Cavallo pegaseo einsteiniano

e superamento

 

Fonte: Nota della Redazione di Frigidaire di F. S. (1986)

in "Scritti di critica alla Teoria della relatività (1984-1986)"

di Roberto Monti Ed. Andromeda (di Paolo Brunetti)

 

A cura di Nereo Villa

 

Presentazione

Il libro di Roberto Monti che raccoglie le critiche alla teoria einsteiniana dal 1984 al 1986 si conclude con questa sintetica nota redazionale di Frigidaire, da me intitolata "Cavallo pegaseo einsteiniano e superamento", in quanto la fede nella giustezza delle formule relativiste (per esempio quella del moto precessionale di Mercurio) è simile alla vergognosa fede nell'asina parlante nella Bibbia (Numeri 22,28). Il messaggio di Roberto Monti risuona in me come quello di Giordano Bruno. Occorre saper dire basta alla fede negli asini parlanti, diceva il Bruno nella sua "Cabala del cavallo Pegaseo" e imparare a cavalcarli (Mt. 21,7) anche se si credono cavalli... Ed oggi, la maggior parte dei fisici è proprio simile a un'asina malata che si crede scattante come un cavallo nell'insegnare scienziaggini al popolo bue...

Chi accoglierà la seguente sintesi, avrà in sé la possibilità di chiudere la bocca a tali cattivi maestri, non in base a relativismo culturale ma secondo logica di realtà, oggi in verità alquanto rara... Buona lettura.

Nereo Villa, Castell'Arquato, 7 luglio 2018

Tutte te le affermazioni contenute nei due postulati della relatività speciale di Einstein comportano precise conseguenze quantitative sperimentalmente verificabili. Perciò è solo in base a risultati misurabili che quei due postulati possono essere riconosciuti sperimentalmente fondati o infondati. Questi postulati dicono che l'ambito o il mezzo in cui avviene il propagarsi delle onde elettromagnetiche, cioè l'Etere, «non esiste». Non esistendo, non possono ovviamente nemmeno esistere delle sue «particolari proprietà» fisiche, cioè proprietà suscettibili di definizione e di misura. Il moto ondulatorio della luce è perciò descritto in dette affermazioni da un'equazione puramente matematica che si chiama equazione d'onda e nella quale comparirebbe una costante universale, detta «velocità della luce», definibile come rapporto tra la lunghezza di un percorso chiuso ed il tempo impiegato da un'onda elettromagnetica per percorrerlo. Trattasi dunque di velocità cinematica della luce, anche se la sua equazione prescinde da qualsiasi termine di dispersione, dato che per esse non esisterebbe l'ambito o il mezzo a cui imputare una dispersione. Il moto di un'onda elettromagnetica sarebbe, di conseguenza, perpetuo e incorruttibile. Questa visione sempiterna e perfetta del moto ondulatorio, elettrico e magnetico è però una rappresentazione logica astratta, cioè priva di realtà. La realtà non può essere data da un mero pensiero privo di controparte fisico-sensibile. D'altra parte, nemmeno può essere data da una mera parte fisico-sensibile priva di controparte di pensiero. Occorrono entrambe le fonti per procedere secondo logica di realtà.

Allora, se si è in grado di accogliere il concreto reale, la visione cambia e si può ben dire che il mezzo o l'ambito, nel quale la propagazione della luce ha luogo, esiste. Infatti due delle sue particolari proprietà sono definibili e misurabili: una è la permittività elettrica, normalmente indicata col simbolo ε (per es.: ε0 = permittività del vuoto) ed esprimente l'attitudine di un materiale dielettrico in presenza di un campo elettrico (per es.: l'umidità atmosferica dell'aria di fronte a un fulmine). L'altra è la permeabilità magnetica (normalmente indicata col simbolo µ (per es.: µ0= permeabilità del vuoto) ed esprimente l'attitudine della materia a magnetizzarsi in presenza di un campo magnetico (per esempio il comportamento di un chiodo di fronte ad una calamita).

In base a queste caratterizzazioni del moto ondulatorio della luce (permittività elettrica e permeabilità magnetica) è possibile accorgersi che la cosiddetta velocità della luce è appunto la «velocità elettromagnetica della luce», la cui equazione comporta però un termine di dispersione il cui coefficiente risulta essere il prodotto della permeabilità magnetica e di una terza «particolare proprietà» elettrica del mezzo: la conducibilità elettrica (normalmente indicata col simbolo σ esprimente la conduttanza elettrica specifica di un conduttore).

In tal caso il moto di un'onda elettromagnetica non può dunque essere perpetuo né incorruttibile.

Come dimostrarlo?

La Relatività einsteiniana non nega la validità delle leggi sperimentali dell'elettromagnetismo. Però ammette una sola costante universale (la "velocità della luce"), identificando perciò la velocità cinematica con la velocità elettromagnetica della luce.

Partendo dalle equazioni di Maxwell si può invece distinguere la costante reale della teoria elettromagnetica come «velocità elettromagnetica», mentre la «velocità cinematica», come mostra l'esperimento di Michelson e Morley, è sì uguale in ogni direzione nell'ambito di un medesimo sistema di riferimento per qualsiasi percorso chiuso, ma dipende dalla cinematica (cioè dal moto rispetto all'etere) del sistema di riferimento, in modo tale da risultare sempre inferiore alla velocità elettromagnetica.

Ora, proprio in base alle misure effettuate, non si può ritenere sperimentalmente provata l'identità tra velocità elettromagnetica e velocità cinematica della luce, dato che la prima (velocità elettromagnetica della luce) misura 3,001 · 108 m/s, mentre la seconda velocità (velocità cinematica della luce) misura 2,99792458 · 108 m/s. In base a queste misurazioni, la velocità elettromagnetica risulta essere maggiore della velocità cinematica.

E poiché dal 1905 non sono più state effettuate misure elettromagnetiche della velocità della luce, sarebbe ora di ripeterle, dice Roberto Monti, soprattutto in considerazione dei progressi tecnologici conseguiti in questi ultimi ottant'anni nel campo della metrologia.

Inoltre: dal momento che le definibili e misurabili «particolari proprietà» del moto luminare (permittività elettrica e permeabilità magnetica) hanno un ruolo anche nella fisica einsteiniana, bisognerebbe chiedersi di cosa siano proprietà se in tale fisica si nega a priori l'esistenza dell'Etere. La questione dunque resta aperta. 

La stessa domanda non si pone per la «particolare proprietà» della conducibilità elettrica solo perché tale fisica la pone arbitrariamente uguale a zero.

L'esperienza però mostra, sulla base dell'attuale tecnologia e dei dati sperimentali ad essa conseguenti, che anche la conducibilità elettrica è misurabile. Essa si manifesta attraverso la perdita d'energia dell'onda elettromagnetica il cui moto non è dunque - ripeto - né perpetuo né incorruttibile.

Una terza «particolare proprietà» viene così ad aggiungersi alle altre due di quel mezzo che secondo Einstein «non dovrebbe averne perché non c’è» (viene, in realtà, a riprendere il proprio posto nell'Etere).

Elementare, Watson!

La velocità della luce riassume dunque, grazie alle sacrosante osservazioni di Roberto Monti, il suo normale ruolo di velocità finita e superabile.

Oltretutto, mentre gli astrofisici di regime hanno il loro da fare tentando disperatamente di dichiarare «apparenti» tutte le velocità superluminali che saltano fuori da ogni parte del Cosmo, l'unica cosiddetta «prova indiretta» dell'einsteiniana impossibilità di superare la velocità della luce che resta in mano ai Particellai (Fisici delle Particelle Elementari, per gli amici) consiste nel fatto che facendo fare il surf a una particella su un'onda elettromagnetica dentro un acceleratore, la particella non supera mai la velocità dell'onda. Ma se per avere un termine di confronto nel valutare il Q.I. di questi cervelloni porrete la questione al vostro bambino di tre o quattro anni, avrete più o meno la seguente scenetta: «Senti piccolo, se hai una macchina che quando schiacci l'acceleratore al chiodo fa 100 kilometri all'ora, se ci carichi sopra il tuo orsacchiotto quanti kilometri all'ora puoi fargli fare al massimo? Uno? Due? Sentiamo. Cosa rispondi?». La risposta sarà: «Cento kilometri all'ora, papi». E darà questa risposta perché, frequentando solo il primo o il secondo anno di Scuola Materna, nessuno gli avrà ancora insegnato la Relatività.

Ma torniamo a cose serie.

Fin dal 1846 Laplace aveva dimostrato che la stabilità dei moti planetari era compatibile solo con l'ipotesi che la velocità dell'interazione gravitazionale fosse almeno seicento milioni di volte superiore alla velocità della luce. Che è quanto basta per mantenere frequenti e interessanti rapporti di buon vicinato anche con le più lontane galassie dell'Universo visibile (cosa della quale, peraltro, non si dovrebbe mai dubitare). Ma i fisici del '900 furono troppo indaffarati ad inseguire il sogno einsteiniano di racchiudere l'intero Universo in una sola teoria, per farci caso. In altri termini: non ci sono Colonne d'Ercole. Si tratta solo di imparare a nuotare.

E basta dunque anche con le cosiddette «prove indirette» della Relatività ristretta!

La Relatività costituisce il primo esempio di teoria fisica post-galileiana che non sia mai stata tenuta a rispondere della validità sperimentale dei propri postulati.

Un dato di fatto sconcertante, ma un dato di fatto, che in quanto tale ha, intanto, una storia: dal 1865 al 1905 venne accumulandosi, in fisica, una serie di dati sperimentali che restavano in attesa di una teoria. La prima teoria ad essere avanzata per interpretarli fu la Relatività einsteiniana. Le sue contraddizioni erano tuttavia così evidenti che nessuno dei fisici contemporanei la prese seriamente in considerazione. Rutherford, ad esempio, non le attribuiva alcuna importanza, e a Wien che, dopo avergli inutilmente spiegato gli errori di Newton, concludeva: «Ma nessun anglosassone può capire la relatività», egli aveva risposto: «È vero. Abbiamo troppo buon senso».

La Relatività fu comunque la prima e l'unica. Nessun altro, cioè, fu in grado di avanzare una teoria alternativa fondata su un diverso insieme di postulati che, come la Relatività, consentisse un'interpretazione coerente delle leggi sperimentalmente provate esistenti. Perciò, senza avversari con cui confrontarsi, nonostante le sue contraddizioni, la Relatività fini per restare padrona del campo. E una volta padrona del campo fu esonerata dal dare altre prove di sé da quelle «indirette» che già aveva fornito. Non solo: le furono attribuite anche le spoglie dei «vinti». Un esempio è quello della famosa equazione: E = mc² normalmente attribuita ad Einstein mentre fa parte del patrimonio della fisica classica praticamente fin dalla sua «fondazione» newtoniana. Basti citare Newton Ottica 1717:

«Non sono forse materia e luce convertibili l'una nell'altra, e non può la materia ricevere la maggior parte della propria attività dalle particelle di luce che entrano anche nella sua composizione? Il tramutarsi di materia in luce e di luce in materia è del tutto conforme al corso della natura che sembra deliziarsi di trasmutazioni» (e se non basta c'è Laplace, Maxwell, Nichols, Hull, ecc. ecc.).

Ma proprio in quanto Monti dimostra che «tutti i risultati sperimentalmente provati attribuiti alla teoria della Relatività ristretta (contrazione dei corpi in movimento, dilatazione temporale, variazione della massa inerziale con la velocità, effetto Doppler trasversale) possono essere coerentemente interpretati sulla base dell'ipotesi secondo cui la velocità elettromagnetica della luce è diversa e maggiore della velocità cinematica» (Seagreen, n. 1, p. 70), tali risultati non possono più essere considerati come "prove indirette» della validità della teoria einsteiniana, che è dunque tenuta, finalmente (se non vuole permanere nel mero campo della SUPERSTIZIONE) a fornire quelle «prove dirette» della validità sperimentale dei propri postulati dalle quali è stata fino ad oggi esonerata.

 

E, scusatemi, se è poco... Ottant'anni di cialtronerie! Diceva Roberto... Ma oggi è un secolo! Un secolo di puttanate! O tempora! O mores! Galileo! Newton! Sento le vostre ossa rivoltarsi nella tomba!