a cura di Emilia Majorana della Libera Facoltà di Scienze Antiche
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Cenni di cultura antica

La caratteristica di giugno sono i matrimoni; i Romani lo avevano dedicato a Giunone, propiziatrice delle nozze, e per questo la tradizione vuole che le nozze celebrate in questo mese siano le più fortunate. Iunius chiamavano i Romani il mese di giugno, ma già ai tempi di Ovidio non se ne conosceva l'etimologia. Il poeta dei "Fasti" ne elencava più interpretazioni: sarebbe derivato da Iuno (= Giunone); oppure dagli iuniores (= i giovani), in contrapposizione a maius, quale mese dei maggiori (= gli anziani); o infine dalla "iunctio", dalla congiunzione dei popoli romano e sabino. L'interpretazione meno infondata è forse la prima, se si presta fede a Plutarco, che fra le ipotesi sul divieto di sposarsi a maggio includeva anche la contrapposizione di questo mese a quello sacro a Giunone, la dea dei matrimonio.

Non diversamente Ovidio nei "Fasti" faceva dire alla dea che gli era apparsa: "Come? Una concubina poté dare al mese di maggio il nome, e questo onore a me sarebbe tolto?". Secondo Dario Sabbatucci la contrapposizione impostata con questa frase è fra Giunone, la dea di giugno che figura come la legittima sposa di Giove, e Maia, la dea di maggio che, assimilata alla ninfa greca madre di Hermes, figura come semplice amante di Giove; nell'una, come in giugno, è presente l'istituto matrimoniale, nell'altra, come in maggio, è assente. La tradizione romana secondo cui giugno era il mese più adatto ai matrimoni si è trasmessa, nonostante venti secoli di cristianesimo, fino a noi, tant'è vero che ancora adesso nelle provincie più fedeli alle consuetudini ci si sposa preferibilmente in questo periodo.

Nel Medioevo il rosso era il colore preferito per i riti nuziali. Il colore porporino rappresentava il coraggio, la fiamma e il sangue nuovo, sinonimo di continuità della stirpe.

Nell'800 le amiche della sposa, oltre ad una "cosa usata, una prestata, una nuova e un nastro azzurro", donavano all'amica un fazzoletto di bisso candido ricamato con simboli di fertilità: la melagrana, la ghianda, il tralcio d'uva, oppure rami d'edera, roselline e nodi d'amore, segni di fedeltà. Quando un giovane aveva deciso seriamente di far la corte a una ragazza, si recava dai suoi genitori a chiedere il consenso di “parlarle”. Una volta ottenutolo, poteva recarsi in casa di lei in giorni che erano, per tradizione, rigorosamente fissi: prima il giovedì, e poi anche il martedì, il sabato e la domenica (ma, poiché il lavoro non lasciava tempo, non si sfruttavano mai tutti i giorni concessi). Le visite avvenivano comunque sempre in presenza di una terza persona. Veniva finalmente il giorno delle nozze, che era quasi sempre il sabato mattina. Prima del Concordato del 1929, il matrimonio civile e quello religioso venivano celebrati separatamente, anche in tempi diversi. Allora il matrimonio civile era considerato una vuota formalità ed unico valido era ritenuto quello religioso.

Si riteneva che le ragazze appartenenti a famiglie nel cui orto o vicino alla cui casa si coltivavano degli oleandri, non si sarebbero maritate. Per questo le ragazze non volevano oleandri in casa e, se c’erano, si adoperavano perché fossero allontanati. Quando si versava da bere, non bisognava mettere dell’altro vino nel bicchiere non ancora vuoto del compagno o dell’ospite, altrimenti costui non si sarebbe sposato.

Non bisognava mai spazzare davanti ai piedi di una donna, altrimenti questa non si sarebbe più sposata. Si credeva che chi avesse mangiato in un “pignàto”, in una “técia” (= tegame), o in una “pignàta” (= pentola), anziché servirsi di un piatto fosse destinato a sposarsi in un giorno di pioggia. In taluni paesi si diceva che una ragazza che, mangiando, lasciava cadere poche “frégole” (= briciole) avrebbe sposato un “siòr” (= uomo ricco) e in altre parti si diceva che avrebbe sposato un “poarèto” (= povero). In qualche luogo si pensava che chi mangiava il “bocòn dela vergogna” (cioè, l’ultimo boccone che rimaneva nel piatto comune in cui era stato offerto del cibo agli ospiti) fosse destinato a sposarsi entro l’anno. Si credeva che una ragazza, che nel fare il bucato in casa si bagnava più del normale, avrebbe sposato un ubriacone. Se per nove sere consecutive si osservavano e si contavano noce stelle e l’ultima sera si dormiva poi con uno specchio sotto il cuscino, si sognava la persona con cui ci si sarebbe sposati.

Nella località di Santorso, osservando le stelle, si recitava la seguente formula: Luna lunària / tuto ‘l mondo varia / tuto ‘l mondo fa desìo / fame savér qual sia me marìo. Lungo la strada del ritorno dalla chiesa nella quale si era celebrato il rito delle nozze (a Santorso era, però, nell’andata) capitava spesso che il corteo nuziale trovasse, poco prima di giungere a casa, la strada chiusa dalla “siéssa”. La siéssa era uno sbarramento formato da pali, tavole, reticolati, suppellettili o attrezzi più o meno vecchi e addirittura carri o altro. Toccava allo sposo o a un compare liberare il passaggio aprendo un varco in quella specie di barricata in modo che il corteo potesse proseguire. In taluni luoghi era tradizione che il materiale col quale era formato lo sbarramento diventasse di proprietà dello sposo o di colui che aveva aperto il varco, mentre a chi l’aveva fatto spettava un bicchiere di vino. La siéssa aveva un significato simbolico facilmente riconoscibile: essa voleva dire infatti che la sposa era illibata.

Durante il tragitto da casa alla chiesa, la sposa non doveva mai voltarsi indietro, quasi a significare il distacco dal mondo che lasciava per entrare nella nuova famiglia. Il voltarsi era considerato segno di malaugurio. Il giorno del matrimonio la sposa regalava un fazzoletto bianco al prete che aveva celebrato le nozze. Alla sposa che tornava dalla chiesa, la suocera o altri faceva trovare una scopa gettata a terra di traverso vicino all’entrata della nuova casa. Se la novella sposa si chinava a raccoglierla significava che sarebbe stata laboriosa e volenterosa, se vi passava sopra era segno che sarebbe stata svogliata e indolente.

Moglie e marito non dovevano mai togliersi la “vèra” (l’anello matrimoniale) dal dito, soprattutto quando il coniuge era in viaggio, se non volevano essere traditi. Il levarsi l’anello era segno di cattivo augurio per i rapporti fra i coniugi. In particolare, la moglie non doveva togliersi l’anello se non voleva che il marito si facesse male.

Proverbi siciliani sul tema del matrimonio:

Aju lu maritu ca annavanza, accatta a trent'un tarì, e vinni a n'unza = Fare il civanzo di mona Ciondolina. Fare affari in perdita.

Anniari nna picciotta = Affogar una fanciulla; e che, non avean pozzo? Metaforicamente significa: Maritarla male.

U matrimoniu è di tri maneri: u bummulu, a buttighia e u bicchieri!

Cu pò stari lìbiru nun s'incatina!

L’epsressione “matrimonio della mano sinistra” significa “unione illegittima” e deriva dal fatto che un tempo, quando un principe reale contraeva matrimonio con una donna di rango inferiore, le porgeva all'altare la mano sinistra invece della destra.

Giunone, o Iuno, è la dea romana assimilata a Hera. All’origine, e nella tradizione romana, personifica il ciclo lunare e figura nella triade onorata dapprima sul Quirinale, poi sul Campidoglio, e che comprendeva Giove, Giunone e Minerva. Ma ella aveva anche altri santuari, particolarmente sotto l’epiteto di Moneta, cioè “la dea che avverte” o “quella che fa ricordare”, riceveva un culto sulla Cittadella, l’Arx (la sommità nord-est del Campidoglio). A Giunone Moneta si attribuisce la salvezza del Capidoglio durante l’invasione dei Galli nel 390 a.C. Furono le oche allevate nel recinto di quel santuario a dare l’allarme e a permettere a Manlio Capitolino di salvare il colle e di respingere in tempo l’invasione. Giunone era onorata ancora sotto altri epiteti: sotto quello di Lucina presiede alla nascita dei bambini; in ciò ella ricorda piuttosto l’Artemide greca che non Hera (vedi, tuttavia, nella leggenda di Eracle, la congiura di Hera per ritardare il parto di Alcmena). Si doveva assistere alle offerte fatte a Giunone Lucina soltanto quando tutti i nodi erano sciolti, poiché la prese. di un legame, cintura, nodo, ecc. sul corpo degli officianti, poteva impedire il parto felice della donna per la quale si offriva il sacrificio.

Giunone era, in modo molto generico, la protettrice delle donne, e più particolarmente di quelle che avevano uno status giuridico riconosciuto nella città, delle donne legittimamente maritate. Si celebrava in suo onore una festa, i Matronalia, il giorno delle calende di marzo (1° marzo). La data di questa festa veniva giustificata in vari modi: ora la si considerava come il compleanno di Marte, dio della guerra (l’Ares greco, figlio di Hera), figlio di Giunone, ora come l’anniversario della pace ristabilita fra Romani e Sabini. Quest’ultima occasione ricordava infatti la parte avuta dalle donne sabine che s’intromisero fra i loro padri e i nuovi mariti e ristabilirono in tal modo la concordia fra i due popoli.

Mentre ogni uomo aveva il suo Genius, ogni donna aveva la sua Iuno, vera “copia” divina che personificava la sua femminilità e la proteggeva. Così le stesse dee avevano la loro Giunone. Iscrizioni citano una Iuno Deae Diae, una Iuno della dea Virtus ecc. Infine, Giunone ha una parte nella leggenda degli Orazi: infatti a lei, in quanto Iuno Sororia, protettrice della sorella di Orazio, quest’ultimo dovette offrire un sacrificio di purificazione dopo il delitto.

Le feste in onore di Apollo erano numerose in Grecia e si svolgevano sempre durante l'estate, il periodo in cui domina il Sole. A Delfi, ogni 4 anni si celebravano i giochi Pizii, inferiori solo a quelli di Olimpia, dedicati a Zeus. In un'altra solenne festa, il "Septerion", celebrato ogni 9 anni, una rappresentazione sacra ricordava la lotta del dio contro il serpente Pitone, gli umili lavori compiuti durante il suo esilio espiatorio, e il ritorno del dio a Delfi.

Giovane e alato come maggio, giugno è vestito di verde chiaro, ovvero - come dicono - verde giallo. Ha sul capo una ghirlanda di spighe di grano maturo. Con la mano destra porta per insegna il Cancro, il quale sarà circondato dalle sopraddette spighe, e con la sinistra una tazza, ovvero una bella cesta, dentro alla quale vi saranno visciole, scafe, bricoccole, pere moscarole, cocuzze, cetrioli, prugne, finocchio fresco, e altri frutti che sogliono essere in questo tempo. Chiamasi giugno dai latini per la causa detta nel mese di maggio (maggio è così chiamato da Maioribus, perché avendo Romolo distribuito il popolo romano in due parti, cioè in maggiore e minore, o vogliamo dire vecchi e giovani, che quelli con il consiglio e questi con l'arme governassero la Repubblica, in onor dell'una Maggio, e il seguente Giugno in onor dell'altra), benché alcuni lo chiamino da Giunone, latinamente "Iun(on)ium". Il segno del Granchio denota che, arrivando il sole in questo segno, comincia a tornare all'indietro.

Giugno secondo l’agricoltura: narra il Palladio che in questo mese si comincia a mietere l'orzo, e poi il grano onde si potrà dipingere un contadino giovane con braccia nude, e che tenga con la destra mano una tagliente falce, con la quale tagli i covoni delle spighe di grano, le quali raccoglie con la sinistra mano: ovvero che mostri d'aver mietuto.

Giugno, così come è stato dipinto da Eustachio Filosofo: omo vestito da contadino con una ghirlanda di fiori di lino, sta in mezzo d'un campo pieno di verdure, e tiene una falce per il fieno.

Sciroforione era il mese greco corrispondente al periodo che va dal 15 giugno - 15 luglio.

Le Arreforie erano feste religiose in onore di Atena, che si svolgevano di notte ad Atene, nel mese di Sciroforione.

Le Sciroforie erano una festa ateniese, chiamata anche Scira, celebrata il 12 di Sciroforione (giugno-luglio), secondo alcuni testi antichi in onore di Demetra e Kore (sembra improbabile che fosse attribuita alla sola Atena). Il nome indica che alcuni oggetti venivano portati in processione. Un'antica interpretazione di essi fa ritenere che si trattasse di parasoli: si afferma che la sacerdotessa di Atena Poliàs e il sacerdote di Poseidone Eretteo si recavano dall'Acropoli a una località chiamata Scira sotto un grande baldacchino bianco. I riti sembrano essere connessi con quelli delle Tesmoforie, feste in onore di Atena, celebrate per implorare protezione contro la siccità estiva.

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