VINCENZO IL PESCIVENDOLO |
(Segue 2 di 3) Undici Il sole era appena spuntato da dietro le montagne. I vetri del camion
non avevano tendine, e la luce aveva svegliato Vincenzo. Per quasi tutta la notte, fino a quando non si era addormentato per la
troppa stanchezza, non aveva visto anima viva. Se di giorno, il paese
era stato un deserto, Vincenzo non avrebbe dovuto illudersi di più.
Ma alla fine si era addormentato, circondato solo da quelle strane
case che sapeva infettate dal tifo, e dove in quello stesso momento,
forse qualcuno stava morendo. Il vecchio pescivendolo aveva dovuto
lottare a lungo con la paura, cercando di immaginare cosa ci fosse
dietro quelle mura, tappezzate da mille manifesti. La fioca luce dei
lampioni, a stento permetteva di scorgere il profilo delle case, che
proiettavano sul selciato della piazza lunghe ombre di forma
indefinita. Erano ombre che incutevano timore, e Vincenzo si sforzava
di restare sveglio, ma quando gli occhi si rifiutarono di restare
aperti e le palpebre si abbassavano da sole, cadde in un sonno
profondo, che ininterrotto, durò fino al mattino. La luce del sole gli ferì gli occhi. Si fece schermo con la mano, e non
si rese subito conto del cambiamento. Quella piazza, che solo il
giorno prima, gli era apparsa come un luogo disdegnato anche dai cani,
adesso aveva un volto nuovo. C’erano decine di persone, assiepate su
più file, lungo i muri delle case, e tutto sembrava uno spettacolo
irreale. Quando poté vedere meglio, capì che la folla, pur tenendosi a
distanza, lo circondava da ogni lato. Come se l’intera popolazione
del paese, che il giorno prima era svanita nel nulla, tutta insieme si
fosse riversata fuori dalle case. C’erano vecchi e donne, e uomini e
molti bambini. Ordinati in fila come dei soldati. Nessuno faceva un gesto, e nessuno osava pronunciare una parola. Quasi
sembrava che non avessero neppure bisogno di respirare, nemmeno i
bambini più piccoli, che ancora stavano in braccio alle loro madri.
Ma Vincenzo, sentiva su di sé, e la pelle quasi gli faceva male, gli
occhi di tutta quella gente, che attentamente scrutavano ogni suo
movimento. Due uomini in divisa si staccarono dal gruppo di destra e si avviarono
al camion. Vincenzo li riconobbe subito. “Ti avevamo detto di andartene,” disse uno di loro due, appena
furono vicini. A parlare era stato quello che aveva parlato anche il
giorno prima, e per quanto si sforzasse, non riusciva a nascondere
l’accento del paese. “Me n’ero andato,
compagno,” disse Vincenzo parlando in dialetto. Intuiva un pericolo,
ma oramai non aveva via di scampo. “Me n’ero andato,” continuò,
“ma poi si è fatto buio e mi sono perso. Solo per questo sono
tornato indietro”. “Evidentemente si era perso,” disse l’altro vigile, sfregandosi le
mani come se avesse freddo. Era magro e basso, e la divisa gli stava
larga sulle ossa. Fu subito chiaro, che tra i due, quest’ultimo era un subordinato e
aveva meno autorità, anche se a giudicare dalle divise, sembravano di
pari grado. Infatti, il primo vigile escluse del tutto il suo collega,
e si rivolse di nuovo direttamente al pescivendolo, ignorando quello
che diceva l’altro. “Adesso, anche se ci dispiace, siamo costretti ad arrestarti e a
condannarti,” disse con tono definitivo che non ammetteva repliche.
Oramai Vincenzo non si stupiva più di niente. Era troppo stanco e
rintronato. Nel camion aveva dormito scomodo e gli faceva male la
schiena. “Scendi dal camion e seguici,” continuò il primo vigile, facendo
segno al collega di mettersi da parte. Quando Vincenzo mise piede a terra, si sentì meglio. Aveva la testa
tutta confusa, ma ancora era capace di capire, che doveva tentare di
trovare una spiegazione. Il contatto con la terra gli dette sicurezza,
e allora provò ad abbozzare una domanda. Però il primo vigile, come se avesse letto nei suoi pensieri, lo
precedette. “Noi non siamo autorizzati a rispondere alle tue
domande,” disse. “ Seguici e non chiedere niente.” “Ditemi almeno dove mi trovo!” protestò Vincenzo. Adesso si
sforzava di parlare in italiano, come faceva il vigile. Ma non c’era
abituato, sapeva appena parlare il suo dialetto, e ciò che riusciva a
dire, era solo un miscuglio di parole in gran parte intraducibili. Nonostante questo, il vigile capiva ogni cosa alla perfezione, e anche
questa volta gli rispose senza indugio. “ Noi vigili,” disse, “
non siamo autorizzati a rispondere alle domande degli imputati. Ci
mancherebbe altro!”. “Ma che cosa ho fatto?!” disse allora Vincenzo quasi gridando. Aveva
afferrato l’altro vigile per un braccio, e vedendolo più remissivo
e trasognato, da questi sperava di ottenere una risposta. “Che cosa
ho fatto? Perché mi volete arrestare?” ripeteva. In quel momento desiderò di scappare, di liberarsi dei vigili e di
tutta quella gente e di quel maledetto paese. Ma nonostante
l’angoscia che gli cresceva dentro, e il terrore che stava per
paralizzarlo, per istinto capì che a piedi, non poteva nemmeno
tentarla la fuga, con quel cordone di persone che aveva tutto intorno.
Avrebbe solo voluto rivedere il suo paese, la sua casa. Ritornare a
casa sua, questo voleva veramente, rivedere sua moglie e i suoi tre
figli, che quasi ogni sera, lasciava soli per andare alla cantina.
Promise a sé stesso, e se lo promise veramente, che se fosse riuscito
a tornare a casa, la sera non sarebbe più uscito. Sapeva di essere in
pericolo, ma a piedi e da solo, non ce l’avrebbe mai fatta a
salvarsi. Era ancora abbastanza lucido per comprendere tutto questo.
Solo il camion poteva salvarlo. Ad un tratto lasciò il braccio
del vigile e con un balzo disperato, fu di nuovo al volante. Gli bastò
un attimo, perché nonostante l’età, in quel momento diventò
agilissimo. Ma il primo vigile non si mosse, e l’altro, che lo
imitava in tutto, fece lo stesso. E nemmeno la folla si scompose, e
nessuno accennò neanche un gesto, a quel tentativo di fuga. Vincenzo
cercò di mettere in moto il camion, girando nervosamente la chiave
che era rimasta attaccata al cruscotto. Il primo tentativo andò a
vuoto. Ma nemmeno al secondo, né al terzo, né a tutti gli altri, il
motore si avviò. Provò decine di volte, ma il risultato fu sempre lo
stesso. Insistette, finché la mano non gli fece male, e allora
dovette arrendersi. Era come se qualcuno, avesse staccato i fili
vitali del motore, che in quel momento rappresentavano la sua vita. Si sentiva impotente e la sua rabbia era grande. All’apparenza,
sembrava che nessuno volesse fargli del male, o volesse davvero
imporgli qualcosa con la forza, eppure era sempre costretto a fare
quello che il vigile gli ordinava. Scese di nuovo a terra, e oramai rassegnato, andò da solo tra le due
guardie. La folla continuava a osservare in silenzio. “Senza il permesso del giudice, non potrai uscire dal nostro paese,”
disse tranquillo il vigile che aveva parlato fino a quel momento, e
l’altro gli fece eco, ripetendo “giudice” due volte di seguito. “E adesso che cosa succede?” chiese Vincenzo. Ma anche questa volta,
i due vigili non risposero e si limitarono a fargli cenno di seguirli. Dodici A guardarla, la piazza non sembrava molto grande. Ma a camminarci
intorno, pareva lunga chilometri, quasi che non dovesse finire mai. La
percorsero tutta, lentamente. Vincenzo stava tra i due personaggi in
divisa, e a ogni passo, osservava le persone disposte tutt’intorno. Percorsero prima il lato più lungo di sinistra, poi quello corto e di
nuovo quello lungo, dall’alta parte. La maggior parte di quella
gente, dovevano essere contadini. Il volto segnato dal sole, le scarpe
pesanti, le mani piene di calli, erano tutti segni che lo rivelavano.
Anche le donne avevano il volto bruciato dal sole, e i bambini, che
indossavano vestiti da grandi, adattati ai corpicini, davano
l’impressione che da tempo, non mangiavano a sufficienza. Negli
occhi di tutti, grandi e piccoli, non c’era curiosità e nemmeno
stupore. Ma neanche c’era la consapevolezza, di sapere esattamente
cosa stesse accadendo nel loro paese. Da quando era fatto giorno, per la prima volta, Vincenzo, notò di nuovo
i manifesti attaccati ai muri. Erano tutti uguali, della stessa
grandezza, e bordati di nero. Iniziavano dal basso, a non più di
cinque centimetri dal suolo, e arrivavano fino alla sporgenza dei
tetti. Al centro di ognuno faceva spicco il suo nome, Vincenzo S…
e una data che Vincenzo non riusciva a leggere. Avevano percorso anche il secondo lato lungo della piazza, e quando
giunsero a metà dell’altro più corto si fermarono. “Adesso devi purificarti,” disse il solito vigile. Vincenzo alzò
gli occhi, e vide che davanti a lui c’era una chiesa. “Devi prima
confessarti,” continuò il vigile, “e poi ti laverai nella
fontana”. Vincenzo aveva capito che era inutile fare domande e rimase in silenzio.
La folla si aprì, così poté vedere l’entrata della chiesa. Senza
esitare, percorse, in quel corridoio lasciatogli libero, i pochi metri
che lo dividevano dall’entrata. Sperava di trovarvi un prete, che
perlomeno per l’abito che indossava, doveva essere certamente più
normale e ragionevole, di tutti quegli altri che aveva fin’ora
visto. La folla, muta, si richiuse al suo passaggio. “Benvenuto, figliolo,” disse il prete, vedendolo entrare. “Mi
avevano avvertito del tuo arrivo e ti stavo aspettando.” Era un
prete non troppo vecchio e il suo sorriso ispirava fiducia. Vincenzo,
si illuse di avere finalmente trovato una persona col cervello a
posto, e subito gli pose gli interrogativi che lo assillavano. “Questo è un paese di brava gente,” disse il prete, in risposta
alle sue domande. “Il nome del paese?” continuò. “Non te lo
posso dire, perché nessuno lo conosce. Si è cancellato tanto tempo
fa dal cartello che è all’entrata, e ora nessuno se lo ricorda più.” Fece una pausa. Ne approfittò per soffiarsi il naso, allontanandosi di
qualche passo da Vincenzo. Quando ebbe finito, ritornò da lui. “Quale era l’altra tua domanda?” gli chiese. “Ah, sì, volevi
sapere perché ti hanno arrestato. Sicuro, mi avevi chiesto proprio
questo.” Si interruppe di nuovo. “E’ un vero peccato,”
riprese, “proprio un vero peccato che tu ti sia lasciato arrestare.
Mi sembri robusto e in canonica potevi essermi utile. Anche come
chierichetto, saresti potuto diventare molto bravo. Però alle tue
domande non posso rispondere. Solo il giudice può farlo, e il giudice
adesso non c’è”. Fece l’ennesima pausa per soffiarsi il naso e
scatarrare. Continuò: “Io sono qui solo per confessarti. Ma del
resto anche questo è inutile. Conosco già i tuoi peccati, e non mi
resta altro da fare che darti l’assoluzione. Non si nega
l’assoluzione a uno come te. Dio perdona sempre tutti i peccati, ma
non si sa se il giudice può perdonare.” A Vincenzo sembrava di impazzire. Con i preti, anche se credeva molto ai
Santi e alla Madonna, non era mai andato d’accordo, e li rispettava
standoci lontano. Qualche prete del suo paese, andava a comperare il
pesce e gli diceva di farsi vedere in chiesa almeno la domenica, ma
lui non ci andava, perché quella era gente, che con la scusa delle
messe, campavano alle spalle degli altri, senza lavorare. Così la
pensava, anche se non glielo poteva dire in faccia. Ma questo qui li superava tutti. Non aveva mai visto un prete così
strampalato, alto e robusto, con la veste macchiata di sugo e le suole
delle scarpe mezze scollate, e i capelli che perdevano forfora. Al
confronto, quelli del suo paese, era dei santi uomini. Almeno al
paese, quanto i preti passavano davanti al suo negozio di alimentari,
che di mattina, quando lui era in giro per il pesce,
gestiva la moglie, salutavano sempre, con un gesto della mano,
e gridando un augurio da lontano. Il prete finì di recitare la formula dell’assoluzione. Vincenzo, che
non capiva il latino e che da anni non si confessava, lo guardava a
bocca aperta. Ma la bocca gli si spalancò completamente, quando il
prete gli ordinò di spogliarsi. In tutta quella strana storia, questa
richiesta gli parve la più assurda. Nemmeno quand’era ubriaco,
sarebbe stato capace di pensare a una cosa come quella. Sulla parete in fondo c’era un crocifisso. Lo sguardo della statua era
tanto intenso da sembrare vivo. L’osservò meglio e vide che non era
un vero crocifisso. La statua di legno inchiodata alla croce, era
invece la copia esatta del prete. L’odore di cera bruciata,
impestava l’aria. La chiesa era senza finestre, e l’unica luce
veniva da un candelabro, posto in vicinanza dell’altare. Vincenzo,
di sua iniziativa, avanzò di qualche passo e s’accorse che anche la
statua era completamente nuda. Tra le gambe di legno, spuntava il
sesso perfettamente eretto. A quella vista, pensò che sarebbe stato
inutile farsi altri scrupoli e, in un minuto, si denudò. Quando fu completamente spogliato, il prete gli girò intorno e prese a
scrutarlo attentamente, osservandolo da dietro. Vincenzo sentiva
addosso gli occhi del religioso. Fu tentato di voltarsi, ma
all’improvviso, lo colse un freddo intenso, che gli tolse
completamente ogni volontà. Il prete, senza darsi fretta, continuò a guardarlo, anche se vedeva
bene che Vincenzo tremava dal freddo, ed era costretto, per ristorarsi
un po’, ad alitarsi sulle mani e poi a nasconderle sotto le ascelle. “Adesso vorresti rivestirti,” disse alla fine, “ma non servirebbe
a niente, e non ti serve nemmeno, pentirti di tutti i tuoi peccati.
E’ inutile pregare Dio che ti perdoni, perché il freddo scompare,
solo quando ti lavi nell’acqua della fontana. Esci, dunque, ritorna
nella piazza e immergiti”. Vincenzo dovette obbedire, perché il freddo era diventato
insopportabile, e non aveva nessun’altra via d’uscita. Fuori, la
folla, intanto s’era raccolta tutta da un lato e in mezzo alla
piazza, era comparsa una fontana con una vasca circolare, al centro
della quale, si ergeva una grande statua bianca, posta su un
piedistallo di cemento, alto almeno otto metri. Questa volta Vincenzo
non si pose interrogativi. Aveva capito che se voleva continuare a
vivere, doveva fare esattamente come gli veniva detto. Il freddo che lo aveva assalito, si faceva sempre più pungente, e
doveva liberarsene al più presto. Era sicuro che anche l’acqua
fredda della fontana, l’avrebbe riscaldato, tanto era intenso, e
diverso da quello dell’inverno, il freddo che lo attanagliava. Non
indugiò oltre e, correndo, la raggiunse. Con un balzo vi entrò dentro e l’acqua lo coprì fino all’inguine.
La folla, che fino ad allora era rimasta immobile e silenziosa,
incominciò ad agitarsi e da essa si sollevò un vociare che, col
passare del tempo, divenne sempre più forte. “Bagnati tutto!”
gridava la folla, e dalle loro voci, che erano diventate come una sola
voce, si capiva che stavano eseguendo un preciso rituale. Vincenzo non se lo fece ripetere e s’immerse fino alla testa.
L’acqua della fontana era torbida, ma vi rimase fino a che non sentì
i polmoni scoppiargli. Riemerse. Un benefico tepore, aveva preso il posto dell’intenso freddo
che, fino a pochi attimi prima, aveva provato. Non si sentiva stanco.
La stanchezza era completamente svanita dalle sue membra, come se
l’acqua avesse avuto il potere di lavarla via assieme al freddo e
allo sporco. In quel momento, sentì forte il desiderio, di essere condotto in una
stanza senza finestre, dove nemmeno la luce potesse mai raggiungerlo.
Ma non voleva andare lì per dormire. Voleva soltanto restare solo, in
attesa che qualcuno gli desse un altro ordine. Così s’era ridotto da quando era riemerso dall’acqua. Vincenzo il
pescivendolo era stato domato. Insieme, i due vigili, gli si avvicinarono di nuovo. L’aiutarono a
uscire dalla vasca, ma ora erano più rispettosi e sembrava quasi che
volessero ossequiarlo. Lo fecero allontanare dalla fontana,
sorreggendolo per le braccia, e infine gli restituirono gli abiti,
aiutandolo anche a rivestirsi. Vincenzo, dentro di sé, provava una grande quiete. Non aveva più la
forza di ribellarsi, non voleva ribellarsi a ciò che gli accadeva,
era come se, nella vita, non avesse desiderato nient’altro che
vivere quell’esperienza. Senza chiedere dove l’avrebbero condotto,
docilmente seguì i due uomini in divisa. Il terzetto passò davanti alla folla, che intanto s’era di nuovo
azzittita, e quando furono proprio di fronte, da quella massa grigia
di persone, si levò un grido. Vincenzo non capì cosa dicevano, ma
era come se lo stessero salutando. Poi andarono oltre, e davanti a sé, Vincenzo vide solo una strada,
lunga e incredibilmente stretta. La percorsero tutta, quasi fino in fondo. Le alte mura delle case,
nascondevano quasi per intero il cielo azzurro. Fino al giorno prima, Vincenzo non conosceva nemmeno l’esistenza di
quel paese, ed ora, la sorte a volte fa di queste cose, c’era
capitato per caso, e vi stava vivendo la più misteriosa delle
avventure, prigioniero di quei paesani. Da quello che aveva visto, si
trattava per lo più di zotici, gente ignorante come i cafoni che
scendono dalla montagna, ma i due vigili avevano una bella divisa e le
strade erano pulite. Il caso è come il destino, che si conosce quando
è già tutto accaduto. Al suo paese, era conosciuto e rispettato da tutti, invece qui lo
avevano arrestato, come un comune delinquente. Tutto ciò non aveva
logica, ma questo, per Vincenzo, non era importante, anche la paura
del tifo si era cancellata dalla sua mente. Ricordava perfettamente,
come tutta quella storia era iniziata, ma non tremava più al pensiero
di contagiarsi, sapeva solo, senza che nessuno glielo avesse detto,
che da lì a poco, gli avrebbero chiesto di fare qualcosa, e allora
avrebbe dovuto decidere, senza più potersi tirare indietro. I due uomini in divisa, camminavano al suo fianco, lentamente e in
silenzio. Vincenzo alzò gli occhi e vide che le mura delle case,
erano completamente senza aperture. Né una porta, né un balcone, né
una finestra si aprivano su quella strada. C’era solo un porticina, talmente bassa, che per potere entrare, anche
Vincenzo dovette abbassare la testa. Uno dei vigili bussò. Attesero. Nella porta di legno, si aprì uno
spioncino. Tredici Un vecchio, seduto a un tavolo, scriveva qualcosa. Vincenzo stava in
piedi davanti a lui e l’osservava. Il vecchio poteva avere settant’anni. Portava la barba lunga, e i
bianchi capelli, sporchi e arruffati, gli scendevano fin sulle spalle.
Nella stanza, oltre al tavolo e alla sedia su cui stava seduto il
vecchio, non c’era nient’altro. La luce era diffusa da un’unica
candela, grossa almeno il doppio di quelle normali, conficcata, per
cinque centimetri buoni, nel collo largo di una bottiglia. La sola
apertura che c’era nella stanza, era la porta dalla quale Vincenzo
era entrato. Su un grosso registro, che occupava quasi l’intera superficie del
tavolo, il vecchio scarabocchiava delle cifre. Man mano che scriveva,
abbassava sempre di più la testa sulla pagina ingiallita. Quando finì, sistemò la penna nel calamaio, e finalmente alzò gli
occhi. “Vuoi un numero, oppure vuoi un nome?” disse di punto in bianco,
fissandolo deciso in volto. Il pescivendolo lo guardò con occhi interrogativi. Ma non rispose,
perché non aveva capito cosa il vecchio intendesse dire. “Insomma, mi vuoi rispondere?!” disse il vecchio, che aveva già
perso la pazienza. “Che cosa debbo fare?” chiese Vincenzo, che continuava a non capire.
Le espressioni del volto, variavano dall’incredulità allo sgomento,
e nei suoi occhi, riluceva un mansueto interrogativo. Ma
nonostante si trovasse in quella situazione, cercava di mantenere un
comportamento dignitoso, e quando parlava, si sforzava di farlo meglio
che poteva, per non sfigurare davanti al vecchio, il quale, pur non
essendo molto garbato nell’insieme, pronunziava ogni parola
correttamente. Finalmente il vecchio decise di essere più esplicito. “Voglio
sapere,” disse, “se ti debbo segnare nel registro con un nome
oppure con un numero. Bada, però, che questa è l’ultima volta che
puoi scegliere qualcosa. Perciò pensaci bene, io ti ho avvertito!”.
Mentre parlava, sembrava contrariato, perché, come se la sua domanda
fosse stata la cosa più logica che si potesse chiedere a un uomo, il
pescivendolo non era riuscito a capire subito. Vincenzo restò muto anche questa volta, perché era solo un
pover’uomo ignorante, e nemmeno adesso riusciva a capire cosa il
vecchio volesse sapere da lui. Era solo nella stanza, insieme a quell’uomo visto per la prima volta.
Si sentì mancare e aveva bisogno almeno di una sedia, ma nella stanza
ce n’era una sola. Però il vecchio, senza aspettare troppo tempo,
lo trasse egli stesso dall’impaccio. “Ti segnerò nel registro col tuo nome,” disse, tagliando corto.
Sembrava che avesse fretta e continuava a tormentarsi la barba,
sfregandola tra le dita. “E’ la prima volta,” continuò, “che
immatricolo un detenuto col suo vero nome, ma Vincenzo mi sembra molto
banale ed è così comune, che non mi preoccupo per niente”. Riprese la penna dal calamaio, e dopo avere aperto il registro a una
pagina ancora pulita, vi scrisse qualcosa. Il pescivendolo, da
lontano, riuscì a leggere il suo nome. Il vecchio affondava gli occhi
miopi nel registro, fin quasi a sfiorare la pagina col naso. Vincenzo non capiva niente di ciò che gli stava accadendo. Fosse stato
in un’altra occasione, quel vecchio lo avrebbe certamente
indispettito a tal punto, che avrebbe fatto di tutto per cercare la
rissa. Ma dopo il bagno nella fontana, la sua origine si era lavata
nell’acqua scura, diventando solo un ricordo. E senza più voglia,
senza più volontà, si era lasciato portare via dai due vigili, in
attesa di conoscere il suo destino. Il vecchio finì di scrivere.
“Adesso il giudice non c’è,” disse, assumendo l’aria di chi
sta per dichiarare la più naturale delle verità. “Il giudice non
c’è, per questo, prima che venga celebrato il processo, dovrai
aspettare parecchio. Ma stai tranquillo, perché il giudice ti
condannerà. Il giudice condanna sempre tutti. Nel mio registro, ed è
pur vero che faccio questo mestiere da tanti anni, è segnato un solo
caso di assoluzione. Ma l’imputato era un parente stretto del
sindaco, e per questo il giudice non ha potuto condannarlo. Si trattò
di un errore giudiziario, perché, di solito, i parenti stretti del
sindaco, non vengono nemmeno arrestati,” e finalmente tacque. Quattordici Vincenzo fu ripreso in consegna dai due vigili, e insieme uscirono dalla
stanza, mentre il vecchio, che si era chiuso in un laborioso silenzio,
aveva ricominciato a scrivere sul suo registro numeri e parole,
comprensibili solo a lui. Di nuovo Vincenzo era rimasto solo con una persona che non aveva mai
visto prima. Ma con il guardiano, non ebbe modo di sentirsi in
imbarazzo, perché questi si dimostrò uomo di poche parole. Aprì la
porta della cella e gli fece cenno di entrare, accompagnando i gesti
con poche sillabe biascicate malamente. Quindici Aveva perso la concezione del tempo. Non meno di tre giorni dovevano
essere passati. Nel frattempo nessuno era andato a trovarlo, e nemmeno
gli avevano dato da mangiare. Dal primo giorno, aveva notato che nella stanza c’era una finestra.
Era una finestra ampia, alta fin quasi al soffitto. Aveva i vetri
smerigliati, ed era chiusa solo da una maniglia di metallo. L’aria fresca risvegliò Vincenzo dal torpore in cui era caduto, fuori
era notte. C’era una bella serata, con mille luci di stelle che
riempivano tutto il cielo, come puntini familiari e lontani. Invece la
luna era grande, ed era bella, e illuminava tutta quanta la vallata. Vincenzo guardò in basso. Sotto di sé vide uno strapiombo, che
impediva qualsiasi possibilità di fuga. Sul fondo della valle,
qualcosa brillava sotto la luce azzurra della luna. Certamente doveva
essere un ruscello che scorreva placido là in fondo. Dopo tanto tempo sentì di nuovo fame. Allora richiuse la finestra e andò
alla porta. Bussò forte e chiamò a gran voce, fino a quando sentì
il guardiano che veniva. “E vorrei anche qualcosa da bere,” rispose Vincenzo. Questa volta,
parlando, usava solo il suo dialetto. Lottando contro i morsi della fame, aveva già percorso metà del lungo
corridoio, quando a un tratto, sentì un rumore familiare. Tese
l’orecchio. Il rumore si fece più distinto. Era un tintinnio
consueto, di piatti e di posate che vengono smossi. Molto vicino,
doveva esseri una cucina o una mensa. Vincenzo si fermò.
Sedici Quando il guardiano fu di ritorno, era passata quasi un’ora. Trovò
Vincenzo nella cella, seduto ad aspettarlo sul bordo del letto. Nei giorni che seguirono, dormì profondamente, svegliandosi solo di
rado, come se la brodaglia e l’acqua che gli avevano dato,
contenesse il sonnifero. Al terzo giorno la porta si aprì di nuovo, e
nella cella entrò il suo carceriere. Vincenzo, semi incosciente, non
scese dal letto e si limitò ad aprire gli occhi. Attraverso la
fessura delle palpebre socchiuse, riconobbe i bottoni dorati della
giacca. Quando fu sicuro che potesse comprenderlo, il guardiano gli
comunicò che il giudice non era ancora tornato. Vincenzo annuì, e
girandosi su un fianco, subito si riaddormentò. Dopo sette giorni, il guardiano entrò di nuovo nella cella. Ma questa
volta aveva qualcosa di importante da annunciargli. Perciò volle
prima sedersi, e avvicinò al letto una sedia. Il guardiano era scomparso dietro una porta laterale, resa invisibile
dalla tappezzeria della parete. Non passò molto e ricomparve col
berretto di feltro tra le mani. “Il signor giudice ti sta
aspettando,” disse, e si scostò per lasciare libera l’entrata. Vincenzo non sapeva cosa fare di fronte al giudice, che sembrava assorto
in importanti pensieri. Non osava rivolgergli la parola, temendo di
disturbarlo, ma non voleva nemmeno sembrare maleducato, non
salutandolo nemmeno. Si interruppe di nuovo e restò a lungo in silenzio. Quando riprese a
parlare, aveva completamente cambiato tono e argomento. Lo stanzino, o aula del giudizio, come l’uomo aveva detto che doveva
essere chiamato quel buco, a parte lo sgabello, era completamente
vuoto. Non un fascicolo, non un solo foglio di carta, e nemmeno un
tavolo, che potesse far pensare che in quel tribunale si celebravano
dei processi. Vincenzo osservava attentamente ogni movimento del
giudice, che alla fine trovò quello che cercava. Era la terza volta che Vincenzo sentiva di quella storia, ma non lo
disse. Intanto il giudice aveva ripreso a soffiarsi il naso. Poi lasciò
cadere il fazzoletto a terra e si rivolse a Vincenzo. “Hai qualcosa
da dire a tua discolpa?” chiese, e quella era la conclusione del
processo d’appello. Il giudice lo guardò con ironia, e si capiva che altre cento volte
aveva assistito a quella stessa scena. E infatti disse: “Siete tutti
uguali. Volete tutti sapere la stessa cosa. Ma io non ve lo dico,
perché è la legge, e la legge non si può trasgredire”. Fece
un’altra pausa, si schiarì a lungo la voce, tossì, e infine, con
un tono solenne, stupendo Vincenzo per l’ennesima volta, aggiunse:
“L’imputato si alzi in piedi. In nome della legge che governa il
popolo, per i reati rubricati e iscritti a ruolo, già giudicati e
condannati in primo grado da questo tribunale, riconfermiamo la pena
di morte, da eseguirsi mediante decapitazione”. Più che paura, Vincenzo provava meraviglia. Tutto gli sembrava molto
ridicolo, invece di apparirgli drammatico. “L’imputato si alzi in
piedi…”, gli venne da ridere. Ma fu questione di un attimo, perché
il giudice doveva dirgli ancora qualcosa e aveva ripreso a parlare,
questa volta come se Vincenzo fosse un suo vecchio complice.
|
Nome autore | Alfredo Bruni |
Opere edite: | Parole Uguali, 1977; Parole (prefazione di Dante Maffia), 1981; Alfabeto, 1982; Testamento (poemetto), 1984, apparso nel n.8 di “Discorso Diretto”, trimestrale di poesia diretto da Paolo Ruffilli; Il cane bugiardo (prefazione di Dario Bellezza), 1987; Ambiente e poesia (in collaborazione con Giovanni Spedicati), 1988; nel 1994 ha pubblicato un libretto senza titolo, in duecento copie numerate a mano e firmate, contenente una breve prosa e due poesie; La cosa assurda che sporca di bianco, 1995, edizione privata realizzata a mano in quattro copie firmate; Racconto breve (il testo), 1997, edizione privata realizzata in venti copie numerate e firmate; Reprint, 1998, edizione privata; In calce e daccapo (briciole di cemento armato e di presente), 1999, edizione privata con illustrazioni dell’autore; Dubbi, 2000, edizione privata con copertina illustrata dall’autore, realizzata in 11 copie numerate e firmate, Immondizia Diario postumo di un netturbino, 2000, edizione privata con copertina illustrata dall’autore; Sesso, perverso, occasione mancata Sogni, bisogni e vita di un uomo/impiegato qualsiasi, 2000, edizione privata di cui sette copie stampate su carta da pacchi; Il mio immacolato disordine, 2000, edizione privata con un’illustrazione e la copertina disegnate al computer dall’autore; Avanguardia, 2000, edizione privata di un poemetto dedicato alla madre e composto a Bologna nell’aprile 1984 con copertina illustrata dall’autore. |
Collaborazioni: | Per la rivista Primi piani di Roma ha curato una rubrica di segnalazioni e recensioni di videocassette. Ha collaborato con il LiSSPAE di Brindisi e, tra le altre, con le riviste Verso il futuro, Logos, La mongolfiera e Il sodalizio. È stato redattore di Malvagia (trimestrale della cultura sommersa di Milano), in cui ha pubblicato alcune cronache e alcuni racconti. |
Principali Premi: | Principali premi: secondo classificato al Premio G. Carrieri 1983; targa Assitalia al Premio Vallecrati 1983; primo classificato (sezione silloge inedita) al Gran Premio Rebecca 1984 con Il cane bugiardo; secondo classificato al Premio M.F. Iacono 1985 con il racconto “I manichini sorridevano ai fantasmi”; diploma con targa al Concorso S.N.A. negli anni 1986 e 1987; finalista al Premio Fortezza ’86 con il romanzo inedito “Vincenzo il pescivendolo”; primo classificato al Premio Poesie sotto le stelle – Notte di San Lorenzo 2002. |
Note sull'autore: | È attivo nel campo della mail art e della pittura, sperimentando varie tecniche e materiali. Alcune sue composizoni sono state pubblicate nel saggio Parole senza frontiere, di Bianca Maria Folino (www.aloisi.it/scrittori/Folino/), curato dall’autrice milanese per il sito web di Stampa Alternativa (www.stampalternativa.it/ma/index.htm). È stato presentato al pubblico di Amendolara, Terranova da Sibari e Saracena nel corso dell’itinerario culturale meridionale Il Musagete. Per le edizioni La mongolfiera ha curato le poesie di Alfonso Iuso, giovane sieropositivo, ex tossicodipendente della Comunità Saman, pubblicate nel volume Ti chiamerò domani, e Quando il tempo…, della poetessa calabrese Rosalba De Simone. |
alfredofrancesco.bruni@tin.it |