Quando riaprì gli occhi, Ruke scoprì di essere nel proprio letto, nella propria stanza. Era a casa. Lo dimostravano le suppellettili e i poster, gli armadi e la fragranza delle lenzuola così familiare.
Sentiva la testa pesante come se fosse reduce da una sbronza. Si sentiva un po' confuso: “che giorno è?”, si chiese.
Anche il corpo era pesante, stanco e provato.
“Ben svegliato!”
La voce di un uomo. Ricordava di averla già sentita. Già, ma dove?
Non lo ricordava.
Anzi, a dire il vero tutto gli appariva caotico e insensato: cosa ci faceva un'altra persona in casa sua?
L'uomo, nella penombra della camera, di fronte ad una finestra oscurata dalla tapparella abbassata quasi del tutto, sedeva su di una poltrona. Aveva lunghi capelli scuri e due occhi chiari, freddi. Vestiva di nero e sopra gli abiti indossava un impermeabile chiaro. Era lo stesso uomo, ora lo rammentava, che aveva incrociato nelle toilette di quel locale in cui…
Non ricordava bene cosa fosse accaduto: cosa era accaduto in quel locale? Con chi era?
Non aveva risposte, solo brandelli di ricordi, fugaci immagini che transitavano rapide e poco comprensibili nella sua memoria. C'era dell'altro, qualcosa che avrebbe dovuto sapere. Ma non riusciva a mettere a fuoco nulla in quei pochi ricordi frammentari che possedeva.
L'uomo nel frattempo, continuava ad osservarlo con freddezza. E Ruke lo osservò a sua volta. Ebbe come l'impressione che se ne fosse rimasto tutto il tempo ad osservarlo mentre dormiva.
Si sentiva a disagio.
“Chi sei?”
Chiese lasciando trapelare più irritazione di quel che voleva.
“Il tuo padrone”
Rispose senza scomporsi. La sua era la voce della verità, le parole di chi dispone degli altri a proprio piacimento senza ammettere alcuna contraddizione.
Continuava ad osservare l'uomo sul letto con le mani incrociate davanti a sé, dinnanzi al volto, mentre appoggiava i gomiti sui morbidi braccioli della poltrona.
“Cosa significa?”
La domanda rimase sospesa a mezz'aria: qualcos'altro attirò l'attenzione di Ruke.
Un pensiero inconsapevole, i sensi all'erta, emozioni in subbuglio: paura, rabbia, curiosità mescolati ad un pizzico di inconsapevole ingenuità per ciò che stava accadendo. Quindi iniziò ad avvertire un certo formicolio al petto.
Tralasciando per un attimo quel suo misterioso interlocutore, volse la propria attenzione alla porta della stanza. Non c'era ancora nessuna sagoma a delinearsi nell'oscurità dell'uscio. Ma Ruke sapeva che c'era qualcuno, ne aveva la certezza.
Un istante dopo comparve una ragazza. Da quel che riusciva a scorgere nel buio contaminato da radi raggi luminosi che filtravano dalla tapparella non del tutto abbassata, la ragazza era molto avvenente. Vestiva in modo da non lasciare troppo spazio all'immaginazione, pochi pezzi di tessuto a coprire un corpo tonico e ben proporzionato.
I suoi occhi felini incrociarono lo sguardo di Ruke. Uno scambio fugace, rapido. L'uomo non seppe dire cosa vi lesse in quegli occhi ma si accorse che il proprio corpo era come in attesa, pronto ad scattare. Come se la ragazza rappresentasse una minaccia.
Provava un misto di attrazione e invidiosa repulsione. La donna avanzò ancheggiando sino alla poltrona su cui, silente, sedeva colui che si era presentato come “il padrone”.
Giunta al suo cospetto si acquattò ai suoi piedi, le lunghe gambe distese verso destra e la schiena appoggiata contro la gamba dell'uomo.
“Lei è Latrina” – disse – “spero diverrete buoni amici”.
Ruke non spesse cosa rispondere per cui si limitò a fissare entrambi. Il formicolio sul petto si era fatto ora più intenso per cui, con la sinistra, si palpò il torace inconsapevolmente alla ricerca di un modo per alleviare quel fastidio. Percepì allora i segni di una cicatrice che non ricordava. E comprese che era quella sorta di presenza aliena alla base di quello strano formicolio che avvertiva.
Rapidamente si mise a sedere e accese l'abatjour per controllarsi meglio. I suoi ospiti misteriosi rimasero tuttavia al buio: appena i polpacci della ragazza vennero coinvolti dalla luce della lampada. Sodi, abbronzati e perfettamente depilati.
Scoprì quindi che non si trattava di una cicatrice ma di una vistosa bruciatura, una sorta di marchio: un cerchio attraversato da linee e croci all'interno di un cerchio ancora più ampio
Seccato e innervosito per l'improvvisa scoperta si rivolse ad entrambi i suoi ospiti ritenendoli, a torto o a ragione, responsabili della marchiatura:
“Cosa mi avete fatto?”
“Quello è il marchio, Ruke”
“Il marchio di cosa?”
L'uomo sorrise e la donna lo imitò subito dopo mentre volgeva il proprio capo all'insù ricercando gli occhi del proprio padrone.
“E' il marchio che sancisce la tua schiavitù. Un voto di obbedienza”.
Come un flash improvviso, un fiume di pensieri e ricordi, gli attraversò la mente per qualche istante. Brandelli e fugaci visioni di una lotta senza quartiere, brutale e bestiale. E poi l'uomo, quello stesso uomo che ora gli sedeva di fronte, che gettava su di lui qualcosa di infuocato.
“Sei stato tu?”
Chiese con rabbia, chiudendo le mani a pugno.
“Non hai sentito il padrone?”
Era la schiava a parlare ora.
“Assurdo! Perché ti dovrei obbedienza? Non devo obbedienza a nessuno!”
“Sssht…calma calma…”
Era nuovamente l'uomo a parlare ora mentre con una mano scorreva i lineamenti del volto della sua serva devota.
“Calma un cazzo! Non so nemmeno chi siete o cosa ci fate in casa mia!”
Ora Ruke era in piedi, completamente nudo, ad alzare la voce contro quei due. Era troppo, ne aveva che basta della loro scomoda presenza. Non sapeva chi fossero o cosa volessero da lui; e se poi era loro la causa di quella bruciatura o marchio che fosse allora aveva tutte le ragioni per incazzarsi e cacciarli fuori di casa sua!
E il mal di testa che iniziava a provare unito al fastidioso formicolio al petto non l'aiutava di certo a calmarsi e ad affrontarli con pacatezza.
“Esigo…”
La frase gli morì i gola. Bastò un gesto del Padrone perché il corpo si immobilizzasse, un unico gesto a generare un incantesimo di controllo su di lui.
I muscoli non gli obbedivano più: era come se si fossero irrigiditi e bloccati all'unisono. Non riusciva a muoversi, né tanto meno a parlare. Anche la respirazione a farsi difficoltosa.
La paura iniziò a impadronirsi di lui e crebbe quando scorso il successivamente movimento dell'uomo sulla poltrona.
Sebbene non avesse un fisico possente come il suo, il Padrone incuteva un senso di misterioso timore. Non si poteva chiamare propriamente rispetto: era più una forma di cupa soggezione.
Gli si avvicinò e iniziò a strangolare Ruke. Lentamente.
“Forse non hai afferrato il concetto, schiavo. Io so di essere paziente ma esigo rispetto. Io sono il tuo padrone e tu mi obbedirai: questa è il tuo comandamento. In eterno quel marchio impresso a fuoco nelle tue carni ti rammenterò questa verità”.
Il volto di Ruke era paonazzo: stava soffocando. E non riusciva a reagire, non poteva! L'uomo smise di stringere ma gli afferrò la testa con entrambe le mani per obbligarlo a guardarlo negli occhi.
“Io ti ho concesso un grande dono. Ti ho reso più forte e più potente di quanto tu sia mai stato o saresti mai potuto diventare. Oh, lo so, lo so, te lo leggo in faccia: tu non l'hai chiesto”.
Sorrideva ingenuo, ora.
Ma tornò serio repentinamente: “Ma è irrilevante, schiavo. L'unica verità che devi tenere a mente è che quel dono ti è stato concesso ad un unico scopo: servirmi. Non dimenticarlo se vuoi continuare a vivere”.
Lo sguardo di Ruke lasciava trapelare la sua profonda indignazione, la rabbia e l'dio per quell'uomo e la sua arroganza. Non comprendeva ancora tutte le implicazioni delle sue minacce ma percepiva chiaramente del nero rancore agitarsi dentro di lui.
“Questa sera, alle otto, verrà un uomo a prenderti. Si chiama Vasta: lo seguirai senza creare problemi. Intesi?”
Sorridi, sorridi bastardo pensò Ruke mentre l'altro gli muoveva la testa come se stesse annuendo.
“Andiamocene”, disse poi.
L'uomo uscì per primo, la donna indugiò qualche istante in più nella stanza.
Accostando le labbra carnose al suo orecchio destro, parlò a Ruke.
“Fai come ti dice: è tutto ciò che ci è concesso”.
Un ultimo sguardo prima di uscire dalla sua stanza.
Non appena se ne furono andati entrambi, Ruke tornò libero e, lasciatosi cadere sul letto si ritrovò a pensare di esser precipitato in un incubo.
E da esso, lo percepiva, non ci sarebbe stato risveglio.
Si portò un braccio sopra gli occhi e attese che il suo animo si placasse.
Doveva esser lucido.
E, soprattutto, doveva ricordare cosa era accaduto la notte precedente.
Leonardo Colombi
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