

[44] Riportiamo l'autorevole giudizio di Bourbaki: "è sorprendente il constatare l'eleganza con cui si districano a poco a poco fra le sue mani quelle nozioni che parevano avviluppate inestricabilmente nella concezione classica di "continuo", da Bourbaki, op. cit., p. 42.

[45] Non si riuscirà mai, anche dopo Cantor, a dare una definizione di insieme che non faccia ricorso a nozioni intuitive.

[46] H. Meschkowski, op. cit., p. 59.

[47] C'è chi vede in Kronecker, per il suo categorico rifiuto dell'infinito attuale, un precursore della scuola intuizionista successivamente fondata da Brouwer.

[48] C. B. Boyer, op. cit., p. 655.

[49] D. Hilbert, "Sull'infinito", in C. Cellucci, "La filosofia della matematica", Laterza, Bari 1967, p. 171.

[50] Per essere rigorosi infatti sarebbe più preciso dire ASSIOMATIZZAZIONE FORMALE DELL'ARITMETICA, visto che non è automatico che un sistema logico sia assiomatico e/o formale.

[51] Per la verità, crediamo, sarebbe più corretto dire che l'aritmetica non era stata ESPLICITAMENTE assiomatizzata. Che una assiomatizzazione di qualche tipo venisse tacitamente, forse inconsciamente, adoperata ci pare scontato. Infatti è la logica che, osservando i modi del pensiero umano, cerca di capirne il funzionamento e schematizzarlo, non il pensiero a seguire artificialmente quegli schemi. Certo, è evidente che anche gli studi logici sono parte del pensiero umano, ma sono quella parte del pensiero che riflette su se stesso. Ci pare quindi che alla logica, come PENSIERO DEL PENSIERO, cioè METAPENSIERO, sia in qualche modo riconoscibile questo carattere di POSTERIORITÀ rispetto alla matematica classica. Naturalmente il termine "logica" l'abbiamo qui inteso nell'accezione di "scienza, disciplina", e non di "capacità di ragionamento", la quale potrebbe, è discutibile, "identificarsi" con la matematica (come sostenuto dai logicisti) o comunque costituire una delle capacità innate della mente. Questo tema verrà approfondito nel paragrafo riguardante il Logicismo di Russell  

[52] C. B. Boyer, op. cit., p. 683.

[53] Bourbaki, op. cit., p. 19.

[54] In "Storia della filosofia occidentale", op. cit., p. 790, B. Russell dice: "[…] prima di Frege, ogni definizione di numero che era stata suggerita conteneva elementari errori logici. Rientrava ormai nell'abitudine identificare «numero» con «pluralità». Ma un esempio di «numero» è un determinato numero, diciamo 3, mentre un esempio di 3 è un determinato terzetto. Il terzetto è una pluralità, ma la classe di tutti i terzetti, che Frege identificava col numero 3, è una pluralità di pluralità, e il numero in generale, di cui 3 è un esempio, è una pluralità di pluralità di pluralità. L'elementare errore grammaticale di confondere questo con la pluralità semplice d'un dato terzetto fece sì che tutta la filosofia del numero, prima di Frege, fosse un tessuto di assurdità, nel senso più stretto del termine «assurdità»". Quel che dice Russell è logicamente perfetto. Dire che il "numero" è una classe di classi di classi è esatto. A noi pare, tuttavia, che quando pensiamo al "numero" in generale, non stiamo realmente pensando a una classe di classi di classi, ma a qualcosa di più immediato e al tempo stesso più sfuggevole, difficile da definire. È possibile che noi utilizziamo la definizione fregeana in modo inconscio. Se così fosse, il matematico, al pari dello psicologo, inizierebbe le sue speculazioni dall'analisi della mente umana. Così la matematica sarebbe lo studio di una interiorità condivisa (dagli uomini). È curioso che siamo arrivati a questi ragionamenti, partendo da una definizione di Frege, acerrimo nemico dello psicologismo.

[55] U. Bottazzini, "Il flauto di Hilbert", UTET, Torino 1990, p. 315.

[56] Ibid., p. 317.

[57] Bourbaki, op. cit., p. 19.

[58] Da E. Mendelson, "Introduzione alla logica matematica", Boringhieri, Torino 1981, p.128-129, e da C. B. Boyer, op. cit., p. 684-685, rispettivamente, riportiamo i seguenti passi che dovrebbero giustificare il nostro "abbastanza rigorosa". Mendelson: "Questi assiomi [di Peano], con una data porzione della teoria degli insiemi, si possono usare per sviluppare non solo la teoria dei numeri (naturali), ma anche quella dei razionali, reali, complessi (vedi Landau, 1951). Tuttavia gli assiomi sono espressi in termini di alcuni concetti intuitivi, quali quello di “proprietà”, che non consentono di considerare questo sistema come formalizzato in modo rigoroso". Boyer: "Qui [in "Formulario di matematica"] il metodo assiomatico raggiungeva un grado di precisione mai raggiunto prima, non lasciando adito ad alcuna ambiguità di significato né ad alcuna assunzione tacita".

[59] Gli assiomi di Peano originali erano completamente formalizzati, cioè espressi in simboli. La versione di essi che sotto riportiamo è quella utilizzata da Mendelson, op. cit., 128.

[60] Gli assiomi di Peano erano praticamente uguali a quelli pubblicati nel 1888 da Dedekind in "Was sind und was sollen die Zahlen". A tal proposito ci fu anche una controversia per la priorità ma, anche se Peano ha sempre sostenuto di aver formulato gli assiomi indipendentemente dal tedesco, è certo che fu Dedekind il primo a pubblicarli. In ogni caso la scuola di Giuseppe Peano, che costituisce una delle poche tracce di italianità nella matematica contemporanea, ebbe un ruolo centrale negli studi dell'assiomatica.

[61] C. B. Boyer, op.cit., p. 684.

[62] P. Zellini, op. cit., p. 11.

[63] Ibid., p. 18.

[64] Avremmo potuto dire equivalentemente "logicizzazione della geometria", ma, visto che il suo realizzatore, Hilbert, fu il maggior esponente della scuola "formalista", ci è sembrato più evocativo il termine "formalizzazione".

[65] C. B. Boyer, op. Cit., p. 698-699.

[66] C. B. Boyer, op. cit., p. 699.

[67] Ibid.

[68] E. Agazzi, op. cit., p. 36.

[69] È ovvio che da un punto di vista meramente linguistico l'arbitrarietà c'è. Ad esempio una pagina di matematica scritta in tedesco e tradotta in arabo non conterrà le stesse parole dell'originale, ma affermerà gli stessi concetti. Se inventassimo una nuova lingua in cui le parole italiane punto, retta, piano fossero tradotte con tavolo, sedia, boccale di birra, è evidente che sarebbe una cosa sensata dire che "una sedia giace su un boccale di birra". Con la sua frase Hilbert non intendeva certo sostenere la lapalissiana arbitrarietà linguistica in matematica (sostenerla ad esempio nella poesia lirica sarebbe più rischioso).  

[70] E. Agazzi, op. cit., p. 37

[71] Il primo Congresso si era tenuto a Zurigo nel 1897.

[72] Noi indicheremo, come si è soliti fare, l'n-esimo problema di Hilbert con "Hn".

[73] La non contraddittorietà è detta anche COERENZA. Noi useremo in modo equivalente le due espressioni.

[74] Anche Hilbert, come Kant, era nato a Königsberg.

[75] E. Casari, "Dalla logica alla metalogica", Sansoni, Firenze 1979, p.13.

[76] Russel aveva cominciato ad interessarsi alla logica matematica dal congresso del 1900, dove era stato impressionato dalla chiarezza espositiva di Giuseppe Peano e dei suoi allievi.

[77] Noi considereremo sinonimi "antinomia"e"paradosso", anche se non lo sono propriamente.

[78] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 357.

[79] C. B. Boyer, op. cit, p. 704.

[80] I paradossi di seguito elencati sono stati ripresi da E. Mendelson, op. cit., p. 10-11-12. Anche la distinzione tra paradossi logici e semantici è di Mendelsonn. I passi citati letteralmente sono virgolettati. Per una trattazione rigorosa degli studi sui paradossi si rimanda a F. R. Barbò, "L'antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo", Vita e Pensiero, Milano 1964.

[81] Pare, stando a quel che dice Bottazzini, op. cit., p. 392, che il paradosso di Russell, fosse stato scoperto in precedenza da Zermelo e da Hilbert, e che se ne fosse discusso negli ambienti di Gottinga.

[82] Il paradosso del mentitore è molto simile, anche se non proprio equivalente, al PARADOSSO DEL CRETESE, conosciuto fin dall'antichità. Il filosofo cretese Epimenide affermava: "tutti i cretesi sono mentitori". Se Epimenide diceva la verità, allora, essendo egli cretese, mentiva. Se mentiva, deve esserci al meno un cretese che non mente. Questo, comunque, non è logicamente impossibile.

[83] U. Bottazzini, op. cit., p. 392. Molti storici riferiscono, come Bottazzini, che Frege tralasciò, dopo il 1902, lo studio dei fondamenti della matematica. A onor del vero, però, va detto che ci sono anche voci discordanti sul presunto abbandono di Frege della filosofia matematica. Come segnalatoci dal Prof. Umberto Bartocci, una di queste autorevoli voci discordanti è il Prof. Imre Toth, il quale sostiene che, dopo il 1902, Frege criticò vivamente la tendenza riduzionista delle scuole matematiche di Berlino e di Gottinga, definendola come il sintomo di un "morbus mathematicorum recens" dal quale egli, evidentemente, era guarito. 

[84] Ibid.

[85] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 381.

[86] Ibid., p. 385.

[87] Bourbaki, op. cit., p. 46.

[88] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 386. A noi pare comunque (e l'abbiamo segnalato) che nella definizione cantoriana di insieme ci sia un preciso riferimento all'intuizione. In questo caso dunque ci permettiamo di non essere d'accordo con Poincaré, o almeno con la versione che Mangione e Bozzi danno del pensiero di Poincaré.

[89] Fino al 1897 la posizione di Russell non era ancora delineata, anzi, come ci dicono Mangione e Bozzi in op. cit., p. 411: "La posizione di partenza di Russell in questo scritto ["An essay on the foundation of geometry" (Saggio sui fondamenti della geometria, 1897)] è «kantiana», nel senso che – pur con le dovute distinzioni sulle quali sarebbe qui superfluo insistere – egli vuole difendere quell'apriorità della geometria euclidea (ossia la sua necessità per l'esperienza dello spazio) che la scoperta delle geometrie non euclidee da una parte e la costituzione autonoma della geometria proiettiva dall'altra avevano come sappiamo messo in discussione". È certo comunque che in età matura Russell non è stato kantiano in alcun modo. Nella sua "Storia della filosofia occidentale", op. cit., p. 686, parlando della "Critica della ragion pura" dice con la consueta ironia: "Il quarto argomento metafisico, vuol dimostrare soprattutto che lo spazio è una intuizione, non un concetto. La sua premessa è: «Lo spazio è immaginato [o è presentato, "vorgestellt"] come un'infinita dimensione DATA». Questo è il punto di vista d'una persona che vive a Königsberg [città natale di Kant]; non vedo come l'abitante d'una valle alpina potrebbe adottarla".

[90] Citiamo l'inizio dei "Principi della matematica", Longanesi, Milano 1963, p. 35: "La matematica pura è la classe di tutte le proposizioni aventi la forma “p implica q”, dove p e q sono proposizioni contenenti una o più variabili, le stesse nelle due proposizioni, e né p né q contengono alcuna costante eccetto le costanti logiche".

[91] In seguito anche nei "Principia" sono state scovate "assunzioni tacite". A testimonianza di ciò citiamo un piccolo passo da Kurt Gödel, "La logica matematica di Russell", in K. Gödel, "Opere", Boringhieri, Torino, vol. II, p. 125: "Ciò che soprattutto manca è una precisa enunciazione della sintassi del formalismo; considerazioni sintattiche sono omesse anche in casi in cui sarebbero necessarie per la cogenza delle dimostrazioni, in particolare in connessione con i "simboli incompleti"".

[92] Per Russell, comunque, gli assiomi non sono arbitrari. Però ad essi si riconosce un valore di VERITÀ diverso da quello riconosciuto alle regole di derivazione: la verità degli assiomi dipende dall'esperienza sensibile, quella degli schemi logici è assoluta, fuori dallo spazio e dal tempo. E. Agazzi, op. cit., p. 106, dice: "[…] i LOGICISTI pensavano l'esistenza dei numeri naturali come un'ipotesi circa il mondo dell'esperienza, per cui ad esempio i "Principia Matematica" offrono un'assiomatica intuitiva, e gli assiomi sono posti come qualcosa da essere creduto, o per lo meno accettato come affermazione plausibilmente vera […]". Per Russell riconosciamo "giusti" certi assiomi perché viviamo in questo mondo e possediamo questi organi sensoriali. In altre parole, egli dice: se per qualche strano motivo (magari un esperimento) si facessero nascere e vivere (senza alcun contatto con l'esterno) degli uomini in un universo artificiale con caratteristiche diverse dal nostro (ad esempio una sfera di vetro molto strana, ecc), e magari a questi uomini fosse modificato, o escluso, qualcuno dei cinque sensi, sarebbe possibile che essi sviluppassero una scienza che studia le figure in cui non esistono due rette parallele, ma non sarebbe mai possibile che essi non riconoscessero una tautologia del tipo ( a a ) → a. 

[93] K. Gödel, "La logica matematica di Russell", in K. Gödel, "Opere", Boringhieri, Torino 1999, vol. II, p. 126

[94] B. Russell, "Introduzione alla filosofia matematica", Longanesi, Milano 1963, p. 310.

[95] Ibid., p. 314 e p. 326.

[96] B. Russell, "Storia della filosofia occidentale", op. cit., p. 686.

[97] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 392.

[98] È chiaro che i discorsi di Tizio e Caio possono essere visti come applicazioni di schemi astratti diversi da quelli che abbiamo dato. L'arbitrarietà di questi schemi dipende dall'arbitrarietà della scelta dei significati delle lettere a, b, c; cioè da quanto fine sia la scissione di un evento in eventi elementari. Pur senza pretesa di esattezza, gli schemi dati dovrebbero rendere bene l'idea generale.

[99] H. Wang, in op. cit., p. 115.

[100] Come Russell fa quando analizza il sillogismo classico «tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, quindi Socrate è mortale» nella frase citata sopra.

[101] Crediamo che Russell stesso sia contraddittorio su questo argomento. Nella frase più volte citata su Kant e Königsberg sostiene che gli enti geometrici (quindi matematici) ci sono suggeriti dall'esperienza. Citiamo ora una frase in cui sostiene esattamente il contrario, tratta da "Storia della filosofia occidentale", op. cit., p. 792: "La conoscenza matematica, è vero, non si ottiene per induzione partendo dall'esperienza; il motivo per cui crediamo che 2 e 2 facciano 4 non dipende dall'aver noi frequentemente osservato che una coppia insieme a un'altra coppia costituiscono un quartetto. In questo senso, la conoscenza matematica non è empirica. Ma non è neppure una conoscenza "a priori" intorno al mondo. È, in realtà, una conoscenza puramente verbale. «3» significa «2+1», e «4» significa «3+1». Ne consegue (la dimostrazione è lunga) che «4» vuol dire la stessa cosa di «2+2». Così la conoscenza matematica cessa di essere misteriosa. È esattamente della stessa natura della «grande verità» che ci sono tre piedi in una yard".

[102] H. Putnam, "Matematica, materia e metodo", Adelphi, Milano 1993, p. 48.

[103] A. Church, "Matematica e logica", in C. Cellucci, "La filosofia della matematica", op. cit., p. 143.

[104] Abbiamo già evidenziato le contraddizioni di Russell su questo argomento. Ci pare comunque che egli abbia spesso sostenuto, e mai tentato di negare, il carattere empirico della conoscenza degli enti geometrici primitivi.

[105] È possibile che Russell faccia una distinzione tra i concetti geometrici e quelli aritmetici, e consideri i primi derivanti dall'esperienza sensibile e i secondi una pura "conoscenza" verbale. Di questo, comunque, non siamo affatto sicuri. 

[106] A. Church, op. cit., p. 149.

[107] Ibid., p. 150.

[108] Gli enti primitivi, da cui iniziare la costruzione di tutta la matematica, erano dettati dall'intuzione. Nel seguito tratteremo la natura di questi ultimi un po' più approfonditamente.

[109] B. Boyer, in op. cit., p. 703, riferisce che Brouwer "[…] chiedeva ai formalisti se fosse vero o falso che “la successione 123456789 compare in qualche punto della rappresentazione decimale di π”. Poiché non esiste nessun metodo per decidere in merito, non è possibile applicare qui la legge del terzo escluso e affermare che tale proposizione è vera o falsa". Per una trattazione rigorosa del rifiuto intuizionista del principio del terzo escluso si rimanda a A. N. Kolmogorov, "Sul principio del terzo escluso", in E. Casari, "Dalla logica alla metalogica", op. cit., p. 167-194. Una possibile obiezione al ragionamento con cui Brouwer confuta la validità universale del principio del terzo escluso potrebbe essere la seguente: come si fa ad escludere a priori che non esiste un metodo di carattere algebrico o geometrico, diverso dal brutale metodo della "costruzione-ricerca", che dimostri che la successione di cifre 123456789 è necessariamente presente (o necessariamente assente) nella rappresentazione decimale di π? E se si dimostrasse, ad esempio, che la cifra 9 non può comparire dopo la successione 12345678? Un'altra obiezione pertinente potrebbe essere quella di seguito. Brouwer dice di aver dimostrato che: "il principio del terzo escluso non è universalmente valido". La sua dimostrazione sarebbe la seguente: "i casi sono 2: a) il principio del terzo escluso è universalmente valido; b) il principio del terzo escluso non è universalmente valido. Se per assurdo fosse vera a) si dovrebbe poter decidere se la successione 123456789 compare nella rappresentazione decimale di π. Poiché questo non è possibile" - per Brouwer - "a) deve essere falsa. Allora, per il principio del terzo escluso segue che deve essere vera b), cioè il principio del terzo escluso non è universalmente valido". Un corollario immediato del precedente ragionamento è che "le tesi dimostrate utilizzando il principio del terzo escluso non possono essere accettate". Da questi due ragionamenti segue che la tesi del primo non può essere accettata, cioè che "la tesi che il principio del terzo escluso non è universalmente valido non può essere accettata". Il ragionamento di Brouwer, a nostro parere, è in qualche modo "circolare", così come lo sono molti paradossi: egli utilizza il principio del terzo escluso per dimostrare che il principio del terzo escluso non può essere accettato come metodo dimostrativo. La "circolarità" sarà presente (ma questa volta volutamente) anche nel teorema di Gödel.   

[110] Si pensi ad esempio a Kronecker.

[111] Molta della matematica classica è stata ricostruita con i metedi intuizionistici.

[112] E. Casari, "Dalla logica alla metalogica", op. cit., p.27.

[113] L. E. Brouwer, "Fondamenti storici, principi e metodi dell'intuizionismo", in C. Cellucci, "La filosofia della matematica", op. cit., p. 226-227. Questo articolo è una traduzione parziale da "Historical Background, Principles and Methods of Intuitionism", in «South African Journal of Science», vol. 49 (1952), f3-4, p. 139-143. © 1952 South Association for the Advancement of Science.

[114] Ibid., p.229-230.

[115] M. Borga-F. Furinghetti, op. cit., p. 92.

[116] Per quel che riguarda i precursori di Brouwer va ricordato Nicolaewich Kolmogorov. Come ci dice E. Casari, "Dalla logica alla metalogica", op. cit., p. 23, "in un penetrante studio sul principio del terzo escluso [del 1903], questi era infatti arrivato alla costituzione di un sistema formale che egli riteneva rispecchiasse adeguatamente le idee logiche brouweriane".

[117] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 385-386.

[118] Ibid., p. 389.

[119] A. Heyting, "L'intuizionismo in matematica", in C. Cellucci, "La filosofia della matematica", op cit., p. 250.

[120] La relatività speciale di Einstein è del 1905.

[121] A. Heyting, op cit., p. 251.

[122] Quest'espressione è stata coniata da M. Kline nel titolo del suo libro "Matematica: la perdita della certezza", Mondatori, Milano 1985.

[123] D. Hilbert, "Sull'infinito", in C. Cellucci, "La filosofia della matematica", op. cit., p. 171.

[124] Quel che Hilbert intendeva con metodi FINITISTICI è "più o meno" quel che abbiamo detto. Alcuni particolari tecnici di questi metodi sono stati (e sono ancora) oggetto di controversie.

[125] D. Hilbert, "Axiomatisches Denken", in "Mathematische Annales", LXXVIII, 1918, p. 405-415.

Le informazioni sugli sviluppi storici della Beweistheorie, e le indicazioni bibliografiche sui discorsi tenuti da Hilbert tra il 1917 e il 1928 (compresa quella presente in questa nota), sono tutte tratte da E. Casari, Dalla logica alla metalogica, op. cit., p. 14.

[126] D. Hilbert, "Neubegründing der Mthematik (Erste Mitteilung)", in "Abhandlungen aus dem Seminar der Hamburgischen Universität", I, 1922, p. 157.177.

[127] D. Hilbert, "Die logischen Grundlagen der Mathematik", in "Mathematische Annalen", LXXXVIII, 1923, p. 151-165, tradotto parzialmente in E. Casari, "Dalla logica alla metalogica", op. cit., p. 67-78.

[128] D. Hilbert, "Über das Unendliche, in Mathematische Annalen", XCV, 1926, p. 161-190, tradotto parzialmente in C. Cellucci, "La filosofia della matematica", op. cit., p. 161-184.

[129] D. Hilbert, "Die Grundlagen der Mathematik", in "Abhandlungen aus dem mathematischen Seminar der Hamburgischen Universität", VI, 1928, p. 65-85.

[130] D. Hilbert, "Probleme der Grundlegung der Mathematik", in "Atti del Congresso internazionale dei matematici 3-10 settembre 1928", Bologna, 1929, vol. I, p. 135-141.

[131] Le definizioni di "formula ben formata" e di "assioma" in un sistema formale sono date qualche riga sotto.

[132] Se ne deduce che un ASSIOMA è una FORMULA DIMOSTRABILE poiché è una successione di formule di lunghezza 1, tale che il suo unico elemento, se visto come il primo della successione è un ASSIOMA, se visto come l'ultimo è la FORMULA DIMOSTRABILE.

[133] Il problema della completezza è stato sollevato in modo compiuto da Hilbert al Congresso di Bologna del 1928, anche se ne parlava già in "Grundzuge der theoretischen Logick", sempre nel 1928.

[134] I sistemi assiomatici formali in quanto tali sono uno strumento matematico e logico potentissimo. Se però questi sistemi fossero costruiti con il solo scopo di ricostruire formalmente una parte della matematica, per poi conferire valore di verità matematica a ciò che è dimostrabile nel sistema, e nello stesso tempo si riconoscesse oggettivo il concetto di verità matematica, non v'è dubbio che ci troveremmo di fronte a un circolo vizioso.

[135] Come osserva E. Agazzi, in op. cit., p.95, questa definizione di completezza è sensata solo in quei sistemi formali in cui sia definita un'operazione di negazione logica. Per maggiori dettagli si rimanda al testo di Agazzi.

[136] E. Casari, Dalla logica alla metalogica, op. cit., p. 14-15.

[137] E. Agazzi, op. Cit., p. 42, 43, 44.

[138] D. Hilbert, "I fondamenti della matematica", in E. Casari, "Dalla logica alla metalogica", op. cit., p.67.

[139] Ibid.

[140] Ibid., p. 68, 69.

[141] Ibid., p. 76.

[142] Scrivono Mangione e Bozzi, in op. cit., p. 518, 519:"Il massimo tribunale posto a giudicare la correttezza (non, si badi bene, la fecondità) dei nostri comportamenti deduttivi è l'assenza di contraddizione: pena lo scadere in una vuota metafisica, è necessario concedere, secondo Hilbert, che una volta che una nozione sia stata introdotta e non porti a contraddizione tale nozione è acquisita per la matematica e si può fare COME SE essa avesse una realtà oggettiva […]".

[143] In Mangione-Bozzi, op. cit., p. 519, leggiamo: "Hilbert accetta quindi un primo principio direttivo, secondo il quale, in accordo con Kant, «la matematica dispone di un contenuto certamente indipendente da ogni logica e non si può quindi assicurarle una fondazione con i soli mezzi della logica»".

[144] In Mangione-Bozzi, op. cit., p. 519, leggiamo: "[…] secondo Hilbert, malgrado scienze naturali quali la fisica, o matematiche come la geometria, portino alla conclusione probabile che la realtà è finita, tuttavia ciò non toglie che «l'infinito abbia un posto ben giustificato nel NOSTRO PENSIERO» e quindi assuma l'aspetto di concetto indispensabile".

[145] Mangione-Bozzi, op. cit., p. 525.

[146] C. Mangione-S. Bozzi, op. cit., p. 561.

[147] Ibid., p. 558, 559.

[148] Ibid., p. 562, 563.

[149] Ibid., p.562, 563.

[150] Quel "I" è dovuto all'iniziale intenzione di Gödel di pubblicare successivamente una seconda parte dell'articolo, in cui avrebbe dato le dimostrazioni rigorose di alcuni teoremi, tra cui anche quello di indimostrabilità della coerenza, che sono solo accennate. In realtà egli non pubblicò mai questa seconda parte. Gli storici e i biografi di Gödel attribuiscono tale mancata pubblicazione al successo con il quale fu accolto il primo articolo, che avrebbe, come dire, reso SUPERFLUO tornare ancora sull'argomento. In ogni caso rimangono molti dubbi sulle vere motivazioni che indussero il logico a non dare le versioni DEFINITIVE delle sue dimostrazioni.

[151] La prima traduzione in italiano dei teoremi di Gödel è apparsa in E. Agazzi, op cit., p. 203-228. Le altre traduzioni di cui noi siamo a conoscenza si trovano in S. G. Shaker, "Il teorema di Gödel. Una messa a fuoco", Franco Muzzio Editore, Padova 1991, p. 21-62; e in K. Gödel, "Opere", op. cit., vol. I, p. 113-138.

 

 

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