La bufala
dell'universo in espansione
- a cura di Nereo Villa -
L'arte di mentire agli altri poggia sull'arte di mentire a se stessi. Nell'"artificio", la necessità di menzogna è anelito del sub-umano a trasformarsi in bigottismo scientifico etero-gestito da nuova lingua, profeticamente preannunciata nel romanzo del 1948 di George Orwell intitolato "1984" come avvento del doppio pensiero o "bipensiero". Da varie branche della scienza contemporanea, soprattutto einsteiniana, il fenomeno della doppiezza che "copre" i fenomeni attraverso pensieri che non vi corrispondono è divenuto la norma steganocratica (dal greco "stéganos", "copertura") del neo-scriba e del neo-fariseo, denominati dal Cristo "razza di vipere". L'antico praticava il conformismo religioso, il moderno ha cambiato pelle, e pratica il conformismo scientifico, massimamente supportato dalla cultura dell'obbligo di Stato. Lo studente si attiene alla norma occulta (o steganocrazia) perché vede che la menzogna paga, cioè rende buoni voti, dato che così funziona il mondo. Lo scritto seguente, da me curato, è un'eccezione alla regola di questa civiltà della menzogna e fa capo a "IL CODICE CELESTE" di un vero scienziato, Alberto Bolognesi, studioso di cosmologia, astrofilo e operatore in diverse ricerche professionali sui quasar e sulle galassie attive. Ho rimosso dall'articolo alcuni pezzi relativi a Kant, che reputo inessenziali ai fini della comprensione dei suoi contenuti, anche perché sugli errori di pensiero di Kant mi sono già espresso (si veda per esempio la "Favola del lupo Pino"). Ecco comunque il testo originale di Alberto Bolognesi: http://digilander.libero.it/VNereo/La-teoria-dell-universo-in-espansione-non-sta-in-piedi-(A.Bolognesi).pdf per chi voglia confrontarlo col seguente. Consiglio questo suo studio non solo agli esperti (o ai bigotti della "fede scientifica" o del conformismo e/o convenzionalismo scientifici) ma anche a chi è novizio di astrofisica. "Quasar", "redshift, "espansione del cosmo", "multiverso", "big bang", "materia oscura", energia oscura", ecc., sono la "neolingua" di molte menzogne che tutti dovrebbero conoscere per l'affermarsi della conoscenza scientifico-spirituale auspicata da Giordano Bruno, arso vivo nel 1600 a Roma... Buona lettura.
Nereo Villa, Castell'Arquato 6 novembre 2017
La teoria non regge
Il monumento al creazionismo assoluto, la teoria del Big Bang, suppone che 14
miliardi di anni fa non ci fosse nemmeno il cielo. Non c'era alcuno spazio,
alcuna estensione preesistente, nemmeno uno spazio topologico che potesse
contenere anche un solo atomo di idrogeno. LA
MATERIA COSMICA, COSÌ COME LO SPAZIO E IL TEMPO SAREBBERO STATI ASSOLUTAMENTE
CREATI DALL'ESPLOSIONE INFINITAMENTE CALDA E DENSA DI UN PUNTO DI RAGGIO ZERO
CHE PRECEDENTEMENTE NON ESISTEVA:
bomba perfetta e auto-contenuta della genesi che, almeno nelle sue fasi iniziali
si sarebbe propagata dall'interno di se stessa a velocità infinita. E l'universo
fu.
Questa bufala termodinamica celebrata come una scoperta scientifica e inculcata
fin dalle scuole elementari è condivisa oramai da ogni branca del sapere
istituzionalizzato, dalla fisica alla chimica, dalla matematica alla filosofia,
dall'astronomia alla biologia. È la leggenda metropolitana della Creazione e al
tempo stesso la Magna Charta dell'inciucio accademico-cosmologico, che grazie ad
un'efficientissima autoreferenzialità ha potuto gestire immense quantità di
danaro pubblico e decuplicare il numero degli abilitati alla ricerca. È pur vero
che i salari, almeno all'inizio, si collocano poco al di sopra della soglia di
povertà ma, come ha rilevato Al Gore, "trent'anni fa gli astronomi nel mondo non
erano che una sparuta e improbabile schiera mentre oggi sono legioni di decine
di migliaia".
Dopotutto, Stephen
Hawking, il leader indiscusso dei Buchi Neri, afferma a questo proposito:
"Quello che si pretende da una teoria scientifica non è di essere vera o falsa,
ma di funzionare". Insomma, dopo un'epopea di rivoluzioni copernicane e di
revisioni critiche che avevano fatto balenare la certezza che alcuni errori non
si sarebbero ripetuti mai più, la Tecnocrazia del terzo millennio, dopo avere
"conquistato" la Luna e lanciato fantascientifiche sonde nello spazio, ha deciso
d'ufficio che le teorie furono tutte scoperte scientifiche e che perfino "lo
spaziotempo curvo" era una sostanza fisica vera e propria, esplosa dal nulla
assieme a tutte le altre forze della natura al momento del Big Bang. Il Cosmo è
diventato un avvenimento storico databile e cronometrabile, al di là del quale
non c'è più niente da scoprire!
Se qualcuno sul pianeta ha ancora in animo le sorti della scienza e della
ricerca astronomica, c'è per lui un interessante sondaggio effettuato di recente
in Italia su un campione di studenti quindicenni che accedono alle scuole medie
superiori. Il 62% di questi alunni non conosce il motivo che determina
l'avvicendarsi del giorno e della notte, ma quasi l'80% del campione sa che
l'universo
esiste "perché c'è stato il Big Bang".
Questo fatto proietta qualche ombra inquietante sugli insegnanti di astronomia sferica di base. I cosmologi possono comunque ritenersi soddisfatti, dato che la grande maggioranza dei giovani intervistati sa come ha avuto origine l'universo (il che implica fra l'altro raffinate nozioni di cinematica, di geometria e di spettroscopia)!!!
Al di là dell'ironia, resta vero che la sfida della globalizzazione ha prodotto
effetti aberranti e discipline essenzialmente congetturali come la Cosmologia,
favorendo l'uso selvaggio del fudge factor (fattore fandonia, bufala,
scienziaggine, ecc.) e dei "parametri liberi". Ne è sorta tutta un'evanescente
iconografia di stereotipi e di pseudoconcetti universali ("Big Bang", "origine
del cosmo", "multiverso", "espansione del vuoto", "accelerazione dello spazio",
"radiazione fossile", "materia oscura, energia oscura", ecc.) che vengono
parificati a scoperte scientifiche e che poi la fisica, la microfisica, la
biologia, le scienze naturali ma anche la filosofia e la stessa epistemologia
(!) sono costrette ad assumere acriticamente da posizioni subalterne. "Sono
tutte cagate pazzesche", direbbe Fantozzi con ragione.
L'introduzione forzosa di un'"origine" della materia (Big Bang) ha generato una
vera e propria sospensione del metodo scientifico e indotto a una "matrix"
incontrollata di soluzioni cosmologiche completamente arbitrarie. Per chi cerca
insegnamenti a partire dalla considerazione che quanto più grande è l'errore
tanto più difficile diventa ammetterlo, resta un'esperienza sconvolgente che al
di là di una certa soglia l'ammissione diventi impossibile.
L'effetto Slipher e l'inverosimile scoperta dell'espansione dello spazio
Ripetere una cosa non la trasforma in una scoperta, e ribadirla per altri
mille anni non la farà diventare vera. La storia della "scoperta"
dell'espansione dell'universo ha una logica così tormentata e uno sviluppo così
inverosimile che se l'astrofisica attuale fosse ancora quel rispettabile
magistero dei tempi di Hubble, non solo la "scoperta" non sarebbe mai stata
avallata (in effetti non fu mai rivendicata da nessuno), ma alla luce delle
successive osservazioni astronomiche avrebbe dovuto essere dichiarata
sperimentalmente "falsificata" e quindi smentita. Il commento dello stesso
Hubble diciotto anni dopo l'annuncio sensazionalistico del New York Times "We
live in an expanding universe" ("Viviamo
in un universo in espansione")
è illuminante: "It seems likely that redshift may not be due to an expandin
universe, and much of the speculations on the structure of the universe may
require re-examination" (E. Hubble, P.A.S.P. 1947) ("SEMBRA
PROBABILE CHE IL REDSHIFT POSSA NON ESSERE DOVUTO A UN UNIVERSO IN ESPANSIONE, E
MOLTE DELLE SPECULAZIONI SULLA STRUTTURA DELL'UNIVERSO DOVREBBERO ESSERE
RIVISTE").
Tutto incomincia nel Novecento, quando la spettroscopia diventa prassi della
ricerca astronomica e viene applicata a quegli oggetti estesi, definiti come
"nebulose a spirale", la cui natura e collocazione attendeva ancora di essere
compresa. Il rilievo è forse un po' ingiusto perché a dispetto di autorevoli
prese di posizione, alcuni ricercatori già avevano operato la distinzione fra
nubi gassose e grandi isole stellari parteggiando apertamente per una
collocazione esterna di queste ultime alla Via Lattea. È facile dire oggi che il
problema era essenzialmente strumentale dal momento che a quel tempo la
risoluzione in stelle non era alla portata dei telescopi ottici se non per la
grande spirale in Andromeda: è vero infatti che alcune nebulose propriamente
dette hanno forme ellittiche e spiraliformi talvolta così ben definite che senza
un'analisi spettroscopica sarebbero sempre in grado di imbarazzare anche un
astronomo esperto.
Nel Novecento erano finalmente gli strumenti materiali ad avere il coltello
dalla parte del manico. Le prime analisi spettroscopiche furono quelle
effettuate da Vesto Melvin Slipher (1875-1969), un metodico astronomo
dell'Indiana che lavorava presso il Lowell Observatory di Flagstaff in Arizona.
Ai tempi di queste prime misurazioni di Slipher, gli astronomi avevano già
imparato a determinare gli effetti Doppler conseguenti ai moti casuali di
avvicinamento e di allontanamento delle singole stelle e quello periodico delle
stelle doppie: e si attendevano di poter stabilire proprio attraverso queste
analisi-bufala le dinamiche tipiche di un'altra bufala, quella della nebulosa
primordiale teorizzata nel Settecento da Kant e da Laplace.
Slipher ottenne gli spettri di un piccolo campione di "nebulose spiraliformi".
Vi riconobbe, sì, le evidenze della rotazione, come si attendeva, ma constatò
anche un inatteso spostamento della posizione tipica dei dettagli energetici
verso la zona rossa dello spettro
elettromagnetico. Con la sola eccezione della spirale in Andromeda che esibiva
un rilevante moto di avvicinamento, le tredici "nebulose" da lui selezionate
avevano imponenti "slittamenti" delle configurazioni spettrali verso le grandi
lunghezze d'onda, che in qualche caso avrebbero comportato "velocità di fuga"
intorno ai duemila chilometri al secondo! Relative o assolute, velocità del
genere per oggetti materiali così estesi sembravano al di là di ogni
immaginazione: "qualcosa in grado di coprire distanze superiori ai due milioni
di miglia all'ora..." borbottò Slipher sconcertato alla platea dell'American
Astronomical Society del 1914.
Slipher, va riconosciuto, faceva le sue ricerche preliminari con un telescopio
di 60 centimetri di apertura e determinava i suoi spettri lavorando
esclusivamente sulle righe violette di assorbimento H e K e del calcio ionizzato
che riusciva a fotografare. Continuò a prendere spettri e a stimare "velocità"
di altre spirali per i dieci anni successivi. Finì poi per collaborare con
Hubble.
L'effetto Hoyle
È rilevante notare che già al tempo delle prime misurazioni di Slipher, dietro
le orme degli errori di Kant e di Laplace, venivano delineandosi tutte le
tematiche che avrebbero prodotto la cosiddetta "cosmologia deduttiva moderna".
Tali tematiche erano essenzialmente quattro includendovi anche la meno gradita,
quella secondo cui gli elementi della tavola periodica avrebbero potuto non
coincidere necessariamente con quelli del lontano universo.
La prima soluzione più invitante pareva di gran lunga quella di una recessione
sistematica delle galassie, le une dalle altre, assimilabile all'effetto Doppler
secondo una dinamica che evocava un'espansione cosmica e che suggeriva un
aumento costante del raggio dell'universo. Ancor prima che gli astronomi
scoprissero l'esistenza dei modelli teorici del meteorologo russo Friedman (che
li aveva elaborati intorno al 1918) all'oscuro dell'effetto Slipher, e che
dunque aveva mancato la clamorosa predizione di un redshift sistematico verso il
rosso di tutti gli oggetti cosmici), fu facilmente intuito che se le galassie si
allontanavano radialmente le une dalle altre, doveva esserci stato un tempo nel
lontano passato in cui erano state invece vicinissime, così vicine che tutta la
materia dell'universo avrebbe potuto trovarsi concentrata in un sol blocco. Già
prima del 1920 era subito balenato che il cosmo avrebbe potuto avere un "inizio"
e proprio per questo un'origine storica che forse era perfino possibile datare
sperimentalmente.
La seconda soluzione, sicuramente più radicata nell'epistemologia del momento e che assegnava infinità spaziale e temporale all'universo, rendeva increata e indistruttibile la materia cosmica. Inoltre non ammetteva facilmente che da rilevazioni in fin dei conti locali si potessero estrapolare decisioni sull'universo nella sua globalità.
Lo stesso Einstein che
era permeato di questi fondamenti, non ci si adattava, pur ricavando la sua
rivoluzionaria Teoria (1917) da un universo increato e imperituro,
essenzialmente statico. In questo secondo scenario furono soprattutto i
contributi di Max Born,
Walter Nernst e Findlay-Freundlich fra gli altri, a suggerire la possibilità che
il fenomeno misterioso dell'arrossamento spettrale delle nebulose derivasse da
meccanismi di assorbimento o di decadimento energetico della radiazione
luminosa. La divulgazione ha sempre trascurato di ricordare le attenzioni di
Hubble, Lundmark, Campbell e poi Zwicky e tanti altri verso questa soluzione
alternativa della "luce stanca", che sembrava aggredire l'intangibile principio
di conservazione. Ma già ai tempi delle osservazioni pionieristiche di Slipher,
la "tired light" ("luce stanca") comprendeva una possibile variante che invece
di considerare l'assorbimento energetico della propagazione elettromagnetica
nell'attraversamento del mezzo cosmico, contemplava la possibilità che il
tempo, cioè "l'antichità della radiazione luminosa" operasse su scala cosmica
un'azione progressiva e sistematica di dispersione energetica.
Un'altra congettura del tutto indipendente dall'effetto Doppler o dalla "luce stanca" si ispirava alle scoperte di Frederik Soddy che, nel 1913, immaginò l'esistenza di un numero pressoché illimitato di"isotopi" nell'universo. Questa possibilità dal sapore un po' metafisico e che prospettava una tavola periodica infinita anticipava in realtà l'ipotesi di uno spostamento verso il rosso intrinseco in un universo statico, che verrà abbozzata da Fred Hoyle agli inizi degli anni Settanta e poi in seguito riformulata assieme all'astrofisico indiano Jayant Narlikar all'interno del modello cosmologico in espansione dello Stato Stazionario. Si tratta di una breve descrizione dal valore storico straordinario, perché la divulgazione scientifica ha sempre negato che Hoyle abbia preso in considerazione universi a metrica statica. Ne riportiamo alcuni passaggi essenziali perché forniscono con disarmante semplicità una descrizione del redshift intrinseco senza ricorrere alle teorie dell'espansione dell'universo e in grado di spiegare tutte le anomalie che sono poi emerse dall'osservazione.
«Sebbene il punto di vista sia qui diverso da quello convenzionale - precisava Hoyle - le considerazioni sono esattamente equivalenti a quelle di un universo in espansione. L'idea alla base del concetto di massa si può esprimere così: per calcolare la massa di un corpo si contano quanti atomi ciascuno dei diversi tipi esso contiene. Si associa poi un numero a ciascun tipo di atomo: 1 alla forma più semplice, l'idrogeno, 12 al carbonio, 16 all'ossigeno, 56 al ferro e così via. Addizionando tutti i risultati intermedi si trova la massa del corpo. L'atomo di idrogeno ci ha dunque fornito l'unità di misura fondamentale per questo calcolo. La questione che ora ci si pone è se l'atomo di idrogeno sia sempre lo stesso, in qualsiasi galassia di qualsiasi parte dell'universo esso si trovi. Come potremmo arrivare a sperimentare un'eventuale differenza? Ecco una possibile verifica: la luce che proviene da una lontana galassia si propaga attraverso lo spazio giungendo infine ai nostri telescopi in un tempo dato. Sebbene la luce viaggi molto velocemente, è necessario un lungo intervallo dal momento che quella galassia è molto lontana: se dista ad esempio un miliardo di anni-luce, quella luce impiegherà un miliardo di anni per arrivare a noi. Ma un miliardo di anni è un tempo così sconfinato se rapportato a noi da obbligare a domandarci se gli atomi di idrogeno presenti in quella galassia un miliardo di anni fa fossero assolutamente identici agli atomi di idrogeno che troviamo oggi sulla terra. C'è un modo per saperlo? Certo, esaminando e comparando la luce dei diversi atomi di idrogeno: se quelli che ci giungono adesso da tanto lontano hanno masse diverse da quelli locali, la luce che hanno emesso un miliardo di anni fa e che noi riceviamo ora nei nostri telescopi, DEVE AVERE COLORE DIVERSO DALLA LUCE EMESSA DAGLI ATOMI DELL'IDROGENO CHE VIENE INVECE PRODOTTA NEI NOSTRI LABORATORI TERRESTRI. Questo ci fornisce un metodo per verificare direttamente la realtà dell'effetto: il tipo di cambiamento, uno spostamento della luce verso il rosso, noto come redshift, indica che le masse degli atomi di idrogeno di quella lontana galassia erano intrinsecamente diverse, ed erano minori almeno in tempi precedenti ai nostri» ("Highlights in Astronomy", F.Hoyle, 1974).
Riletta a 34 anni di distanza, la teorizzazione di uno spostamento verso il
rosso intrinseco,
indipendente da qualsiasi effetto dinamico conseguente a un espansione
dell'universo, mantiene
inalterati il suo fascino e la sua portata. Non ci dimostra, a rigore, che la
massa dell'idrogeno varia
necessariamente col tempo, ma che la massa dell'idrogeno costituente quella
galassia può essere
quantitativamente DIVERSA dall'idrogeno di cui è formata la nostra materia
locale. Ci dice che la
massa delle particelle DI QUELLA MATERIA differisce dalla massa delle particelle
DELLA NOSTRA materia locale, suggerendo ancora che almeno in apparenza le masse e le costanti fisiche
potrebbero essere
correlate al tempo e che nel passato le particelle subatomiche - e in
particolare gli elettroni -
avrebbero potuto corrispondere a masse minori. Non elimina la possibilità che
indipendentemente
dal tempo la massa di un elemento che forma un oggetto nell'universo possa
essere diversa da
quella di un elemento analogo che ne costituisce un altro. L'ipotesi degli
isotopi senza fine che
attraversò la mente di Soddy avrebbe forse potuto contemplare che un elemento
più leggero fosse
necessariamente sempre il più antico? Poteva mai esserci un tempo oltre il quale
tutta la materia
puramente e semplicemente smetteva di esistere?
Luce stanca, pseudo Doppler e spazio... che cresce
Dunque tutte queste ipotesi, e in particolare la "stravagante" possibilità che
l'universo potesse avere
avuto un'origine, erano già sotto i riflettori all'inizio degli anni Venti. Non
si spiegherebbe
diversamente l'irresistibile ascesa al Monte Wilson dell'ex avvocato Edwin
Hubble, che fra i suoi
molti meriti ebbe anche quello di fiutare l'importanza del momento e quindi di
trasformare la ricerca
astronomica in una spettacolare avventura dal sapore faustiano. Quando nel 1919
decise di andare
alla montagna proprio nel momento in cui il nuovo telescopio Hooker di due metri
e mezzo
d'apertura entrava in servizio, Hubble aveva già il suo programma e il suo
destino tracciati sul
palmo della mano sinistra. Grazie a Slipher sapeva già cosa cercare, ma sapeva
anche come imporre
i suoi impegnativi obiettivi alla comunità scientifica.
Il nome di Hubble è perciò legato a quella che la divulgazione guascona chiama
"la scoperta
scientifica più sensazionale di tutti i tempi: l'espansione dell'universo".
Per chi comunque non intende confondere le ipotesi con le scoperte ci sono per fortuna, oltre alla memoria storica, le relazioni firmate dallo stesso Hubble che documentano chiaramente ogni sua riserva rispetto a questo scenario "speculativo".
È vero che fu lui a svilupparlo e ad ideare assieme ad altri collaboratori metodologie
e test sempre
più impegnativi per la determinazione delle luminosità delle galassie, ma va
riconosciuto il
criticismo che non lesinò mai e la grande onestà con cui ammise - almeno
rispetto ai suoi tempi -
l'impossibilità di pervenire a una decisione fra l'idea di un universo statico e
quella di un universo in
espansione. Perfino nella
sua ultima relazione pubblicata postuma riconobbe la possibilità che lo
spostamento spettrale
potesse derivare da cause del tutto sconosciute.
Effetto Doppler o "luce stanca", c'era tuttavia una cosa su cui Hubble non era
disposto a fare sconti
e questa era la relazione che lui definiva "empirica" fra il
redshift e la
distanza: creato o eterno che
fosse (verso la fine della sua non lunga vita Edwin Hubble non nascose le
proprie simpatie nei
confronti della nascente teoria dello Stato Stazionario), l'universo delle
osservazioni testimoniava
una relazione lineare fra la luminosità apparente di un oggetto e la quantità
del suo spostamento
verso il rosso.
Su quel punto (e solo su quello) Hubble era disposto a giocarsi la credibilità professionale che si era costruito. Questa dimostrazione non fu però mai alla portata di Hubble e quando morì d'infarto nel 1953, le galassie da cui si erano ricavati gli spettri erano appena qualche centinaio; nella stragrande maggioranza si trattava di oggetti abbastanza vicini che non superavano la distanza dell'ammasso della Vergine.
Il fisico premio Nobel Steven Weinberg aveva dichiarato:
«Come poté annunciare fin dal 1929 una relazione tra il redshift e la distanza con dati così manchevoli è uno dei grandi misteri di cui è costellata l'astronomia".
E in effetti uno sguardo alla comunicazione con cui Hubble sostenne "una relazione fra la distanza e la velocità radiale delle nebulose extragalattiche" la dice lunga sulla possibilità di scorgere una linea progressiva fra i pochi punti che vi compaiono. Sarebbe ingeneroso elencare le galassie citate nello studio del '29 o in quello successivo del 1931 firmato con Humason, che includeva altri 50 spettri e che tuttavia hanno ufficializzato nientedimeno che... l'espansione dell'universo. Il capitolo non scritto a quasi un secolo di distanza - e di cui gli studenti di astronomia contemporanea non hanno il minimo sentore - è che i milioni di ore osservative effettuate in seguito hanno eliminato la possibilità di ottenere "candele standard" affidabili dalle galassie a causa della loro grande varietà. E che con l'eccezione di una ben nota classe di spirali denominata Sb, NON C'È MAI STATO UN BRANDELLO DI PROVA CHE LE GALASSIE IN GENERALE SI DISPONGANO SU UNA QUALCHE "RETTA DI HUBBLE". Quando si trovano oggetti della medesima luminosità apparente e dello stesso tipo ma con spostamenti verso il rosso molto diversi, sono automaticamente assegnate dimensioni assolute molto diverse e lo stesso si conviene quando si vanno a comparare galassie di luminosità apparente assai diversa ma con il medesimo spostamento verso il rosso: quel che alla fine rimane è solo un generalizzato incremento di redshift al diminuire della luminosità apparente (cioè al crescere della magnitudine) che non consente mai con certezza di tradurlo in una distanza.
SENZA IL FATTORE DI
AGGIUSTAMENTO CHE È DIVENTATO SCANDALOSO IN ASTRONOMIA EXTRAGALATTICA, SEMBRA
CHE NON SIA POI CAMBIATO GRAN CHE DAI TEMPI DI IPPARCO. Certo, oggi disponiamo
di un'acutezza
visiva straordinaria grazie alla tecnologia: ma come discernere gli oggetti
intrinsecamente deboli da quelli lontani? Come distinguere i nani dai giganti
sullo sfondo inafferrabile del cielo? (Lo svedese Gunnar Malmquist, 1893-1982, ha invocato una "distorsione
osservativa", bias, che prende il suo nome
e per la quale la luminosità media degli oggetti molto lontani deve apparire
maggiore in quanto i membri meno
brillanti sarebbero troppo deboli per poter essere rilevati e conteggiati).
Questo è stato sempre IL problema dell'astronomia remota. Come commentò una
volta il famoso
astronomo olandese Jan Oort: "They mistakenly mix together objects of widely
different
luminosities" ("Per
errore fanno
ampiamente
un mix di oggetti di diversa luminosità").
Crolla tutto
Ma la confutazione dell'espansione dell'universo non è venuta
dall'irrealizzabile accertamento delle
magnitudini assolute degli oggetti deboli. Vero è invece che a forza di
ricavare distanze dai redshift, si dovettero accettare luminosità equivalenti a quelle di migliaia
di grandi galassie per
oggetti con diametri dell'ordine delle ore-luce, oltre a un imbarazzante
tipologia di sistemi stellari le
cui dimensioni eccedono di dieci volte e più quelle che fino a ieri venivano
indicate come "galassie
supergiganti". È anche vero che queste girandole mostruose dovrebbero produrre
cumulativamente
da un minimo di 5 a più di 50 supernovae all'anno che poi nessuno vede: ma non
va dimenticato
che a partire dagli anni Novanta, per regio decreto dell'astronomo inglese
Martin Rees, tutte le
galassie sono state equipaggiate con efficientissimi "buchi neri supermassicci
al centro" in grado di
fornire le luminosità e le masse necessarie. Beh, non proprio tutta la massa... perché
PER POTER CONDENSARE LE GALASSIE
DAL MAGMA PRIMORDIALE DEL BIG BANG E OTTENERE L'UNIVERSO CHE SI OSSERVA,
OCCORREREBBE UN'ULTERIORE QUANTITÀ (CHE NON SI TROVA) PARI A NOVANTACINQUE VOLTE
QUELLA "LUMINOSA" CHE SI RIVELA NELLE CONDIZIONI REALI. Gli ammassi di galassie in allontanamento
reciproco
somiglierebbero dunque a pesantissimi e invisibili lampadari di materia "esotica
e oscura",
"trasparente allo spettro elettromagnetico", in cui le sole cose che vi si
vedono sarebbero le
luminosissime "lampadine" che vi starebbero avvitate dentro.
La falsificazione di questo arbitrio senza precedenti nella storia della scienza
e della filosofia della
natura, che inventa luminosità incommensurabili per oggetti cosmici lontani
indotte da
efficientissimi buchi neri al centro e dinamiche non-kepleriane alla periferia
(impartite queste da
immense ciambelle di materia "esotica" e invisibile, "anelli caustici" e
quant'altro), era però
clamorosamente disponibile da molto tempo. È diventata chiara quando i
cosmologi hanno dovuto
ammettere che le galassie non precipitavano in un "iperspazio" vuoto a partire
da una specie di
cratere dell'esplosione, ma che era invece lo stesso spazio intergalattico a
espandersi dall'interno di
se stesso.
Questa precisazione è fatale per l'interpretazione ortodossa dello spostamento
verso il rosso e fu
presagita dallo stesso Hubble già prima del 1929 quando tentò - con un colpo di
bacchetta magica -
di tramutare le distanze delle sue galassie in velocità radiali. Non più un
effetto Doppler di
allontanamento relativo, ma un fenomeno fisico "universale" determinato dalla
dilatazione
progressiva dello spazio stesso e non dal moto sistematico degli oggetti cosmici
attraverso lo
spazio. Le conseguenze sono drammatiche: intanto le galassie non sviluppano più
velocità di
recessione e quindi moti propri che incrementerebbero le loro masse inerziali,
cosicché vengono a
cadere tutte le presunte dilatazioni temporali relativistiche (time dilations)
che sono alla base della
determinazione di distanza delle supernovae lontane. E con esse, ovviamente, le
correzioni che si
applicano sistematicamente a redshift di
valore superiore a z = 0.1 (per inciso il valore z = 1, che per la cinematica
classica coincide con quello della luce e che spettroscopicamente è oltrepassato anche di un fattore 7, innescò in passato una polemica molto
aspra fra fisici e cosmologi dal momento che il superamento della velocità della
luce di fatto non avveniva mai).
Nei termini più semplici la recessione cosmica ha dovuto essere riformulata come un'azione di "stretching" ("allungamento") costante e progressiva che lo spazio in espansione trasmette ai dettagli spettrali della radiazione luminosa che lo attraversa (o da cui è attraversata?!). Cioè il redshift cosmologico deve determinarsi mentre la luce è in viaggio e non a causa di movimenti relativi all'atto dell'emissione della sorgente o al momento della ricezione allo spettrografo (che sono invece la base degli effetti Doppler canonici). Inoltre, per mantenere l'accordo con le osservazioni, questo spostamento spettrale non potrebbe formarsi mentre la luce viaggia all'interno degli ammassi ma esclusivamente nello spazio esterno che li divide, e che è il solo a cui possa essere attribuita la proprietà di dilatarsi.
La catastrofe è subito evidente: perché uno spazio possa "stirare" i dettagli
della radiazione
luminosa (e in generale di una propagazione elettromagnetica), si deve assumere
che il vuoto o il
"falso vuoto" fra gli ammassi di galassie aumenti progressivamente le sue
proprietà metriche,
proprio come se nuovo "vuoto" o "falso vuoto" venisse introdotto o pompato di
continuo
dall'esterno. Insomma, si deve forzosamente assumere che sia "il vuoto in
espansione" a interagire e
quindi a trascinare con un processo LENTISSIMO le configurazioni della
radiazione luminosa e non la
radiazione luminosa proveniente da un oggetto lontano a riflettere
ISTANTANEAMENTE il moto dello
spettrografo solidale alla nostra Galassia e all'espansione dell'universo nel
momento in cui quella
luce conclude il suo viaggio penetrando nella fenditura!
Per fissare questa Waterloo teorica che non assegna più alcuna velocità alle
galassie MA UNA
VELOCITÀ ALLO SPAZIO, lo stretching elettromagnetico delle propagazioni che lo
attraversano deve tradursi in un trasferimento reale delle energie associate
alle frequenze NEL
SENSO DI UNA CESSIONE FISICA ALLO SPAZIO IN ESPANSIONE.
È una vera e propria reductio ad absurdum che
liquida quasi un secolo di falsa cosmologia e di astrofisica inadeguata.
Va ricordato anche che la pretesa dilatazione dello spazio adottata come ultima
spiaggia dai
bigbangers necessita non solo di una creazione continua di vuoto o falso vuoto
DAL NULLA ma, come
vedremo, perfino di una sua ACCELERAZIONE. Questo implica che "il pasto gratis"
invocato dal teorico
Alan Guth non sia mai finito, oltre a innescare una serie di irresistibili
ironie intorno alla "costante"
di Hubble (H0 = 72 km/sec. ∙ Mpc) (Mpc = Megaparsec, misura di
distanza astronomica, corrispondente a un milione di parsec, cioè a 3.260.000
anni-luce) che qui non esamineremo. Ma è facile
calcolare che se un
milione di anni-luce (cioè una sezione di spazio vuoto equivalente alla distanza
che la luce percorre
in un milione di anni) cresce al ritmo di ventiduemila metri al secondo in un
milione d'anni, un
anno-luce (cioè circa 9460 miliardi di chilometri di spazio) dovrà crescere dopo
un anno di ventidue
millimetri al secondo e così via.
L'universo delle osservazioni
"Può sembrare perfino bizzarro - scrive l'astronomo all'indice Halton Arp - che
io abbia dovuto
lottare così duramente per affermare l'appartenenza dei quasar alle galassie con
più basso
spostamento verso il rosso, quando è sempre esistita una prova fotografica
diretta della loro
connessione" ("Quasars Redshifts and Controversies" H. Arp 1987, in italiano "La contesa
sulle distanze cosmiche e le quasar",
Jaca Book 1989). Queste evidenze osservative che si sono moltiplicate fino a
diventare
numericamente esorbitanti, continuano ad essere ostinatamente negate e
sacrificate sull'altare della
"creazione dell'universo" per scelte che sono certo ideologiche, ma in parte
anche "politiche" ed
"amministrative".
Fino alla scoperta dei quasar avvenuta fortuitamente nel 1963, l'interpretazione
dello spostamento
verso il rosso degli oggetti extragalattici si concentrava preferenzialmente su
due soluzioni: l'effetto
Doppler "cosmologico", che certificava con la recessione delle galassie la data
di nascita del Cosmo
e le (due) versioni alternative della "luce stanca", ipotetici processi di
dispersione energetica della
radiazione luminosa in grado di salvaguardare la staticità dell'universo e
quindi la sua stessa
eternità. Concezioni anche epistemologiche contrapposte a cui se ne affiancava
un'altra, definita
"metafisica" da alcuni, e che considerava il redshift
extragalattico UNA
QUALITÀ INTRINSECA DELLA MATERIA UNIVERSALE, le cui proprietà restavano ancora da comprendere.
Quest'ultima, lo abbiamo
detto, era di gran lunga la meno accreditata perché poneva anche una
pesantissima riserva sulla
capacità di estrapolare dalla nostra fisica locale quella dell'intero universo.
Ma c'era in ballo un motivo addizionale e un'opportunità assai più invitante che
gli addetti ai lavori
avevano subito intuito: quella dell'agognato indicatore di misura che sempre era
mancato
all'astronomia di osservazione, e che le aveva impedito di fissare in termini di
PROFONDITÀ l'apparente
"piattezza" cosmica. Con la determinazione del
redshift l'impossibile diventava
improvvisamente
possibile: bastava far passare la luce di una remota galassia attraverso un
prisma e fotografarne
l'arcobaleno, confrontarlo poi con quello della luce prodotta in laboratorio et
voilà, ecco servita la
distanza e la prospettiva! Sembrava un sogno: o si accettava il sortilegio o ci
si autocondannava
all'incertezza eterna. In allontanamento o in equilibrio che fosse, effetto
Doppler o luce stanca,
quella flebile manna arrossata con i colori dell'iride pareva consegnarci su un
piatto d'argento il
metodo per stabilire la distanza e le dimensioni degli oggetti cosmici.
Bastava
crederci e
l'astronomia extragalattica non sarebbe stata mai più una scienza impossibile.
Chi avrebbe
rinunciato a saltare su quel treno a stelline in partenza per l'universo per
restarsene in sala d'aspetto
a girare i pollici con un equivoco quanto inutilizzabile spostamento verso il
rosso "intrinseco"?
La prima ondata di panico la produsse però la scoperta dei quasar, che rivelò
strabilianti quantità di redshift nella loro instabile luce e che se tradotte in termini di distanza gli
avrebbero conferito
luminosità ed energie favolose, dell'ordine di... 1047 erg/s. Prima ancora di
collocarli alla distanza
dei loro spostamenti spettrali come si faceva ormai sistematicamente con le
galassie, l'astronomo
Maarten Schmidt ebbe una storica e preliminare esitazione nell'accreditare
"velocità radiali" a
questi quasar, confessando alla moglie che forse "stava accadendo qualcosa di
terribile in
astronomia". Evidentemente anche la sua mente non fu immune dal timore di un
redshift
indipendente dalla distanza e dalla velocità.
Abbiamo appena riferito dei motivi che hanno portato i cosmologi a intraprendere
un'inverosimile
"dilatazione progressiva della metrica del vuoto extragalattico" e quindi a
forzare il collasso della
plausibilità teorica di universo in espansione: ma poiché il sistema accademico
aveva già
ufficializzato l'apertura di credito a favore dello "spazio che si dilata", è
presumibile che la sua
necessaria revisione verrà gestita in tempi lunghi e senza scossoni nell'arco di
uno o due secoli [Alberto Bolognesi dice "di un decennio o due", ma io sono più
pessimista - ndc] visto il progredire del bigottismo scientifico, soprattutto
nel web e fra i giovani a cui è stato lavato il cervello.
Nel frattempo i grandi astronomi che avevano ragione, primo fra tutti
l'americano Halton Arp,
allontanato da Monte Palomar nel 1983, privato dell'uso dei più grandi telescopi
e ostacolato dal
sistema dei referee (arbitri) nella comunicazione dei suoi risultati sui giornali
professionali, chiuderanno le
loro esistenze terrene dalla parte del torto.
Lo scandalo degli ULX, sorgenti X compatte e ultraluminose che sono state rilevate in gran numero in prossimità dei nuclei e fra i bracci delle galassie, è sotto gli occhi di tutti. Oggi la società scientifica è come il re nudo che nella favola di Andersen mostra il suo indecente culo senza che nessuno tradisca il minimo disagio! Infatti queste intense sorgenti X sono state subito indicate come stelle che orbitano vorticosamente intorno a mini-buchi neri, "simili a prede che si dibattono prima di arrendersi all'inevitabile cattura gravitazionale" e denominate "black hole binaries". Trattandosi di stelle (e mini-buchi neri), nessuno mette in dubbio la loro appartenenza alle galassie a cui risultano associate, MA DOVE È STATO POSSIBILE ESAMINARE SPETTROSCOPICAMENTE LE LORO CONTROPARTI OTTICHE, QUESTE BINARIE SONO POI RISULTATE QUASI ESCLUSIVAMENTE QUASAR AD ALTO REDSHIFT!!! Se è vero che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie dovremmo concludere che in cosmologia non ci sono mai prove abbastanza straordinarie per smentire affermazioni straordinarie.
L'annessione dei quasar alle galassie come oggetti piccoli e poco luminosi, non
visibili alle grandi
distanze e caratterizzati da alto spostamento intrinseco verso il
rosso è un
passaggio decisivo per
ricondurre l'astronomia extragalattica nell'alveo di una scienza empirica.
È
già largamente alla
portata della ricerca amatoriale, che con strumenti ben superiori ai 50
centimetri di apertura e con
tecnologia assai progredita potrebbero facilmente fornire un contributo
conclusivo.
NGC4319 e il quasar Markarian 205
Il caso di NGC4319 e del quasar Markarian 205 non è che uno dei tanti, ma è
emblematico anche in
virtù della sua lunga e paradossale storia. Fu segnalato per la prima volta nel
1970 da un astronomo
armeno che cercava oggetti "caldi" nell'ultravioletto e che si imbatté in un
quasar molto vicino al
bordo di una contorta galassia, la spirale NGC4319. Gli spettri furono
determinati in seguito da un
altro ricercatore che ricavò un valore corrispondente a un moto di
allontanamento di 1700 km/sec
per la galassia e di ben 21000 km/sec per l'oggetto quasaroide catalogato Mkn
205. Poco dopo
l'astronomo Arp decise di esaminare da Monte Palomar e con la migliore
risoluzione possibile
l'intera configurazione, mettendo in luce una debole connessione luminosa fra il
quasar e la
galassia; la connessione fu confermata con altri telescopi, ma poiché questo
avrebbe demolito
inesorabilmente l'interpretazione cosmologica del redshift, si convenne
ad una
posizione ufficiale in
cui "l'apparente" connessione era dovuta alla sovrapposizione prospettica della
distribuzione di luce
di due oggetti "in realtà" lontanissimi tra loro.
In seguito la connessione venne constatata con maggiore dettaglio per mezzo di
nuove tecniche di
processione delle immagini e poi ancora, nell'imbarazzo generale, dalle prime
sortite dell'Hubble
Space Telescope che evidenziò un ponte di materiale che si estendeva senza
soluzione di continuità
dalla galassia fino ad avvolgere l'oggetto di Markarian. Infine, nel 2002,
un'organizzazione
associata alla NASA fece circolare con grande risalto la stampa di una nuova
fotografia dell'Hubble,
annunciando stavolta la definitiva confutazione della connessione. Era
un'immagine insolitamente
scura, sulla quale però un gran numero di persone segnalò la presenza di una
debole ma
inequivocabile connessione ottica: aumentando semplicemente il contrasto poi,
compariva la
medesima struttura materiale già osservata con i telescopi a terra, più un
sottile e luminoso
filamento che si insinuava all'interno della connessione e che precludeva
qualsiasi possibilità di
accavallamento prospettico tra NGC4319 e Mkn 205. Ciononostante, nessun
astronomo influente si
sentì di commentare il comunicato o di confermare l'assenza di ogni connessione,
mentre furono
numerosi quelli che ne rivendicarono l'apparente struttura filiforme "pur non
essendo assolutamente
in grado di dire o di decidere che cos'è" (J. Sulentic).
NGC7603
Agnostici riguardo alle connessioni luminose di oggetti con
redshift discorde ma
deterministici
rispetto alla materia invisibile, i teorici dello spazio in espansione non hanno
alcuna intenzione di
arrendersi a evidenze galileiane fuori moda.
Il secondo esempio che mostro, tratto da una casistica che ormai è diventata sterminata ("Catalogue of Discordant Redshift Associations", H. Arp, Apeiron, Montreal 2003), prende in esame due galassie che non possono trovarsi vicine per accavallamento prospettico. Sono collegate da un incontestabile braccio di polveri e gas che si sviluppa dal grembo di NGC7603A e che termina esattamente in NGC7603B avvolgendo completamente quest'ultima "come una palla in una calza" (H.Arp). Ma i redshift sono rispettivamente z = 0.029 e z = 0.057, che corrisponderebbero a velocità di recessione di 8700 km/sec per la galassia A e a 17000 km/sec per la galassia B. Usiamo a buon diritto il condizionale dal momento che due oggetti legati da un filamento di materia diffusa non potrebbero recedere a velocità così diverse e di certo non a causa dell'espansione dello spazio. Né si potrebbe adottare l'ipotesi alternativa della "luce stanca", perché in un sistema binario che evidentemente si trova alla stessa distanza, la luce prodotta in B non avrebbe alcun motivo di "stancarsi" più della luce che ci proviene da A. QUALUNQUE SIA LA NATURA DEI LORO DIVERSI SPOSTAMENTI VERSO IL ROSSO, QUEGLI SPOSTAMENTI DEVONO ESSERE PRODOTTI ALMENO IN PREVALENZA DA QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO DALLA DISTANZA O DALLA VELOCITÀ.
È di grande importanza anche sotto il profilo storico ricordare che furono
proprio queste due
galassie a dare alimento alla "teoria della massa variabile" di Fred Hoyle. "This
concept appears
necessary - disse nel corso della sua Russell Lecture di Seattle (1972) - if we
are to understand the
result reported by Arp for the galaxy NGC7603 and its appendage"
("Questo concetto
sembra necessario se stiamo capendo il risultato riferito da Arp per la galassia
NGC7603 e la sua appendice"). Arp ricorda
che al termine di
quella conferenza lui e Hoyle furono avvicinati dal collega Martin Schwarzschild
(astronomo, figlio
del celebre Karl, teorizzatore della metrica intorno ai buchi neri), che sbottò:
"siete entrambi
completamente pazzi" ("Reserch with Fred", H. Arp, 2003).
L'implicazione era che NGC7603A doveva aver partorito e poi espulso la compagna
B: il più alto redshift di quest'ultima era dovuto alla minore massa delle particelle di cui B,
evidentemente più
giovane rispetto ed A, era costituita (massa variabile). Se poi nemmeno il
redshift di NGC7603A era
"cosmologico" ma dipendeva invece dal tempo di apparizione di A rispetto alla
nostra Galassia...
allora la relazione di Hubble, la "fisica nota" e tutta la cosmologia ne
uscivano stravolte. La
comunità astronomica fece quadrato intorno a queste "fughe dalla realtà" (A. Sandage):
da quel
momento nessuno si sarebbe più fidato delle stravaganti idee di Fred Hoyle o
delle imbarazzanti
osservazioni di Arp. Ma come ignorarle? Un conto era la disputa intorno a teorie
eccentriche e un
conto era respingere lastre fotografiche ed evidenze strumentali: se quei
bracci, quei filamenti,
quelle connessioni luminose fra oggetti con spostamenti verso il rosso così
diversi erano reali, si
sarebbe dovuto ammettere che c'era un'altra causa nella formazione del
redshift
delle galassie che
non aveva a che fare né con la distanza né con la velocità.
Si aprì quell'inevitabile stagione di scontri fra il punto di vista
maggioritario e i suoi pochi
oppositori la cui narrazione non rientra negli scopi di questo articolo, ma che
confinò fra l'altro Fred
Hoyle alle ricerche domiciliari in Cornovaglia e portò al licenziamento di Arp
da Monte Palomar
che poi, escluso dal giro dei grandi telescopi, esiliò come ospite non
retribuito al Max Planck di
Garching presso Monaco di Baviera. Trent'anni dopo tuttavia, il tempo galantuomo
tornò a colpire,
pesantissimo, quell'imbarazzante configurazione di galassie. Furono due giovani
astronomi
dell'Istituto delle Canarie che con un telescopio di media apertura, il vetusto
Nordic Optical
Telescope di 2,6 metri ma con uno spettrografo d'avanguardia, ritornarono a
occuparsi di quella
"pericolosa" connessione. C'erano immerse due condensazioni luminose già
descritte da Arp nel
1971, una delle quali non puntiforme, che adesso era finalmente possibile
esaminare in
spettroscopia: Martin Corredoira e Carlos Gutierrez avevano pensato a plasmoidi
gassosi avvolti nel
filamento che unisce le due galassie A e B con redshift discorde, o anche a due
ammassi globulari; e
si può facilmente intuire il loro stato d'animo quando dagli spettri di queste
due piccole
condensazioni emersero invece le larghe, compatte linee di emissione tipiche dei
quasar e delle
galassie HII, con redshift z = 0.391 e z = 0.243!
Adesso all'interno del filamento che connette NGC7603 alla sua compagna B con
redshift altamente
discorde, venivano ad aggiungersi due oggetti di tipo quasar con
redshift ancora
più alti e che
confermavano in modo ancor più drammatico e impressionante tutta la linea
evolutiva della massa
variabile abbozzata da Hoyle nel 1972. Corredoira e Gutierrez (2002) calcolarono
che la probabilità
totale di accavallamento prospettico di tutti questi oggetti allineati nel
braccio di NGC7603 era
all'incirca 6x10-13, ma tutte le richieste di ulteriori indagini con il Very
Large Telescope (VLT) e con
il satellite orbitante Chandra che opera nei raggi X, furono laconicamente
respinte dagli Allocation
Committees che controllano le più avanzate apparecchiature dell'astronomia
osservativa.
Altre grane dal Quintetto di Stephan
Il caso straordinario di NGC7603 in cui due galassie connesse da un filamento
che ospita anche due
oggetti di tipo quasar finiscono per formare un collier di
QUATTRO
REDSHIFT DIFFERENTI, ALLINEATI E INTERVALLATI ENTRO POCHE DECINE DI SECONDI D'ARCO, non è... nemmeno unico!
Ancor più di recente
uno spettacolare gruppo di galassie in interazione, il celebre
Quintetto di Stephan, già noto per
avere due membri con spostamento discorde, è tornato alla ribalta per via della
scoperta di un ULX
quasar centrato praticamente sul nucleo di una delle galassie (NGC7319) del
gruppo. È solo un'altra
delle ormai innumerevoli associazioni fra quasar e galassie, ma qui "il caso" ha
evidentemente
inveito su una configurazione di redshift discordi per la quale ci si
accapigliava già dal 1960.
Alberto Bolognesi
stesso, autore di queste testimonianze, fu coinvolto nella dinamica di questa
scoperta: il merito va ad uno studente di fisica dell'Università di Lecce, che si divertiva nelle pause
dei suoi studi a
riprocessare le immagini più suggestive dell'Hubble Space Telescope. Esaminando
le fotografie ad
alta risoluzione del Quintetto di Stephan integrate a una mappa in raggi X
ottenuta dall'astrofisica
Ginevra Trinchieri col satellite Chandra, il giovane Pasquale Galianni aveva
notato
che una forte
emissione X evidenziata dal Chandra aveva una controparte ottica ben visibile
nelle immagini
dell'Hubble. Si presentava come un puntino luminoso a meno di 8 secondi d'arco
dal nucleo della
galassia tipo Seyfert NGC7319, al culmine di una propaggine gassosa di forma
allungata, che si
stagliava molto nitidamente come se si trovasse davanti al nucleo denso e
polveroso della galassia.
Che cos'era?
Galianni inviò a Bolognesi le immagini in questione con cortese preghiera di
esaminarle. Bolognesi lo fece con
entusiasmo riprocessandole alle diverse lunghezze d'onda e gli rispose che secondo
lui
quello era un quasar, ma che sarebbe stato necessario un grande riflettore e
uno spettrografo di
ultimissima generazione per stabilirlo. Bolognesi informò direttamente Halton Arp e
pregò Galianni di
contattarlo personalmente. Dopo molte indecisioni e qualche ripensamento che
andava
dall'"artefatto" a una possibile "binaria con buco nero",
Galianni si affidò
all'interessamento di
Arp (che ad onor del vero aveva notato in modo indipendente il punto luminoso
sul jet a forma di V
vicino al nucleo di NGC7319) e che poi, grazie all'instancabile collaborazione
della professoressa
Margaret Burbidge, sfociò in un positivo interessamento dell'osservatorio Keck
I, il gigante di 10
metri d'apertura che poggia sul vulcano spento del Mauna Kea alle Hawaii, a 4
mila metri d'altezza.
Il "pallino" fu risolto l'anno seguente in un ULX quasar con redshift
z = 2.114
nel quale spiccava la
carenza di assorbimenti nelle configurazioni spettrali, assorbimenti che ci si
sarebbe invece dovuti
attendere in modo massiccio se il quasar si fosse trovato nel lontano sfondo,
DIETRO al disco della
galassia. Dopo il solito balletto dei referee (arbitri) lo studio fu finalmente pubblicato sull'Astrophysical
Journal nella primavera del 2005 da Margaret e Geoffrey Burbidge, Halton Arp,
V. Junkkarinen e
S. Zibetti, con lo studente Galianni che vi apparve a pieno titolo come primo
firmatario.
Il clamoroso caso fu discusso poco dopo dalla stessa Burbidge davanti a una
stizzita platea al
Convegno della Società Astronomica Americana di Atlanta. In Italia ottenne
qualche tiepida
menzione su un giornale a grande tiratura e su un paio di riviste di
divulgazione, ma dopo un paio di
battibecchi il quasar "Galianni" fu rispedito rapidamente alla sua distanza
cosmologica e i padroni
del mondo decisero che brillava dall'abisso di miliardi di anni-luce attraverso
il disco oscurante
della molto più vicina NGC7319.
La temperatura del cielo
Ma il tema su cui la fiction ha esercitato la pressione più selvaggia è senza
dubbio quello della
temperatura dello spazio. Prima ancora che la cosmologia stritolasse
l'astrofisica, si era sempre
supposto che lo spazio cosmico dovesse produrre una temperatura causata dalla
radiazione delle
stelle. Al di là di alcuni equivoci epistemologici sulla natura del "vuoto", il
punto della discussione
verteva sul significato di "temperatura media" e di temperatura "locale", che in
una distribuzione di
materia mai perfettamente uniforme sembrava non aver ragione di coincidere. La
temperatura dello
spazio non poteva evidentemente essere la stessa nei dintorni di Mercurio o di
Plutone, all'interno di
un ammasso globulare o in un punto a caso della Via Lattea, né verosimilmente
negli spazi
intergalattici dove la densità delle galassie, che quasi sempre si presentano in
gruppi, non è mai
esattamente la stessa. Restavano così solo gli immensi spazi aperti, l'ambiente
extragalattico che
separa un ammasso dall'altro, ma anche qui non era chiaro definire le grandi e
le piccole
separazioni, i loro "spessori" e la loro "incidenza".
Dopo gli aberranti insegnamenti provenienti da Kant-Laplace, la temperatura
ASSOLUTA dello spazio appariva come
un valore metafisico più che fisico e al di là dell'ovvia impossibilità di una sua
determinazione strumentale non
locale, una quantità "media" espressa in kelvin associata allo spazio o al vuoto
"in generale",
appariva strampalata se non addirittura burlesca dal momento che l'universo poteva anche essere
infinito. Tutte le temperature in fondo dovevano essere locali: espressioni come
"corpo nero
dell'universo" furono per molto tempo derise o considerate completamente prive
di senso.
In uno scritto del 1896 il premio Nobel Charles Edouard Guillaume sostenne che la semplice radiazione delle stelle avrebbe dovuto produrre una "temperatura di fondo" di 6,1 K°, mentre l'espressione "temperatura dello spazio", già ricorrente dai tempi di Laplace, venne ripresa più analiticamente da Arthur Eddington che calcolò per il mezzo interstellare un valore di 3 K° ("Internal Constitution of the Stars", A. Eddington, Cambridge, 1926 ). Altre stime effettuate sui raggi cosmici da Erich Regener nel 1933 e da Walter Nernst nel 1937 fornivano una "temperatura dello spazio" di 2,8 K°, che fino agli inizi degli anni Cinquanta veniva tutt'al più estesa e fatta coincidere con quella "mediamente" presente nella nostra galassia.
Ancora, una serie di osservazioni spettroscopiche del cianogeno di A. Mc Kellar
intorno al 1940
implicavano una temperatura del materiale interstellare di circa 2,3 K°, mentre
un gruppo di
radioastronomi giapponesi e poi il russo T. Shmaonov nel 1957 avevano già
constatato un "fondo" di
radioonde intorno alla lunghezza d'onda di 3,2 cm. Quest'ultimo concluse che
quella radiazione
emetteva fotoni come un materiale che si trovasse alla bassissima temperatura di
4±3 K°.
Questi riferimenti sono importanti perché è necessario ribadire che tutte le
misurazioni facevano capo
ad un "fondo" diffuso NON TEORICO, la cui provenienza non sforava quello della
nostra Via Lattea e
che comunque in nessun caso si sarebbe preteso di poterla estendere a tutto
l'universo. Del resto gli
stessi Arno Penzias e Robert Wilson che sono accreditati della scoperta della
radiazione di
microonde a 2,7 K° avvenuta nel 1964 (e insigniti 14 anni dopo del premio
Nobel), usavano la loro
strana antenna a corno per misurare l'intensità delle radioonde emesse dalla
nostra stessa galassia.
Bisognava avere la fantascienza nel sangue per pretendere che i due radioastronomi della Bell Telephone stessero captando l'eco dell'esplosione che dette origine all'universo (Dike R., Peebles P. J. et al. ApJ, 142, 414 ): ad ogni buon conto il fisico di origine ucraina George Gamow aveva predetto sulla base del modello del Big Bang una temperatura residua fino a 50 K° già prima del 1961. Andrebbe poi ricordato anche che, in spregio ai dati qui elencati e a ciò che effettivamente trovarono Penzias e Wilson, tutti i calcoli successivi continuavano a prevedere valori tra i 30 e i 10 K°.
Se l'astronomia extragalattica diventerà una scienza rigorosa, bisognerà pur
riconoscere che CON TUTTO L'UNIVERSO A DISPOSIZIONE la possibilità che la temperatura circostante
dello spazio captata con
antenne al suolo e con satelliti orbitanti intorno alla Terra sia "il fossile
congelato della Creazione"
non è molto più fondata di quella di chi pretende dopo il 1821 di essere
Napoleone Bonaparte.
Secondo copione, infatti, il valore registrato dall'antenna di Penzias e Wilson,
al netto dello sterco di
piccione di cui era imbrattata, non deve aver nulla a che fare con le
temperature dell'universo
attuale: è invece la reliquia sottostante della Genesi cosmica che emanò dal
nulla sotto forma di
palla di fuoco (Big Bang) e
CHE CI ARRIVA IN DIFFERITA DALLA
CREAZIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO.
Tecnicamente è un termometro anzi un numero (1010) diviso per la radice quadrata
dell'età
dell'universo espressa in secondi.
Per chi ci crede, le infinitesime fluttuazioni intorno al valore di 2,7 K°
rappresenterebbero i grumi
del gas primordiale incandescente nel momento in cui precipitò sotto il peso
della propria gravità
per dare origine alle prime stelle e QUINDI alle prime galassie. Le
micro-anisotropie riscontrate
strumentalmente vengono lette come "picchi Doppler" conseguenti all'espansione
dello... spazio,
sotto forma di oscillazioni acustiche prodottesi nel fluido ancestrale
fotone-barione: avrebbero
viaggiato per 13 miliardi di anni prima di raggiungerci dal fondo dell'universo.
Queste sensazionali
"informazioni" celate nelle microonde hanno fruttato un Nobel per la fisica ai
ricercatori americani
Smooth e Mather, nel 2006.
Per chi invece non ci crede, la radiazione a 2,7 K° non è che la temperatura
dell'"ambiente" circostante proveniente da
tutte le ETERICHE
direzioni del cielo. Un commento che Fred Hoyle non mancava di ripetere,
riassume efficacemente
questo secondo punto di vista: "Un uomo che si addormenti sulla cima di una
montagna e che si
svegli in mezzo alla nebbia, non pensa che sta guardando la nebbia dell'origine
dell'universo. Pensa
solo di trovarsi nella nebbia".
La domanda che tanto imbarazza gli spettroscopisti di quasar e galassie presunte
"primordiali" non
risparmia i radioastronomi del fiat lux a microonde:
C'È FORSE UN EFFETTO DOPPLER CHE
SI CREA NELLA RADIAZIONE DEGLI OGGETTI LONTANI ANCOR PRIMA CHE QUESTA TOCCHI I
NOSTRI SPETTROGRAFI ANCORATI AL MOTO DI ESPANSIONE DELL'UNIVERSO? O SI TRATTA
DI UNO SPOSTAMENTO NON RELATIVO, SCONOSCIUTO IN FISICA, CHE ATTINGE REALMENTE
ENERGIA DAI PACCHETTI D'ONDA MENTRE QUESTI PERCORRONO LE DISTANZE COSMICHE, LA CUI SUPPOSTA DILATAZIONE NE RIDURREBBE MAN MANO LE FREQUENZE ALLUNGANDO LE
LUNGHEZZE D'ONDA?
Ho già sottolineato che un redshift
INTRINSECO già presente al momento
dell'emissione dalla
sorgente (Arp) sia il solo in grado di spiegare efficacemente le anomalie messe
in evidenza
dall'osservazione. Ma poiché questo affosserebbe la cosmologia e presumibilmente
buona parte
della fisica del XX secolo, i preposti dell'Empireo hanno deciso di ignorarle e
di ribattezzare
"pseudo-Doppler" il fenomeno dello spostamento sistematico verso il rosso degli
oggetti
extragalattici. Senza peraltro precisarlo, e anzi guardandosi bene dal farlo: le passwords come
ho mostrato sono "stretching elettromagnetico" e
"stretching dello spazio" che
allora delle due l'una: o
significano nuova fisica oppure non significano nulla. Qualunque cosa "si stiri", o
che cosa "intervenga a
stirare" gli spettri degli oggetti cosmici, evidentemente non è né effetto
Doppler né "pseudo-Doppler" e meno che mai un fenomeno di assorbimento o di interazione progressiva
direttamente
legato alla distanza, perché è in tal caso oggetti alla stessa distanza non
potrebbero avere spostamenti
verso il rosso molto diversi come invece è testimoniato da un gran numero di
casi tratti
dall'osservazione astronomica.
In attesa che l'effetto Arp sia finalmente accolto fra i fatti empirici,
l'espansione del vuoto, del
"falso vuoto" e dell'intero universo, tutta questa scienziaggine continuerà a reggersi sull'equivoco del non
meglio precisato redshift cosmologico.
Big Science
L'ideologia è il cavalcavia del reale. In astronomia ha stravolto le
osservazioni, ha inventato buchi
neri supermassicci, materia oscura, energia oscura, particelle esotiche,
luminosità impossibili, spazi
che si dilatano e che accelerano, deflagrazioni dal nulla, universi paralleli e
multiversi a bolle. "Che
cos'altro se non un'esplosione cosmica potrebbe aver prodotto l'universo e la
radiazione fossile di
fondo?": questa DEMENZA CIRCOLARE che i cosmologi ripetono ossessivamente ai
loro adepti elimina
la possibilità che una teoria dell'Inizio possa ragionevolmente costituirsi come
disciplina scientifica.
Si può solo vagheggiare una "CREAZIONE
DAL NULLA" ottenendola piano piano o con
un gran botto da
un inaccessibile oltre.
Ciò espone inevitabilmente la scienza e i suoi fondamenti all'"orrido" del
creazionismo, cosicché
sono stati elaborati alcuni correttivi dialettici atti a evitare l'autoconfutazione.
Scrive in proposito il
tuttologo Piergiorgio Odifreddi in uno dei suoi ultimi best sellers: "... il Big
Bang è da intendersi
come un inizio non assoluto, ma relativo. Non a caso (?) esso è perfettamente
compatibile con le
attuali teorie che ritengono il nostro universo e il suo Big Bang solo uno dei
molti, e non escludono
affatto la possibile "eternità" del vuoto quantistico dal quale i vari Big Bang
potrebbero non essere
altro che più o meno insignificanti fluttuazioni ..." ("Perchè non possiamo essere cristiani", P. Odifreddi,
Longanesi 2007).
Magnifico! L'universo del Big Bang, locale e contingente, uscito dai dadi del
falso vuoto e plasmato
dalla selezione naturale, proverrebbe poi da una sottostante eternità che nessun
accidente sarebbe
mai in grado di giustificare. Una specie di fucina incorruttibile e senza tempo
da cui vanno e
vengono raffiche di insignificanti Big Bang e sciami di universi bolla...
Non
c'è davvero bisogno di
infierire su baciasanti e transverberati per condividere tutta la stessa
drammatica evanescenza del
"laicismo scientifico" quando a sua volta pretende di cimentarsi nelle risposte
ultime! Pretesa che
qui è resa ancor più cruda dalla scelta accademica di Odifreddi, costretto ad
avallare il creazionismo
cosmico (Big Bang) con l'ossimoro per eccellenza della casualità e della
contingenza, cioè
UN'ETERNITÀ INOSSIDABILE e trascendente che se ne starebbe là da sempre e per
sempre.
Ancora più spassosa è però l'ironia implicita nella "casa delle bolle", dove un'infinità di universi locali con leggi e costanti fisiche "personalizzate" fluttuerebbero sul tappeto verde del falso vuoto. Nella versione estesa dei multiversi possibili, infatti, dovrebbero pur trovar posto anche gli imbarazzanti universi senza espansione di Arp, dove i quasar sono semplicemente espulsi dai nuclei delle galassie e dove il redshift degli oggetti cosmici è causato dalla variabilità della massa delle particelle di cui sono costituiti. A meno che le speculazioni dei cosmologi non vietino per statuto al multiverso o all'eternità in persona di formare universi di Arp!...
Se vale la pena spendere qualche parola sugli universi paralleli e sul multiverso
a bolle spacciati
ormai come Big Science e anzi utilizzati come palestre di pensiero dalle facoltà
di filosofia, la
caccia agli "alter ego" (universi, soli, pianeti, forme di vita e doppioni di
noi stessi) è stata
dichiarata ufficialmente aperta dal cosmologo del MIT, Max Tegmark. Egli afferma
che la distanza
spaziale media dal più vicino "noi identico" è calcolabile in circa 10 elevato a
1029 metri, e che
anche per merito del lavoro "accurato" del fisico quantistico David Deutsch, si
può ritenere che non
un solo Max o un solo David, ma un'infinità di copie identiche di noi stessi
stanno leggendo questo
articolo, mentre altre del tutto analoghe e infinitamente numerose non l'hanno
ancora letto o non lo
leggeranno mai.
Alla base di questa che il politico italiano Walter Veltroni chiamerebbe "coriandolizzazione"
della
fisica, c'è un argomento di natura matematica riassunto dal prolifico
ricercatore Paul Davies. Il suo
libro "Cosmic Jackpot" (edito in Italia dalla Mondadori col titolo
"Una fortuna cosmica", P. Davies, 2007), che si potrebbe ben dedicare a chiunque desideri
abbandonare per
sempre la fisica e la cosmologia, lo riassume eloquentemente: "La probabilità
che una sequenza di
1000 teste si presenti tra i 1080 atomi durante l'intera vita dell'universo è
ancora inferiore a una su
10200... ma se viene lanciato un numero infinito (??) di monete, mille teste di
seguito si otterranno
con assoluta certezza. L'infinito batte qualunque probabilità, per quanto
avversa, e in realtà mille
teste di seguito non capitano una sola volta, ma un numero infinito di volte!".
Poiché Davies non può essere così scemo, bisognerebbe dire che è bravo. Ma anche
così, che
significato può avere l'affermazione che per ottenere una sequenza di mille
teste - o un'infinità di
sequenze di mille teste - si richiede un numero infinito di lanci o, equivalentemente, un tempo
infinito? Chi dispone di un'infinità di lanci o di un tempo infinito? Le
infinite probabilità di trovare
un pianeta identico con un identico me stesso che abiti in una casa identica di
un'identica città -
dovrebbe dire Davies - si trovano nel dominio delle quantità infinite. Ma così,
probabilmente, i suoi
lettori capirebbero ...
Il creazionismo ateo
Il famoso zoologo Richard Dawkins ritiene di aver provato definitivamente
l'inesistenza di Dio nel
quarto capitolo del suo ultimo libro ("L'illusione di Dio", R. Dawkins, Mondadori, 2007). Si appella a "un darwiniano risveglio
della coscienza" per
liberare il pianeta dall'opprimente illusione di Dio e intende farlo con i testi
di Darwin e con quelli,
non meno autorevoli, che lui stesso ha scritto. Ne fa quasi una questione
personale e in questa appassionata missione chiama alle armi mezzo mondo di
poveri atei, fornendo loro
addirittura un
salvifico numero telefonico per non credenti di ogni latitudine onde sottrarli
agli agguati agli abusi del catechismo. Al Discorso della Montagna oppone
la scalata al Monte
Improbabile delle strutture organiche: e alla gloria dei cieli contrappone "il
mondo inanimato della
cosmologia" e l'infallibile ricetta "acqua-focherello-fuoco".
Ma il cielo e la terra non sono né vuoti né inanimati. È vero che il "Disegno
Intelligente" sembra
"l'unica alternativa al caso che il creazionista riesce a immaginare", ma se
Dawkins vuole rompere a
sua volta con Darwin spiegando l'apparizione della vita e il Big Bang a cui
aderisce con la selezione
naturale, allora è la scienza più accreditata che ci obbliga a dover credere
alla più grande deficienza di pensiero di tutti i tempi.
Darwin ha realmente SCOPERTO le modalità dell'apparente evoluzione della materia
organica. Il suo
formidabile algoritmo, la selezione cumulabile in collaborazione col caso,
funziona sempre perché
opera SEMPRE. Non ci sono dubbi né punti deboli in questa scoperta universale:
la speciazione è
un'evidenza empirica sotto gli occhi di tutti, ma come possa poi la sola
pressione selettiva produrre
un occhio alla cieca o tutta la selvaggia complessità di un cervello, è una
questione che va molto al
di là delle scoperte di Darwin. La questione non è solo semplicemente "aperta",
ma palesemente
irrisolvibile con il darwinismo. Il dramma vero, come vedremo, è che Dawkins lo
sa benissimo.
Nessun caso potrebbe mai materializzare a caso un'"odiosa prima cellula" dotata
di un'accidentale
proprietà di riprodursi. Una simile evenienza non avrebbe più probabilità di
quante ne disporrebbe
un ciclone (per usare l'analogia di Fred Hoyle) stazionante sopra un deposito di
rottami, di
assemblare un Boeing 747 perfettamente funzionante (questa celebre analogia è
stata criticata dallo stesso Dawkins senza tener conto della sua formulazione
originaria). In opzione è stata
proposta anche la
realizzazione di una copia perfetta della Gioconda prendendo a secchiate di
vernice una tela per un
tempo indeterminato, ma Dawkins non ha tutto il tempo di Paul Davies o di Max
Tegmark. Non ha
più di un miliardo di anni dalla formazione della Terra per realizzare una
cellula che all'improvviso
e senza intoppi prenda prodigiosamente a replicarsi, ed è un miracolo questo che
non si può
ottenere per caso o per piccoli passi come invece quello di un Sapiens da un
Australopiteco.
Evidentemente la moltiplicazione dei pani è una noce troppo dura anche per lui.
Ma non lo è certo per il cosmologo della Stanford, Leonard Susskind che vede nel
darwinismo
radicale di Dawkins l'autenticazione del "mosaico di universi a bolle che si
impone come naturale
teoria del multiverso". "Darwin e Alfred Wallace - dichiara - hanno fornito un
parametro cardinale
che vale non solo per le scienze naturali, ma per la cosmologia" ("Stringhe
e l'Illusione del Progetto Intelligente", L. Susskind, N. Y., 2006). Lo sciame
infinito di universi-bolle sostenuto dall'inflazione perpetua - prosegue in apnea
- ingenera un
meccanismo cosmico
inesauribile in cui deve operare la selezione naturale.
È sorprendente come il talentuoso Dawkins, che con tanto metodico rigore si scaglia contro ogni creazionismo, finisca poi per consegnarsi all'"immane esplosione che ha prodotto l'universo" o addirittura all'"inflazione perpetua". L'ironia non è fuori luogo: forse anche lui, fra un'impeccabile descrizione di una duna che avanza sull'altra, non riesce a sottrarsi alle tentazioni del deserto? Nei fatti i suoi richiami sempre più frequenti al multiverso concorrono al fraintendimento generalizzato che queste invenzioni provengano dalla ricerca sperimentale più avanzata. Alla fine la gran palla irrompe sul tavolo dell'epistemologo di tendenza, che dopo qualche precauzione la smista al codazzo di assistenti e collaboratori come la nuova meraviglia scientifica appena arrivata in segreteria.
Ecco come chiosa in proposito l'emergente filosofo della scienza Telmo Pievani:
"La vita è emersa
3,5 miliardi di anni fa, sul terzo pianeta di un sistema solare periferico di
una galassia di medie dimensioni che si sta allontanando dal centro di un
universo in espansione, originatosi 12
miliardi di anni prima (?). Non sappiamo per ora se vi siano altri universi
paralleli a questo né se
all'interno del nostro vi siano altri esperimenti in corso" ("L'evoluzione
della mente", a cura di Telmo Pievani, Sperling, 2008).
Il caso volontario
Appeso al caso e all'improbabilità statistica della vita, il neodarwinismo
ortodosso ipotizza
grettamente che un'escrescenza organica o viene annullata col tempo o diventa
una zampa, una
coda, un tentacolo, una pinna... Se si precisa che la necessità crea l'organo
solo per mezzo della
casualità e della pressione selettiva, la vita appare come un'improbabile
cattedrale tirata su da
nessuno, le cui elaborate strutture progettate da nessuno vanno poi a iscriversi
nel codice genetico
fatto da qualcuno e replicato per qualcuno. O la vita in analogia a una
formazione carsica esiste
senza scopo in balia di forze cieche, oppure agisce volontariamente per cause
straordinarie in un
universo che esiste per cause straordinarie.
Si direbbe che in questo settore non ci riesce di cavare un ragno da un buco. La
questione di fondo
sulla quale gli epistemologi continuano a rompersi i denti non sembra
svincolarsi dalle ben note
restrizioni kantiane, di cui delle due l'una: 1) o il caso ha preliminarmente creato l'universo
(FINITO O INFINITO CHE SIA) e in tal caso i
cosmologi dicano come ha fatto, oppure 2) l'eterno preesiste logicamente al caso e i
cosmologi sono
rovinati.
Il dilemma tuttavia non ha bisogno di essere precisato in termini dotti: anche a prima vista appare inverosimile che il caso e la selezione naturale possano giustificare la sostanza cosmica, finita o addirittura infinita che sia.
C'è poi lo stupefacente bollettino quotidiano delle sperimentazioni biochimiche
che investono le
cosiddette "assurdità di Lamarck", quelle che Darwin stigmatizzava come
"insostenibili" quando
cercavano di affermare una tendenza al progresso biomorfologico tramite "gli
adattamenti derivanti
dal lento volere degli animali". La decisiva questione sembra essersi spostata
all'interno dei
laboratori: è certo che Darwin non avrebbe mai potuto prevedere il formidabile
sviluppo della
genomica, della biologia molecolare e dell'ingegneria genetica e se è vero che
occhi azzurri, capelli
biondi, o immunità dallo sviluppo di particolari malattie sono ancora un po'
poco per esibire un
"superuomo", non c'è dubbio che i biochimici contemporanei sarebbero già in
grado di allungare in
provetta "il collo alle giraffe" e quindi di realizzare quegli impossibili
adattamenti derivanti "dal
lento volere" delle forme di vita.
È allora esattamente il programma di Lamarck! E anche se è presumibile che ben pochi desidererebbero essere "un clone di laboratorio", due mammouth o dieci Maradona potrebbero far comodo a chiunque. Al di là dei problemi etici che solleva questa teleologia che non ci appartiene più di quanto appartenga alle potenzialità della vita, il processo in sé sembra ineludibile. La complessità che forzosamente vediamo crescere e moltiplicarsi dentro di noi come un destino che ci prevarichi, deve tuttavia trovarsi all'interno e non all'esterno del sistema fisico. È dunque un po' l'equivoca "anima del mondo" che tanto deprime i materialisti e insieme lo sconcio Pan che offende i trascendentalisti: che non può evidentemente creare le cose ma che poi coincide con il loro funzionamento. Ed è anche l'insopportabile eresia che i valletti dell'Intelligent Design vorrebbero rimpiazzare con il loro Dio delle Manopole posto ai comandi dell'universo, che progetta le leggi della fisica, che regola costanti, collauda particelle e sperimenta forme di vita sempre più sofisticate.
Come ha già detto Fred Hoyle sul "greve" argomento, "se è mai possibile o
auspicabile una qualche
trascendenza, questa deve trovarsi all'interno del Mondo" ("La Natura
dell'Universo", F. Hoyle, 1952).
Non sappiamo nulla?
Questa inevitabile escursione nella vita che esplora la vita evidenzia
l'intreccio di preconcetti che
coinvolge atei, panteisti e religiosi che operano nell'ambito scientifico. Con
le dovute sfumature, per gli atei i panteisti sono mistici e i religiosi fanatici. Per i
panteisti gli atei sono
gretti e i religiosi utopisti. Invece per i religiosi gli atei sono diabolici e i
panteisti eretici. Ancora, per gli atei e i religiosi il fenomeno
della vita potrebbe benissimo essere un fatto unico accaduto solo qui a
causa della sua estrema
improbabilità o per via dell'intervento divino, mentre per i panteisti, con tutto
l'universo a
disposizione, sarebbe assurdo se la vita fosse comparsa solo qui. E poiché
l'assenza della prova
non coincide con la prova dell'assenza, solo atei e religiosi rischierebbero
pesanti revisioni dei loro
schemi concettuali in caso di scoperta di forme di vita extraterrestri.
Il problema più spettacolare è che un universo "darwiniano" da solo non sta in
piedi. Lo rileva in
modo del tutto inatteso lo stesso Dawkins, che in un passaggio ben dissimulato
del suo "L'Illusione
di Dio" tradisce le ambizioni del riduzionismo di risolvere il mondo con il solo
caso e la selezione naturale: "QUANDO
SI TRATTA DI SPIEGARE PRODIGI DI IMPROBABILITÀ COME UNA FORESTA PLUVIALE, UNA BARRIERA CORALLINA O UN UNIVERSO - scrive testualmente il più grande zoologo
del mondo - NON È DETTO CHE SI TRATTI DELLA SELEZIONE NATURALE".
È davvero un'ammissione
clamorosa, che scuote tutto
lo scientismo sbruffone del momento e i delicati equilibri interdisciplinari
faticosamente raggiunti.
Dunque anche Dawkins sa, o almeno teme, che il caso e la pressione selettiva
sono solo compagni
di viaggio che tutt'al più gestiscono ma di sicuro non generano il Sistema del
Mondo! Dunque la
mente - di un uomo, di un gorilla, di una balenottera o di una zanzara - con
buona pace di alcuni
neuroscienziati che adesso potrebbero rischiare il posto, non è stata originata
ma solo mediata dalla
selezione naturale. Ma allora essenzialmente cos'è? Cos'è dunque per Dawkins
l'occhio che
tormentava Darwin? Cos'è la vita, cos'è una foresta pluviale, cos'è una barriera
corallina? Come
sono apparse? E che diavolo è l'intero universo? Come si fa a definirlo un
"fenomeno naturale"? È
forse un problema di fisica o di meccanica quantistica? È un incidente? È un
oscuro miracolo?
Alla fine - avvertiva il filosofo Hans Gadamer - "viene pure il momento in cui
dobbiamo confessare
che non sappiamo nulla". Cioè in pratica che non sappiamo dove siamo, non
sappiamo chi siamo e
nemmeno da dove veniamo. Dire che veniamo dall'universo e che andiamo con
l'universo non aiuta
gran che: alla sua massima distanza dalla mente, la materia cosmica mostra
titaniche storie di gas e
polveri, plasmi ad alta energia, stelle nascenti e talora esplodenti in un
intreccio ininterrotto di
ammassi e ammassi di galassie... Allora dove siamo? Forse sul terzo pianeta di
un sistema solare
periferico di una galassia di medie dimensioni? Già, ma che significa? Anche
liquidando l'assurda
dilatazione dello spazio, gli universi paralleli e la puerile mitologia
dell'esplosione del tempo, il
macrocosmo ripropone un'ampiezza di scala che è irriducibile ai concetti
antropomorfi di "origine"
o di "significato" e rafforza il sospetto che ciò che chiamiamo materia sia
intenta a sperimentare
tutte le sue potenzialità.
È un fatto osservativo finora non smentito che le stelle più antiche che siamo
in grado di studiare
nell'universo non superino i circa 15-19 miliardi di anni. Anche se non si vede
una ragione di ordine
superiore che faccia coincidere la loro età con quella dell'"intero" universo,
resta da comprendere
quale è il destino che le accomuna e che al di là della cosiddetta "sequenza
principale" coinvolge l'età
stessa delle galassie. Le età delle stelle sono di norma stabilite in base a
modelli teorici della
loro struttura interna attraverso misurazioni di sezioni d'urto di interazioni
atomiche effettuate in
laboratorio, che poi sono integrate da stime sistematiche delle temperature e
delle luminosità. Ed è
pur vero che sebbene l'età dell'universo sia "risolta" dalle scansioni
effettuate dal satellite WMAP
sulla "temperatura fossile" di 2,7 K° in ragione di 13,7 miliardi di anni, molti
astrofisici indicano con forza un limite inferiore di 16 miliardi di anni per le
stelle più vecchie della nostra Galassia PIÙ
PROBABILMENTE VICINE AI 19 MILIARDI,
con l'aberrante conseguenza che queste
stelle risultano essere
più antiche dell'universo stesso.
Se infine si è disposti a sorvolare sul Big Bang e sui dipartimenti di cosmologia, sembrerebbe ragionevole affermare che gli astri più antichi che siamo in grado di vedere abbiano al massimo una ventina di miliardi di anni. Che sono certamente troppi per le teorie correnti, ma che impongono un LIMITE TEMPORALE alle popolazioni stellari che si avvicendano nei vortici che poi chiamiamo "galassie". Il mondo degli oggetti cosmici dunque, così come lo conosciamo, sembrerebbe richiedere una qualche trasformazione a partire da stati precedenti, che però non sembrano affatto evidenziarsi attraverso le indagini strumentali. Le osservazioni raccolgono invece fortissime evidenze che le composizioni stellari delle galassie - e quindi in prima approssimazione le loro età - siano estremamente diverse, e che quando si vanno a confrontare i contenuti di "metallicità" in base all'assunzione convenzionale che i redshift rappresentino comunque la misura delle loro distanze, l'universo non sembra per nulla "primitivo".
In uno scenario evolutivo, infatti, la formazione dei metalli nelle stelle richiederebbe l'accumulo di molte generazioni di supernovae, cosi che gli oggetti più lontani dovrebbero inevitabilmente esibire i loro caratteri primordiali, cioè in pratica l'assenza o comunque la carenza di questi elementi.
Ancora una volta SI OSSERVA ESATTAMENTE L'OPPOSTO, con galassie e quasar presunti lontanissimi ma con percentuali di metallicità che eccedono largamente quelle che riscontriamo nel nostro sole! IL RAPPORTO TRA IL FERRO E IL MAGNESIO ADDIRITTURA AUMENTA ALL'AUMENTARE DEL REDSHIFT E NON È STATO POSSIBILE DOCUMENTARE ALCUNA EVOLUZIONE DEGLI OGGETTI COSMICI IN UN RANGE CHE VA DA SPOSTAMENTO VERSO IL ROSSO Z = 0 FINO A VALORI DI Z = 6,5!!
Anche le quantità di polveri risultano eccezionalmente alte in sistemi ad
elevato redshift e in molti
quasar, mentre le immagini super pubblicizzate delle galassie "più remote"
fotografate con l'Hubble
Telescope mostrano oggetti già perfettamente strutturati con
redshift fino a z =
7 e oltre (Hubble
Deep Field) (Becker et al. A.J. 122, 2850, 2001; Constantin et al. Ap. J. 565, 50, 2002; Iwamuro et al. Ap. J. 565, 63, 2002: Dietrich et
al. Astro-ph / 0306584, 2003; Fredling et al. Ap. J. 587, L67, 2003; Maiolino et al.
Ap. J. Letter, 2003; Barth et al. Ap. J.
Letter, 2003; Dunne et al. Nature 424, 285, 2003),
CHE
COSTITUISCONO UNA VERA E PROPRIA CONFUTAZIONE DELL'IPOTESI EVOLUTIVA ORTODOSSA. È
interessante ricordare che per il punto di vista alternativo quelle galassie non
sarebbero
necessariamente così lontane, ma più probabilmente piccoli sistemi di bassa
luminosità e di alto redshift intrinseco che verrebbero rivelati dalla grande sensibilità e dalle
condizioni ideali in cui si
trova a operare lo strumento spaziale.
Il danno collaterale della verità
Il celebre fisico Richard Feynman non disdegnava di dialogare anche con i
dilettanti più
improbabili. Una volta Alberto Bolognesi, dal quale ho estrapolato questa
pagina, gli scrisse che le sue particelle che andavano indietro
nel tempo erano un
trucco grossolano e lui gli rispose prontamente: "Well Alberto,
may be" ("Bene Alberto, può essere"). Ma quando gli tese un agguato con la complicità dell'allora console di
San Marino Josè
Riba, lo liquidò seccamente girando sui tacchi: "Lei vorrebbe scambiare la relazione di Hubble con
un idealistico
niente". Al che Bolognesì dovette ribattergli: "Meglio altri cent'anni di fiction?". Feynman si
sporse appena e fece con un sorriso o con una smorfia: "La scienza non è mai
stata in mano agli
scienziati"!!!
Sono passati più di trent'anni, Feynman ahimè è morto e la scienza continua a
non essere in mano
agli scienziati. Sono costretti a dichiarare che abbiamo una visione
"panoramica" e rappresentativa
dell'intero universo, che è lo spazio che si dilata a spostare le righe degli
spettri delle galassie e che
l'espansione cosmica deve ora essere intesa come un'accelerazione.
La "scoperta" di questa nuova forza può essere sintetizzata con poche parole:
quando si cercò di
estendere le misure cosmiche alle più grandi distanze impiegando le Supernovae
come candele
standard, sempre tenendo ferma l'ipotesi che il redshift fornisse la distanza
attuale, si constatò che
alcune SN erano troppo deboli rispetto ai loro spostamenti verso il rosso mentre
altre implicavano
potenze inconcepibili. Poiché questo determinava inevitabilmente una costante H0
troppo bassa... fu rapidamente deciso che
L'UNIVERSO DOVEVA AVER
ACCELERATO PER RAGGIUNGERE IL VALORE ATTUALE DI H0 = 72 KM/SEC,
DEDOTTO DA CEFEIDI (STELLE VARIABILI) OSSERVABILI IN GALASSIE PIÙ VICINE! Fu così
definita "la misteriosa energia del vuoto", "l'elusiva dark energy" che in
collaborazione con
titaniche quantità di un'altra sostanza invisibile, "l'onnipervasiva materia
oscura", teneva in piedi
l'imbroglio dell'espansione, accelerandola o rallentandola alla bisogna.
È ciò che Robert Oldershaw denunciava già negli anni Ottanta "come
incontrollabilità totale della
cosmologia" (R. Oldershaw, "American Journal of Phisics", 56, 1075,
1988): il modello del Big Bang può essere modificato a piacere in modo
da poter
recuperare sempre l'accordo con gli esperimenti e con l'osservazione attraverso
congetture che
vengono presentate come scoperte. Possiamo allora augurarci che tutta questa
scienza surrettizia,
quotata ormai anche sulle borse asiatiche e che alimenta la costruzione di
costosissimi collisori
supertecnologici "in grado di riprodurre le pesantissime particelle della
Creazione" vada
tranquillamente alla malora con tutti i tecnocrati, gli inventori di particelle
e i faccendieri senza
scrupoli che dal Big Bang ad Atlantide l'hanno irrimediabilmente pervertita? Ma
chi se la sente di
cassare tanti programmi, tante carriere e tanti destini in nome della "verità
scientifica"? Se Feynman
poteva ancora svignarsela, gli specialisti delle supersimmetrie che abitano
negli acceleratori sono lì
apposta per dar conto del fotino, del neutralino e del dilatone...
La verità è che non ci sono stipendi per passione ed è ovvio che anche i fisici
tengano
preliminarmente alle loro professioni prima ancora che alla collocazione
spaziale dei quasar. Chi ha
veramente nostalgia della "scienza povera"?
Il codice celeste
Ma allora, alla domanda della vita "che cos'è l'Universo", la risposta
scientifica è che non c'è
risposta scientifica. L'incongrua definizione di "ente fisico che contiene tutte
le cose" o quella
assolutamente umoristica di "fenomeno naturale" devono cedere il passo a nozioni
che vanno al di
là della fisica e della geometria e che inevitabilmente riconducono ai vasti
pascoli della filosofia.
Qual è la forma, il contenuto, il passato o il futuro di qualcosa che potrebbe
essere infinito?
Possiamo forse spiegare la gestazione continua delle stelle dal grembo delle galassie con l'analogia della farina mescolata all'acqua calda e alla gravità? Possiamo forse risolvere il mistero dell'estensione, la natura profonda del mezzo siderale e degli abissi extragalattici con un'apposita particella che qualcuno sarebbe già disposto a chiamare "volumino" o "spazione"?
Segregata nell'angusta indecidibilità kantiana, l'isola del "pensato" (che è
tutt'altro dal pensare) continua a
contrapporre
eccentriche divinità che girano manopole per calibrare il Mondo, a creazioni
fisiche accidentali
provocate dal nulla. In opzione l'universo è un ologramma, anzi un multiverso a
bolle, anzi un
frattale, anzi una coscia di pollo, anzi un tubo di giardino teso tra due pali
con sopra una formica (nell'ordine: M. Behe; M. Gell Mann; S. Hawking; M. Rees; L. Pietronero; J.
Silk; B. Green).
Ma nella parte di Mondo in cui possiamo ancora far scienza, quindi in quella
parte che siamo in
grado di monitorare e che ci si rivela come una sovrapposizione di istantanee
sempre più inattuali a
causa della "velocità della luce" (rapidissima alla nostra grandezza di scala ma
lentissima su quella
cosmica), l'espansione dell'universo è un falso provato. La materia celeste
vicina e lontana non
mostra apprezzabili discontinuità: nella sua spettacolare estensione la si
potrebbe definire una
spettacolarità perfino monotona, dove tutto sembra esistere e insistere. In
flagrante contraddizione
delle nostre teorie correnti, la cosmologia osservativa colleziona continue
espulsioni di quasar di
bassa luminosità e di alto redshift dai nuclei eccitati di galassie attive
accompagnate da imponenti
emissioni di materiale radio e in alta energia, X e gamma. Il gran numero di
oggetti espulsi
suggerisce uno scenario empirico di evoluzione NON CASUALE da quasar a galassie
compatte: a partire
da plasmoidi gassosi che emergono dai nuclei e che procedono a formare atomi e
poi stelle, sempre
e invariabilmente da alti redshift verso
redshift più bassi,
GLI OGGETTI E LE
GALASSIE PIÙ GIOVANI SONO QUELLI CHE ESIBISCONO GLI SPOSTAMENTI VERSO IL ROSSO
INTRINSECI PIÙ ELEVATI.
Il passaggio cruciale per la nostra sempre più ristretta possibilità di capire è
che l'origine espulsiva
dei quasar ad alto redshift dai nuclei delle galassie attive a più basso
redshift comporti una funzione
replicativa e moltiplicatrice della materia cosmica. Funzione CODIFICATA e
INTERNA, bisognerebbe
aggiungere, perché le emissioni di getti così collimati nello spazio e così
persistenti nel tempo
debbono obbedire a procedure già inscritte nella fisica dei nuclei stessi al
centro delle galassie e che
sono irriducibili a una dinamica fisico-chimica meramente contingente.
Questo riecheggia un'antica eresia che non ha a che fare né con il Dio delle
Manopole né con i
Capolavori del Nulla: sembrerebbe stupefacente ma anche ovvio concludere che
nella parte di
universo che riusciamo ancora a osservare, assistiamo a un ininterrotta "mitosi"
della materia
cosmica che si tramanda e che si diffonde come un codice attraverso quegli
immensi organismi celesti che chiamiamo galassie.
***
Bibliografia essenziale: Alberto Bolognesi, "IL CODICE CELESTE" di Alberto Bolognesi