VINCENZO IL PESCIVENDOLO
di

Alfredo Bruni

 

 (Segue 2 di 3)

Undici

Il sole era appena spuntato da dietro le montagne. I vetri del camion non avevano tendine, e la luce aveva svegliato Vincenzo.

Per quasi tutta la notte, fino a quando non si era addormentato per la troppa stanchezza, non aveva visto anima viva. Se di giorno, il paese era stato un deserto, Vincenzo non avrebbe dovuto illudersi di più. Ma alla fine si era addormentato, circondato solo da quelle strane case che sapeva infettate dal tifo, e dove in quello stesso momento, forse qualcuno stava morendo. Il vecchio pescivendolo aveva dovuto lottare a lungo con la paura, cercando di immaginare cosa ci fosse dietro quelle mura, tappezzate da mille manifesti. La fioca luce dei lampioni, a stento permetteva di scorgere il profilo delle case, che proiettavano sul selciato della piazza lunghe ombre di forma indefinita. Erano ombre che incutevano timore, e Vincenzo si sforzava di restare sveglio, ma quando gli occhi si rifiutarono di restare aperti e le palpebre si abbassavano da sole, cadde in un sonno profondo, che ininterrotto, durò fino al mattino.

La luce del sole gli ferì gli occhi. Si fece schermo con la mano, e non si rese subito conto del cambiamento. Quella piazza, che solo il giorno prima, gli era apparsa come un luogo disdegnato anche dai cani, adesso aveva un volto nuovo. C’erano decine di persone, assiepate su più file, lungo i muri delle case, e tutto sembrava uno spettacolo irreale.

Quando poté vedere meglio, capì che la folla, pur tenendosi a distanza, lo circondava da ogni lato. Come se l’intera popolazione del paese, che il giorno prima era svanita nel nulla, tutta insieme si fosse riversata fuori dalle case. C’erano vecchi e donne, e uomini e molti bambini. Ordinati in fila come dei soldati.

Nessuno faceva un gesto, e nessuno osava pronunciare una parola. Quasi sembrava che non avessero neppure bisogno di respirare, nemmeno i bambini più piccoli, che ancora stavano in braccio alle loro madri. Ma Vincenzo, sentiva su di sé, e la pelle quasi gli faceva male, gli occhi di tutta quella gente, che attentamente scrutavano ogni suo movimento.

Due uomini in divisa si staccarono dal gruppo di destra e si avviarono al camion. Vincenzo li riconobbe subito.

“Ti avevamo detto di andartene,” disse uno di loro due, appena furono vicini. A parlare era stato quello che aveva parlato anche il giorno prima, e per quanto si sforzasse, non riusciva a nascondere l’accento del paese.

Me n’ero andato, compagno,” disse Vincenzo parlando in dialetto. Intuiva un pericolo, ma oramai non aveva via di scampo. “Me n’ero andato,” continuò, “ma poi si è fatto buio e mi sono perso. Solo per questo sono tornato indietro”.

“Evidentemente si era perso,” disse l’altro vigile, sfregandosi le mani come se avesse freddo. Era magro e basso, e la divisa gli stava larga sulle ossa.

Fu subito chiaro, che tra i due, quest’ultimo era un subordinato e aveva meno autorità, anche se a giudicare dalle divise, sembravano di pari grado. Infatti, il primo vigile escluse del tutto il suo collega, e si rivolse di nuovo direttamente al pescivendolo, ignorando quello che diceva l’altro.

“Adesso, anche se ci dispiace, siamo costretti ad arrestarti e a condannarti,” disse con tono definitivo che non ammetteva repliche. Oramai Vincenzo non si stupiva più di niente. Era troppo stanco e rintronato. Nel camion aveva dormito scomodo e gli faceva male la schiena.

“Scendi dal camion e seguici,” continuò il primo vigile, facendo segno al collega di mettersi da parte.

Quando Vincenzo mise piede a terra, si sentì meglio. Aveva la testa tutta confusa, ma ancora era capace di capire, che doveva tentare di trovare una spiegazione. Il contatto con la terra gli dette sicurezza, e allora provò ad abbozzare una domanda.

Però il primo vigile, come se avesse letto nei suoi pensieri, lo precedette. “Noi non siamo autorizzati a rispondere alle tue domande,” disse. “ Seguici e non chiedere niente.”

“Ditemi almeno dove mi trovo!” protestò Vincenzo. Adesso si sforzava di parlare in italiano, come faceva il vigile. Ma non c’era abituato, sapeva appena parlare il suo dialetto, e ciò che riusciva a dire, era solo un miscuglio di parole in gran parte intraducibili.

Nonostante questo, il vigile capiva ogni cosa alla perfezione, e anche questa volta gli rispose senza indugio. “ Noi vigili,” disse, “ non siamo autorizzati a rispondere alle domande degli imputati. Ci mancherebbe altro!”.

“Ma che cosa ho fatto?!” disse allora Vincenzo quasi gridando. Aveva afferrato l’altro vigile per un braccio, e vedendolo più remissivo e trasognato, da questi sperava di ottenere una risposta. “Che cosa ho fatto? Perché mi volete arrestare?” ripeteva.

In quel momento desiderò di scappare, di liberarsi dei vigili e di tutta quella gente e di quel maledetto paese. Ma nonostante l’angoscia che gli cresceva dentro, e il terrore che stava per paralizzarlo, per istinto capì che a piedi, non poteva nemmeno tentarla la fuga, con quel cordone di persone che aveva tutto intorno. Avrebbe solo voluto rivedere il suo paese, la sua casa. Ritornare a casa sua, questo voleva veramente, rivedere sua moglie e i suoi tre figli, che quasi ogni sera, lasciava soli per andare alla cantina. Promise a sé stesso, e se lo promise veramente, che se fosse riuscito a tornare a casa, la sera non sarebbe più uscito. Sapeva di essere in pericolo, ma a piedi e da solo, non ce l’avrebbe mai fatta a salvarsi. Era ancora abbastanza lucido per comprendere tutto questo.  Solo il camion poteva salvarlo. Ad un tratto lasciò il braccio del vigile e con un balzo disperato, fu di nuovo al volante. Gli bastò un attimo, perché nonostante l’età, in quel momento diventò agilissimo. Ma il primo vigile non si mosse, e l’altro, che lo imitava in tutto, fece lo stesso. E nemmeno la folla si scompose, e nessuno accennò neanche un gesto, a quel tentativo di fuga. Vincenzo cercò di mettere in moto il camion, girando nervosamente la chiave che era rimasta attaccata al cruscotto. Il primo tentativo andò a vuoto. Ma nemmeno al secondo, né al terzo, né a tutti gli altri, il motore si avviò. Provò decine di volte, ma il risultato fu sempre lo stesso. Insistette, finché la mano non gli fece male, e allora dovette arrendersi. Era come se qualcuno, avesse staccato i fili vitali del motore, che in quel momento rappresentavano la sua vita.

Si sentiva impotente e la sua rabbia era grande. All’apparenza, sembrava che nessuno volesse fargli del male, o volesse davvero imporgli qualcosa con la forza, eppure era sempre costretto a fare quello che il vigile gli ordinava.

Scese di nuovo a terra, e oramai rassegnato, andò da solo tra le due guardie. La folla continuava a osservare in silenzio.

“Senza il permesso del giudice, non potrai uscire dal nostro paese,” disse tranquillo il vigile che aveva parlato fino a quel momento, e l’altro gli fece eco, ripetendo “giudice” due volte di seguito.

“E adesso che cosa succede?” chiese Vincenzo. Ma anche questa volta, i due vigili non risposero e si limitarono a fargli cenno di seguirli.

Dodici

A guardarla, la piazza non sembrava molto grande. Ma a camminarci intorno, pareva lunga chilometri, quasi che non dovesse finire mai. La percorsero tutta, lentamente. Vincenzo stava tra i due personaggi in divisa, e a ogni passo, osservava le persone disposte tutt’intorno.

Percorsero prima il lato più lungo di sinistra, poi quello corto e di nuovo quello lungo, dall’alta parte. La maggior parte di quella gente, dovevano essere contadini. Il volto segnato dal sole, le scarpe pesanti, le mani piene di calli, erano tutti segni che lo rivelavano. Anche le donne avevano il volto bruciato dal sole, e i bambini, che indossavano vestiti da grandi, adattati ai corpicini, davano l’impressione che da tempo, non mangiavano a sufficienza. Negli occhi di tutti, grandi e piccoli, non c’era curiosità e nemmeno stupore. Ma neanche c’era la consapevolezza, di sapere esattamente cosa stesse accadendo nel loro paese.

Da quando era fatto giorno, per la prima volta, Vincenzo, notò di nuovo i manifesti attaccati ai muri. Erano tutti uguali, della stessa grandezza, e bordati di nero. Iniziavano dal basso, a non più di cinque centimetri dal suolo, e arrivavano fino alla sporgenza dei tetti. Al centro di ognuno faceva spicco il suo nome, Vincenzo S… e una data che Vincenzo non riusciva a leggere.

Avevano percorso anche il secondo lato lungo della piazza, e quando giunsero a metà dell’altro più corto si fermarono.

“Adesso devi purificarti,” disse il solito vigile. Vincenzo alzò gli occhi, e vide che davanti a lui c’era una chiesa. “Devi prima confessarti,” continuò il vigile, “e poi ti laverai nella fontana”.

Vincenzo aveva capito che era inutile fare domande e rimase in silenzio. La folla si aprì, così poté vedere l’entrata della chiesa. Senza esitare, percorse, in quel corridoio lasciatogli libero, i pochi metri che lo dividevano dall’entrata. Sperava di trovarvi un prete, che perlomeno per l’abito che indossava, doveva essere certamente più normale e ragionevole, di tutti quegli altri che aveva fin’ora visto. La folla, muta, si richiuse al suo passaggio.

“Benvenuto, figliolo,” disse il prete, vedendolo entrare. “Mi avevano avvertito del tuo arrivo e ti stavo aspettando.” Era un prete non troppo vecchio e il suo sorriso ispirava fiducia. Vincenzo, si illuse di avere finalmente trovato una persona col cervello a posto, e subito gli pose gli interrogativi che lo assillavano.

“Questo è un paese di brava gente,” disse il prete, in risposta alle sue domande. “Il nome del paese?” continuò. “Non te lo posso dire, perché nessuno lo conosce. Si è cancellato tanto tempo fa dal cartello che è all’entrata, e ora nessuno se lo ricorda più.”

Fece una pausa. Ne approfittò per soffiarsi il naso, allontanandosi di qualche passo da Vincenzo. Quando ebbe finito, ritornò da lui.

“Quale era l’altra tua domanda?” gli chiese. “Ah, sì, volevi sapere perché ti hanno arrestato. Sicuro, mi avevi chiesto proprio questo.” Si interruppe di nuovo. “E’ un vero peccato,” riprese, “proprio un vero peccato che tu ti sia lasciato arrestare. Mi sembri robusto e in canonica potevi essermi utile. Anche come chierichetto, saresti potuto diventare molto bravo. Però alle tue domande non posso rispondere. Solo il giudice può farlo, e il giudice adesso non c’è”. Fece l’ennesima pausa per soffiarsi il naso e scatarrare. Continuò: “Io sono qui solo per confessarti. Ma del resto anche questo è inutile. Conosco già i tuoi peccati, e non mi resta altro da fare che darti l’assoluzione. Non si nega l’assoluzione a uno come te. Dio perdona sempre tutti i peccati, ma non si sa se il giudice può perdonare.”

A Vincenzo sembrava di impazzire. Con i preti, anche se credeva molto ai Santi e alla Madonna, non era mai andato d’accordo, e li rispettava standoci lontano. Qualche prete del suo paese, andava a comperare il pesce e gli diceva di farsi vedere in chiesa almeno la domenica, ma lui non ci andava, perché quella era gente, che con la scusa delle messe, campavano alle spalle degli altri, senza lavorare. Così la pensava, anche se non glielo poteva dire in faccia.

Ma questo qui li superava tutti. Non aveva mai visto un prete così strampalato, alto e robusto, con la veste macchiata di sugo e le suole delle scarpe mezze scollate, e i capelli che perdevano forfora. Al confronto, quelli del suo paese, era dei santi uomini. Almeno al paese, quanto i preti passavano davanti al suo negozio di alimentari, che di mattina, quando lui era in giro per il pesce,  gestiva la moglie, salutavano sempre, con un gesto della mano, e gridando un augurio da lontano.

Il prete finì di recitare la formula dell’assoluzione. Vincenzo, che non capiva il latino e che da anni non si confessava, lo guardava a bocca aperta. Ma la bocca gli si spalancò completamente, quando il prete gli ordinò di spogliarsi. In tutta quella strana storia, questa richiesta gli parve la più assurda. Nemmeno quand’era ubriaco, sarebbe stato capace di pensare a una cosa come quella.

Sulla parete in fondo c’era un crocifisso. Lo sguardo della statua era tanto intenso da sembrare vivo. L’osservò meglio e vide che non era un vero crocifisso. La statua di legno inchiodata alla croce, era invece la copia esatta del prete. L’odore di cera bruciata, impestava l’aria. La chiesa era senza finestre, e l’unica luce veniva da un candelabro, posto in vicinanza dell’altare. Vincenzo, di sua iniziativa, avanzò di qualche passo e s’accorse che anche la statua era completamente nuda. Tra le gambe di legno, spuntava il sesso perfettamente eretto. A quella vista, pensò che sarebbe stato inutile farsi altri scrupoli e, in un minuto, si denudò.

Quando fu completamente spogliato, il prete gli girò intorno e prese a scrutarlo attentamente, osservandolo da dietro. Vincenzo sentiva addosso gli occhi del religioso. Fu tentato di voltarsi, ma all’improvviso, lo colse un freddo intenso, che gli tolse completamente ogni volontà.

Il prete, senza darsi fretta, continuò a guardarlo, anche se vedeva bene che Vincenzo tremava dal freddo, ed era costretto, per ristorarsi un po’, ad alitarsi sulle mani e poi a nasconderle sotto le ascelle.

“Adesso vorresti rivestirti,” disse alla fine, “ma non servirebbe a niente, e non ti serve nemmeno, pentirti di tutti i tuoi peccati. E’ inutile pregare Dio che ti perdoni, perché il freddo scompare, solo quando ti lavi nell’acqua della fontana. Esci, dunque, ritorna nella piazza e immergiti”.

Vincenzo dovette obbedire, perché il freddo era diventato insopportabile, e non aveva nessun’altra via d’uscita. Fuori, la folla, intanto s’era raccolta tutta da un lato e in mezzo alla piazza, era comparsa una fontana con una vasca circolare, al centro della quale, si ergeva una grande statua bianca, posta su un piedistallo di cemento, alto almeno otto metri. Questa volta Vincenzo non si pose interrogativi. Aveva capito che se voleva continuare a vivere, doveva fare esattamente come gli veniva detto.

Il freddo che lo aveva assalito, si faceva sempre più pungente, e doveva liberarsene al più presto. Era sicuro che anche l’acqua fredda della fontana, l’avrebbe riscaldato, tanto era intenso, e diverso da quello dell’inverno, il freddo che lo attanagliava. Non indugiò oltre e, correndo, la raggiunse.

Con un balzo vi entrò dentro e l’acqua lo coprì fino all’inguine. La folla, che fino ad allora era rimasta immobile e silenziosa, incominciò ad agitarsi e da essa si sollevò un vociare che, col passare del tempo, divenne sempre più forte. “Bagnati tutto!” gridava la folla, e dalle loro voci, che erano diventate come una sola voce, si capiva che stavano eseguendo un preciso rituale.

Vincenzo non se lo fece ripetere e s’immerse fino alla testa. L’acqua della fontana era torbida, ma vi rimase fino a che non sentì i polmoni scoppiargli.

Riemerse. Un benefico tepore, aveva preso il posto dell’intenso freddo che, fino a pochi attimi prima, aveva provato. Non si sentiva stanco. La stanchezza era completamente svanita dalle sue membra, come se l’acqua avesse avuto il potere di lavarla via assieme al freddo e allo sporco.

In quel momento, sentì forte il desiderio, di essere condotto in una stanza senza finestre, dove nemmeno la luce potesse mai raggiungerlo. Ma non voleva andare lì per dormire. Voleva soltanto restare solo, in attesa che qualcuno gli desse un altro ordine.

Così s’era ridotto da quando era riemerso dall’acqua. Vincenzo il pescivendolo era stato domato.

Insieme, i due vigili, gli si avvicinarono di nuovo. L’aiutarono a uscire dalla vasca, ma ora erano più rispettosi e sembrava quasi che volessero ossequiarlo. Lo fecero allontanare dalla fontana, sorreggendolo per le braccia, e infine gli restituirono gli abiti, aiutandolo anche a rivestirsi.

Vincenzo, dentro di sé, provava una grande quiete. Non aveva più la forza di ribellarsi, non voleva ribellarsi a ciò che gli accadeva, era come se, nella vita, non avesse desiderato nient’altro che vivere quell’esperienza. Senza chiedere dove l’avrebbero condotto, docilmente seguì i due uomini in divisa.

Il terzetto passò davanti alla folla, che intanto s’era di nuovo azzittita, e quando furono proprio di fronte, da quella massa grigia di persone, si levò un grido. Vincenzo non capì cosa dicevano, ma era come se lo stessero salutando.

Poi andarono oltre, e davanti a sé, Vincenzo vide solo una strada, lunga e incredibilmente stretta.

La percorsero tutta, quasi fino in fondo. Le alte mura delle case, nascondevano quasi per intero il cielo azzurro.

Fino al giorno prima, Vincenzo non conosceva nemmeno l’esistenza di quel paese, ed ora, la sorte a volte fa di queste cose, c’era capitato per caso, e vi stava vivendo la più misteriosa delle avventure, prigioniero di quei paesani. Da quello che aveva visto, si trattava per lo più di zotici, gente ignorante come i cafoni che scendono dalla montagna, ma i due vigili avevano una bella divisa e le strade erano pulite. Il caso è come il destino, che si conosce quando è già tutto accaduto.

Al suo paese, era conosciuto e rispettato da tutti, invece qui lo avevano arrestato, come un comune delinquente. Tutto ciò non aveva logica, ma questo, per Vincenzo, non era importante, anche la paura del tifo si era cancellata dalla sua mente. Ricordava perfettamente, come tutta quella storia era iniziata, ma non tremava più al pensiero di contagiarsi, sapeva solo, senza che nessuno glielo avesse detto, che da lì a poco, gli avrebbero chiesto di fare qualcosa, e allora avrebbe dovuto decidere, senza più potersi tirare indietro.

I due uomini in divisa, camminavano al suo fianco, lentamente e in silenzio. Vincenzo alzò gli occhi e vide che le mura delle case, erano completamente senza aperture. Né una porta, né un balcone, né una finestra si aprivano su quella strada.

C’era solo un porticina, talmente bassa, che per potere entrare, anche Vincenzo dovette abbassare la testa.

Uno dei vigili bussò. Attesero. Nella porta di legno, si aprì uno spioncino.

Tredici

Un vecchio, seduto a un tavolo, scriveva qualcosa. Vincenzo stava in piedi davanti a lui e l’osservava.

Il vecchio poteva avere settant’anni. Portava la barba lunga, e i bianchi capelli, sporchi e arruffati, gli scendevano fin sulle spalle. Nella stanza, oltre al tavolo e alla sedia su cui stava seduto il vecchio, non c’era nient’altro. La luce era diffusa da un’unica candela, grossa almeno il doppio di quelle normali, conficcata, per cinque centimetri buoni, nel collo largo di una bottiglia. La sola apertura che c’era nella stanza, era la porta dalla quale Vincenzo era entrato.

Su un grosso registro, che occupava quasi l’intera superficie del tavolo, il vecchio scarabocchiava delle cifre. Man mano che scriveva, abbassava sempre di più la testa sulla pagina ingiallita.

Quando finì, sistemò la penna nel calamaio, e finalmente alzò gli occhi.

“Vuoi un numero, oppure vuoi un nome?” disse di punto in bianco, fissandolo deciso in volto.

Il pescivendolo lo guardò con occhi interrogativi. Ma non rispose, perché non aveva capito cosa il vecchio intendesse dire.

“Insomma, mi vuoi rispondere?!” disse il vecchio, che aveva già perso la pazienza.

“Che cosa debbo fare?” chiese Vincenzo, che continuava a non capire. Le espressioni del volto, variavano dall’incredulità allo sgomento, e nei suoi occhi, riluceva un mansueto in­terroga­tivo. Ma nonostante si trovasse in quella situazione, cer­cava di mantenere un comportamento dignitoso, e quando parlava, si sforzava di farlo meglio che poteva, per non sfigurare davanti al vecchio, il quale, pur non essendo molto garbato nell’insieme, pronunziava ogni parola correttamente.

Finalmente il vecchio decise di essere più esplicito. “Voglio sapere,” disse, “se ti debbo segnare nel registro con un nome oppure con un numero. Bada, però, che questa è l’ultima volta che puoi scegliere qualcosa. Perciò pensaci bene, io ti ho avvertito!”. Mentre parlava, sembrava contrariato, perché, come se la sua domanda fosse stata la cosa più logica che si potesse chiedere a un uomo, il pescivendolo non era riuscito a capire subito.

Vincenzo restò muto anche questa volta, perché era solo un pover’uomo ignorante, e nemmeno adesso riusciva a capire cosa il vecchio volesse sapere da lui.

Era solo nella stanza, insieme a quell’uomo visto per la prima volta. Si sentì mancare e aveva bisogno almeno di una sedia, ma nella stanza ce n’era una sola. Però il vecchio, senza aspettare troppo tempo, lo trasse egli stesso dall’impaccio.

“Ti segnerò nel registro col tuo nome,” disse, tagliando corto. Sembrava che avesse fretta e continuava a tormentarsi la barba, sfregandola tra le dita. “E’ la prima volta,” continuò, “che immatricolo un detenuto col suo vero nome, ma Vincenzo mi sembra molto banale ed è così comune, che non mi preoccupo per niente”.

Riprese la penna dal calamaio, e dopo avere aperto il registro a una pagina ancora pulita, vi scrisse qualcosa. Il pescivendolo, da lontano, riuscì a leggere il suo nome. Il vecchio affondava gli occhi miopi nel registro, fin quasi a sfiorare la pagina col naso.

Vincenzo non capiva niente di ciò che gli stava accadendo. Fosse stato in un’altra occasione, quel vecchio lo avrebbe certamente indispettito a tal punto, che avrebbe fatto di tutto per cercare la rissa. Ma dopo il bagno nella fontana, la sua origine si era lavata nell’acqua scura, diventando solo un ricordo. E senza più voglia, senza più volontà, si era lasciato portare via dai due vigili, in attesa di conoscere il suo destino. Il vecchio finì di scrivere. “Adesso il giudice non c’è,” disse, assumendo l’aria di chi sta per dichiarare la più naturale delle verità. “Il giudice non c’è, per questo, prima che venga celebrato il processo, dovrai aspettare parecchio. Ma stai tranquillo, perché il giudice ti condannerà. Il giudice condanna sempre tutti. Nel mio registro, ed è pur vero che faccio questo mestiere da tanti anni, è segnato un solo caso di assoluzione. Ma l’imputato era un parente stretto del sindaco, e per questo il giudice non ha potuto condannarlo. Si trattò di un errore giudiziario, perché, di solito, i parenti stretti del sindaco, non vengono nemmeno arrestati,” e finalmente tacque.  

Quattordici

  Vincenzo fu ripreso in consegna dai due vigili, e insieme uscirono dalla stanza, mentre il vecchio, che si era chiuso in un laborioso silenzio, aveva ricominciato a scrivere sul suo registro numeri e parole, comprensibili solo a lui.   
 
Quando arrivarono davanti alla cella, comparve il guardiano. Era questi un uomo di circa cinquant’anni, alto d’una spanna più del normale, con dei grandi baffi scuri, attorcigliati verso l’alto.
  I vigili gli si avvicinarono, e sottovoce gli dissero qual­cosa all’orecchio. Stettero un po’ così, senza perdere d’occhio il prigionie­ro. Poi, come se un’altra urgente incombenza li stesse chiamando, girarono i tacchi e se ne andarono per la strada dalla quale erano venuti.

  Di nuovo Vincenzo era rimasto solo con una persona che non aveva mai visto prima. Ma con il guardiano, non ebbe modo di sentirsi in imbarazzo, perché questi si dimostrò uomo di poche parole. Aprì la porta della cella e gli fece cenno di entrare, accompagnando i gesti con poche sillabe biascicate malamente.

 Quindici

  Aveva perso la concezione del tempo. Non meno di tre giorni dovevano essere passati. Nel frattempo nessuno era andato a trovarlo, e nemmeno gli avevano dato da mangiare. 
  In verità, da quando stava chiuso nella cella, non aveva sentito né fame, né sete. Quasi sempre era rimasto sul letto, senza dormire e senza pensare a nulla. Di tanto in tanto scendeva dal letto, girava intorno al perimetro due o tre volte, e poi si stendeva di nuovo.

  Dal primo giorno, aveva notato che nella stanza c’era una finestra. Era una finestra ampia, alta fin quasi al soffitto. Aveva i vetri smerigliati, ed era chiusa solo da una maniglia di metallo.
  Finora non l’aveva ancora aperta, fino a che, quella volta, senza un vero motivo, mentre girava intorno alla stanza, passandoci vicino, automaticamente, quasi fosse un’abitudine, aveva premuto la maniglia tirando a sé i battenti per aprirla, pur senza averne necessità.
  Contrariamente a quanto si aspettava, la finestra non era protetta nemmeno da una rete di metallo.

  L’aria fresca risvegliò Vincenzo dal torpore in cui era caduto, fuori era notte. C’era una bella serata, con mille luci di stelle che riempivano tutto il cielo, come puntini familiari e lontani. Invece la luna era grande, ed era bella, e illuminava tutta quanta la vallata.

Vincenzo guardò in basso. Sotto di sé vide uno strapiombo, che impediva qualsiasi possibilità di fuga. Sul fondo della valle, qualcosa brillava sotto la luce azzurra della luna. Certamente doveva essere un ruscello che scorreva placido là in fondo.

  Dopo tanto tempo sentì di nuovo fame. Allora richiuse la finestra e andò alla porta. Bussò forte e chiamò a gran voce, fino a quando sentì il guardiano che veniva.
  La chiave girò nella toppa e la porta si spalancò. Il guardiano entrò. “Hai aperto la finestra?!” disse, senza attendere che Vincenzo potesse parlare. Il prigioniero ebbe solo il tempo di annuire. “Lo sapevo,” continuò il guardiano. “Arrivati a un certo momento, lo fanno tutti. Adesso hai fame, e vorresti che ti portassi qualcosa. Non è così?”.

  “E vorrei anche qualcosa da bere,” rispose Vincenzo. Questa volta, parlando, usava solo il suo dialetto.
  “Hai ragione,” disse il guardiano, “sono più di tre giorni che non mangi, e a ogni cosa c’è un limite”. Si avviò verso l’uscita, ma ci ripensò e tornò sui suoi passi. “ Lascio la porta aperta,” disse, “ma mi raccomando… io tornerò subito”.
  Aveva sfumato la voce, pronunciando le ultime parole, e in quella interruzione poteva anche cogliersi una leggera sfumatura d’ironia, che Vincenzo interpretò come una sottintesa complicità. Perciò, quando il guardiano fu lontano, s’avvicinò alla porta in punta di piedi. Era quella l’occasione buona. Con un poco di fortuna poteva raggiungere la piazza, o addirittura, mettere piede fuori dal paese. Pensò che presto avrebbe rivisto la sua famiglia.

  Lottando contro i morsi della fame, aveva già percorso metà del lungo corridoio, quando a un tratto, sentì un rumore familiare. Tese l’orecchio. Il rumore si fece più distinto. Era un tintinnio consueto, di piatti e di posate che vengono smossi. Molto vicino, doveva esseri una cucina o una mensa. Vincenzo si fermò.  

Sedici

  Quando il guardiano fu di ritorno, era passata quasi un’ora. Trovò Vincenzo nella cella, seduto ad aspettarlo sul bordo del letto.
  Gli porse la ciotola di metallo e un bicchiere pieno d’acqua.
  “Bevi prima l’acqua,” disse a Vincenzo, e Vincenzo obbedì. Poi gli porse la ciotola e attese che il carcerato ne ingoiasse lentamente il contenuto.
  Quando finì, il guardiano prese il bicchiere e la scodella e se ne andò, richiudendo a chiave la porta.
  Vincenzo si sentiva sazio. In lui ogni pensiero di fuga era andato via, e nemmeno gli venne in mente di riaprire la finestra.

  Nei giorni che seguirono, dormì profondamente, svegliandosi solo di rado, come se la brodaglia e l’acqua che gli avevano dato, contenesse il sonnifero. Al terzo giorno la porta si aprì di nuovo, e nella cella entrò il suo carceriere. Vincenzo, semi incosciente, non scese dal letto e si limitò ad aprire gli occhi. Attraverso la fessura delle palpebre socchiuse, riconobbe i bottoni dorati della giacca. Quando fu sicuro che potesse comprenderlo, il guardiano gli comunicò che il giudice non era ancora tornato. Vincenzo annuì, e girandosi su un fianco, subito si riaddormentò.

  Dopo sette giorni, il guardiano entrò di nuovo nella cella. Ma questa volta aveva qualcosa di importante da annunciargli. Perciò volle prima sedersi, e avvicinò al letto una sedia.
  Vincenzo, al rumore della toppa, come se uno stimolo improvviso glielo avesse imposto, si era subito svegliato e s’era messo a sedere in mezzo al letto. 
  Quando vide il prigioniero ben sveglio, il guardiano incominciò a parlare. “Il giudice è tornato ieri,” disse, e questa notte stessa ti ha processato”.
  “Mi ha processato!” esclamò Vincenzo. “Senza avermi nemmeno interrogato?”
  “Da noi non si usa. Nei nostri processi, la presenza dell’imputato non è necessaria,” rispose il guardiano. “Inoltre, sua eccellenza non ha voluto disturbarti. Era notte e tu stavi dormendo.” Si fermò per accendere una sigaretta. Quando la nuvola di fumo si dissolse, ricominciò a parlare. “Com’era prevedibile, sei stato condannato. Accade quasi sempre, ma in compenso abbiamo una giustizia molto rapida.” Attese le reazioni del pescivendolo, ma Vincenzo non batté ciglio. “Solo una volta hanno assolto uno,” aggiunse.
  Vincenzo conosceva la storia. “E ora,” chiese, dopo aver riflettuto un attimo, “che cosa mi accadrà?”.
  “Morirai entro domani,” rispose tranquillo il guardiano, arricciandosi con le dita i grandi baffi scuri. Continuò: “Ma prima ci sarà il processo di appello, per questo ora devi venire con me. Il giudice ti sta aspettando”.
  Vincenzo si alzò e, calmo, seguì il maturo guardiano. Credendo di comparire davanti a un vero tribunale, con i giudici e gli avvocati della difesa, cercò intanto di sistemarsi come meglio poteva. Era stato molte volte ai processi, per farsi vedere da certi suoi amici, e sapeva come andavano quelle cose. Con le mani stirò la giacca e si ravviò i capelli spettinati.
  Il guardiano lo condusse per un labirinto, molto intricato, di corridoi e ampie stanze, a volte arredate con pochi mobili, ma più spesso completamente spoglie.
  Alla fine giunsero in un immenso salone giallo, e qui gli fece segno di fermarsi. Ma Vincenzo si era già fermato per conto suo e guardava meravigliato gli stucchi e gli ori che decoravano la sala, mentre col piede saggiava la morbidezza dei tappeti colorati, che ricoprivano l’intera superficie del pavimento.

  Il guardiano era scomparso dietro una porta laterale, resa invisibile dalla tappezzeria della parete. Non passò molto e ricomparve col berretto di feltro tra le mani. “Il signor giudice ti sta aspettando,” disse, e si scostò per lasciare libera l’entrata.
  Lentamente, il pescivendolo, discese i tredici gradini che immettevano nel tribunale. La stanza era immersa nella penombra. Al principio non vide nessuno. Quando i suoi occhi si abituarono all’oscurità, scorse davanti a sé, seduto su uno sgabello, un ometto non più alto di un metro e mezzo.
  Se ne stava con le spalle appoggiate al muro e fissava il vuoto in direzione di Vincenzo. Aveva, messa di traverso sul petto, una fascia azzurra, che sicuramente era il simbolo della carica che occupava. La stanza, che avrebbe dovuto essere il tribunale, non era una vera e propria stanza, ma solo un piccolo locale, ricavato nello spessore del muro. Dunque, il tanto temuto tribunale di quel bizzarro paese, era solo un grande buco, scavato nella parete di un palazzo.

  Vincenzo non sapeva cosa fare di fronte al giudice, che sembrava assorto in importanti pensieri. Non osava rivolgergli la parola, temendo di disturbarlo, ma non voleva nemmeno sembrare maleducato, non salutandolo nemmeno.
  Mentre pensava a queste cose, fu il giudice a parlare per primo.
  “Hai visto,” disse, sistemandosi il collo della camicia, “che magnifica anticamera abbiamo? I tappeti sono autentici persiani, e anche i lampadari sono preziosi, di puro cristallo. Per un giudice, è molto importante avere una bella anticamera. E’ sempre la prima impressione quella che conta”. Tossì. Spurgò i polmoni sputando per terra, e poi riprese a parlare. “E’ vero,” disse, indicando con un gesto eloquente della mano, l’ambiente in cui si trovavano, “che qui è molto piccolo, ma abbiamo dovuto accontentarci. Per fare posto all’anticamera, è stato necessario sacrificare l’aula del giudizio. Ma io personalmente, ho preferito così. Meglio una buona anticamera che tutto il resto”.

   Si interruppe di nuovo e restò a lungo in silenzio. Quando riprese a parlare, aveva completamente cambiato tono e argomento.
  “Ma ora non farmi perdere altro tempo,” disse, come se di sua volontà, Vincenzo lo avesse distolto da importanti affari. “Non vedi quanto ho da fare?” aggiunse. “E tu mi lasci parlare di altre cose, invece di chiedere notizie sul tuo processo! Noi giudici abbiamo sempre molto da fare.”
  Detto questo, incominciò a cercare qualcosa nelle tasche dei vestiti. Cercò prima nelle tasche della giacca. Guardò anche in quelle interne. Poi cercò nei pantaloni.

  Lo stanzino, o aula del giudizio, come l’uomo aveva detto che doveva essere chiamato quel buco, a parte lo sgabello, era completamente vuoto. Non un fascicolo, non un solo foglio di carta, e nemmeno un tavolo, che potesse far pensare che in quel tribunale si celebravano dei processi. Vincenzo osservava attentamente ogni movimento del giudice, che alla fine trovò quello che cercava.
  Dalla tasca posteriore dei pantaloni, tirò fuori un fazzoletto a pallini blu. “La sentenza ti è stata notificata,” disse, quando ebbe finito di soffiarsi rumorosamente il naso, “e sai che sei stato condannato. Questo è il processo di appello, ma, ti avverto subito, ti condannerò di nuovo. Io condanno sempre tutti. Solo una volta ho dovuto assolverne uno, ma quello era parente stretto del sindaco e non potevo proprio condannarlo, anche se c’erano le prove dell’omicidio”.

  Era la terza volta che Vincenzo sentiva di quella storia, ma non lo disse. Intanto il giudice aveva ripreso a soffiarsi il naso. Poi lasciò cadere il fazzoletto a terra e si rivolse a Vincenzo. “Hai qualcosa da dire a tua discolpa?” chiese, e quella era la conclusione del processo d’appello.
  Davanti a quel personaggio, strano e minuscolo, la mente gli si era nuovamente affollata di dubbi. Vincenzo avrebbe voluto fare mille domande, ma dalla bocca gliene uscì una sola. “Di cosa mi accusate?” chiese, e non fu capace di aggiungere nient’altro.

  Il giudice lo guardò con ironia, e si capiva che altre cento volte aveva assistito a quella stessa scena. E infatti disse: “Siete tutti uguali. Volete tutti sapere la stessa cosa. Ma io non ve lo dico, perché è la legge, e la legge non si può trasgredire”. Fece un’altra pausa, si schiarì a lungo la voce, tossì, e infine, con un tono solenne, stupendo Vincenzo per l’ennesima volta, aggiunse: “L’imputato si alzi in piedi. In nome della legge che governa il popolo, per i reati rubricati e iscritti a ruolo, già giudicati e condannati in primo grado da questo tribunale, riconfermiamo la pena di morte, da eseguirsi mediante decapitazione”.

  Più che paura, Vincenzo provava meraviglia. Tutto gli sembrava molto ridicolo, invece di apparirgli drammatico. “L’imputato si alzi in piedi…”, gli venne da ridere. Ma fu questione di un attimo, perché il giudice doveva dirgli ancora qualcosa e aveva ripreso a parlare, questa volta come se Vincenzo fosse un suo vecchio complice.

 

Continua....  
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Nome autore Alfredo Bruni
Opere edite:   Parole Uguali, 1977; Parole (prefazione di Dante Maffia), 1981; Alfabeto, 1982; Testamento (poemetto), 1984, apparso nel n.8 di “Discorso Diretto”, trimestrale di poesia diretto da Paolo Ruffilli; Il cane bugiardo (prefazione di Dario Bellezza), 1987; Ambiente e poesia (in collaborazione con Giovanni Spedicati), 1988; nel 1994 ha pubblicato un libretto senza titolo, in duecento copie numerate a mano e firmate, contenente una breve prosa e due poesie; La cosa assurda che sporca di bianco, 1995, edizione privata realizzata a mano in quattro copie firmate; Racconto breve (il testo), 1997, edizione privata realizzata in venti copie numerate e firmate; Reprint, 1998, edizione privata; In calce e daccapo (briciole di cemento armato e di presente), 1999, edizione privata con illustrazioni dell’autore; Dubbi, 2000, edizione privata con copertina illustrata dall’autore, realizzata in 11 copie numerate e firmate, Immondizia Diario postumo di un netturbino, 2000, edizione privata con copertina illustrata dall’autore; Sesso, perverso, occasione mancata Sogni, bisogni e vita di un uomo/impiegato qualsiasi, 2000, edizione privata di cui sette copie stampate su carta da pacchi; Il mio immacolato disordine, 2000, edizione privata con un’illustrazione e la copertina disegnate al computer dall’autore; Avanguardia, 2000, edizione privata di un poemetto dedicato alla madre e composto a Bologna nell’aprile 1984 con copertina illustrata dall’autore.
Collaborazioni: Per la rivista Primi piani di Roma ha curato una rubrica di segnalazioni e recensioni di videocassette. Ha collaborato con il LiSSPAE di Brindisi e, tra le altre, con le riviste Verso il futuro, Logos, La mongolfiera e Il sodalizio. È stato redattore di Malvagia (trimestrale della cultura sommersa di Milano), in cui ha pubblicato alcune cronache e alcuni racconti.
Principali Premi: Principali premi: secondo classificato al Premio G. Carrieri 1983; targa Assitalia al Premio Vallecrati 1983; primo classificato (sezione silloge inedita) al Gran Premio Rebecca 1984 con Il cane bugiardo; secondo classificato al Premio M.F. Iacono 1985 con il racconto “I manichini sorridevano ai fantasmi”; diploma con targa al Concorso S.N.A. negli anni 1986 e 1987; finalista al Premio Fortezza ’86 con il romanzo inedito “Vincenzo il pescivendolo”; primo classificato al Premio Poesie sotto le stelle – Notte di San Lorenzo 2002.
Note sull'autore: È attivo nel campo della mail art e della pittura, sperimentando varie tecniche e materiali. 
Alcune sue composizoni sono state pubblicate nel saggio Parole senza frontiere, di Bianca Maria Folino (www.aloisi.it/scrittori/Folino/), curato dall’autrice milanese per il sito web di Stampa Alternativa (www.stampalternativa.it/ma/index.htm). 
È stato presentato al pubblico di Amendolara, Terranova da Sibari e Saracena nel corso dell’itinerario culturale meridionale Il Musagete.
Per le edizioni La mongolfiera ha curato le poesie di Alfonso Iuso, giovane sieropositivo, ex tossicodipendente della Comunità Saman, pubblicate nel volume Ti chiamerò domani, e Quando il tempo…, della poetessa calabrese Rosalba De Simone.
e-mail alfredofrancesco.bruni@tin.it

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