VINCENZO IL PESCIVENDOLO
di

Alfredo Bruni

 

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Diciassette 

  Il giudice aveva avuto ragione. Era difficile ritrovare la strada, in quel dedalo di corridoi e stanze tutte uguali. Il pensiero della fuga, nonostante sapeva che doveva morire, non lo sfiorava nemmeno. Vincenzo capiva che sarebbe stato impossibile trovare l’uscita dell’edificio. Solo per caso, con un colpo di fortuna, si poteva venire a capo di quell’intricata matassa. E fu per caso, o almeno così gli parve, che incontrò il guardiano.

  “Come è andata?” gli chiese questi, che in quel momento gli sembrò come un benefattore.
  Dopo aver fatto la domanda, il guardiano non attese che Vincenzo rispondesse e passò oltre.

  Il pescivendolo, al quale erano rimaste tra i denti le parole, gli corse dietro. Lo seguì in tutti i giri che fece, fino a che, dopo ore di cammino, il guardiano ritornò alla cella.
  La porta era rimasta aperta. Vincenzo aveva i piedi gonfi e si sentiva stanchissimo. Dopotutto aveva subito un processo. Fece più in fretta che poté. Raggiunse l’ingresso della cella, e una volta dentro, si buttò sul letto. Subito si addormentò.

  Aveva dormito meno di due ore, quando il guardiano tornò a svegliarlo.
  “Come è andata?” gli chiese, senza aspettare che Vincenzo fosse completamente sveglio. Ma neanche questa volta attese la risposta. “E’ tra quattro giorni, vero? Sei stato fortunato. Comunque c’è ancora una possibilità per salvarti,” gli disse.
  Vincenzo si svegliò del tutto, e mettendosi a sedere con le gambe penzoloni fuori dal letto, lo ascoltò attentamente.
  “Hai già capito,” riprese il guardiano, “che la decisione del giudice è definitiva, anche se ti hanno concesso ancora quattro giorni. Però, qui da noi, i condannati possono presentare domanda per la grazia”. Fece un profondo respiro. “Ma il sindaco,” disse poi, “la concede solo a chi dimostra di essergli fedele”.
  “Che cosa debbo fare?” chiese allora Vincenzo, che intravedendo quell’estrema possibilità di salvezza, aveva ricominciato a sperare. Orami si era rassegnato a non rivedere più la sua famiglia, e il suo paese, ma pur di salvarsi la vita, era disposto a fare qualsiasi cosa.
  “Per il momento non devi fare niente,” rispose il guardiano. “Devi solo dirmi se vuoi fare la domanda.”
  “Certo che lo voglio, disse Vincenzo, senza indugio. Ora la voce gli tremava di meno.
  “Hai deciso bene,” commentò il guardiano. “Vado a prendere il modulo.”
  Ritornò subito. In mano aveva un foglio verde. “Ecco il modulo, scrivi dove sei nato e il tuo peso e poi firma qui sotto.”

Diciotto 

  Passarono delle ore. Il guardiano, compilato il modulo, aveva chiuso a chiave la cella e se n’era andato. Vincenzo, da dietro la porta, aveva sentito che parlava con qualcuno, mentre si allontanavano nel corridoio. Nella cella era ritornato il silenzio.

  Probabilmente era già notte quando ritornò. Per tutto quel tempo, il pescivendolo era rimasto vicino alla porta ad aspettare. E quando il guardiano entrò nella cella, lo assalì con le domande. “Cosa ha deciso il sindaco?” chiese fremente. “Mi ha concesso la grazia?”
  “Stai calmo,” disse l’uomo, “stai calmo, perché è andato tutto bene, ma non precipitare le cose. Da noi, tutto deve fare il suo corso, mettitelo bene in testa. Ora lavati e sistemati i capelli. Poi vieni con me.”
  Vincenzo si rallegrò sentendo quelle parole, e con scrupolo fece tutto quello che il guardiano gli aveva ordinato. Quando fu pronto, si presentò davanti a lui in modo che potesse controllarlo.
  Il guardiano lo esaminò attentamente. Gli tolse qualcosa dal collo della camicia e gli disse di seguirlo.
  Lo scortò fino a un largo corridoio. Lì si fermò e gli comunicò che avrebbe dovuto proseguire da solo. “In fondo troverai una porta dipinta di rosso. Bussa e attendi finché non ti verrà aperto.”
  Vincenzo impiegò alcuni minuti per percorrere tutto il corridoio. Trovò la porta rossa. Indugiò col pugno chiuso sospeso a mezz’aria. Girandosi, vide che il guardiano, ancora fermo dall’altro capo, gli faceva segno di sbrigarsi. Allora si decise. Bussò piano, poi un po’ più forte. Finalmente la porta si aprì.
  Fece un passo avanti e si trovò immerso nella luce abbagliante, che veniva da certi grandi lampadari, che pendevano imponenti dal soffitto. Gli ci volle fatica, per abituarci gli occhi.

  Il sindaco se ne stava disteso su un basso letto, circondato da belle donne. Indossava una vestaglia scarlatta. Le ragazze lo vezzeggiavano e lo imboccavano con le mani, di cibi di ogni genere. Tutte quelle femmine, ai piedi del sindaco, erano vestite solo di veli colorati e trasparenti.
  Nella sala ridevano tutti. Era anzi un continuo susseguirsi di risate, come se ogni cosa che accadeva, fosse divertente. Solo i servi, che erano numerosi e indossavano un indumento bianco, simile a una tunica, andavano di qua e di là con i vassoi in mano, senza ridere mai. Il loro aspetto era anonimo e si rivolgevano al sindaco, solo tramite le ragazze. Questo Vincenzo lo notò subito. Non osavano nemmeno guardare direttamente, in direzione del loro padrone.
  Quando il sindaco si accorse di Vincenzo, si voltò verso una delle ragazze e disse ad alta voce: “E adesso che cosa vuole costui?”.
  Tutti i presenti risero, a eccezione di Vincenzo e dei servi. “E’ il pescivendolo che hai fatto venire per la grazia,” disse la ragazza alla quale il sindaco si era rivolto.
  “Ahi, me ne ero già dimenticato,” disse il sindaco. E la sala si riempì di nuovo di una fragorosa risata.
  Vincenzo, fermo sotto uno dei lampadari, sentiva caldo. Era in imbarazzo di fronte al sindaco, e la vergogna lo faceva arrossire, vedendo tutte quelle ragazze nude. Una si alzò da terra, e andandogli a fianco, lo fece avvicinare al gruppo, prendendolo delicatamente per un braccio.

  Il sindaco guardò attentamente l’intruso. Una ragazza bionda, gli aveva intanto versato del vino rosso in una coppa e glielo faceva bere a piccoli sorsi. Anche Vincenzo avrebbe voluto bere un po’ di vino, almeno un bicchiere della misura piccola, come quelli che davano alla cantina, ma gli mancava il coraggio per chiederlo.
  Più volte parve che il sindaco fosse sul punto di dire qualcosa, ma fece trascorrere i minuti, mentre tutti gli altri continuavano indifferenti nella loro occupazione. Poi, improvvisamente, gridò: “Chi mi ha eletto?”. E a questo punto si levò un coro di voci, a cui parteciparono anche i servi.
  Appena il coro si azzittì, di nuovo il sindaco chiese ad alta voce: “Chi mi ha eletto?”. E di nuovo si levò il coro che diceva: “Il popolo, il popolo ti ha eletto. E tu sei il nostro unico sindaco”. E quando nella sala ritornò il silenzio, di nuovo, il sindaco, rifece la stessa domanda, e ancora una volta, gli fece eco il coro dei presenti che ripeteva la stessa frase. E fu così per sette volte consecutive.
  Quando tutta la cerimonia ebbe fine, il sindaco ritornò a fissare Vincenzo. Questa volta con più insistenza. La mente del pescivendolo era confusa. Si sentiva completamente svuotato e privo di pensieri, come se il cervello gli fosse stato rubato. Ma era già da molto tempo, che Vincenzo non aveva più pensieri suoi.
  Il sindaco chiamò a sé una delle ragazze e le disse qualcosa nell’orecchio.
  La ragazza, che era accorsa in fretta al segnale del padrone e s’era inginocchiata davanti a lui, come se volesse amarlo, si rialzò e andò dal pescivendolo.
  “Devi seguirmi. E’ un ordine del sindaco,” disse, e si incamminò, andando dalla parte opposta a quella da cui Vincenzo era entrato. La ragazza era alta. Gli occhi azzurri le davano un’aria ingenua, ma il velo che la ricopriva, non nascondeva nulla della sua bellezza.
  Vincenzo la seguì senza fiatare, come oramai da tempo s’era abituato a fare. La sala sembrava infinita. A confronto, l’anticamera del giudice era ben poca cosa. Grande come una cattedrale, mostrava a ogni passo della coppia, i tesori che conteneva. Le pareti erano coperte di quadri, le tavole imbandite con piatti d’argento e bicchieri di cristallo, e agli angoli troneggiavano delle grandi statue di marmo bianco. Mucchietti di oro e pietre preziose, stavano buttati ai piedi delle pareti, alcuni alti anche mezzo metro.

  Tutti quei tesori sembravano buttati lì con noncuranza, come se non avessero valore, o come se il loro padrone ne avesse tanti altri, e ancora più preziosi, che non poteva curarsi anche di quelli.
  Ci volle del tempo per attraversare tutta la sala. La ragazza che lo guidava, sembrava non avere fretta, e Vincenzo poté ammirare con calma tutta quella ricchezza.
  Arrivarono in fondo e, attraverso una porta girevole fatta di cristallo, entrarono in una sala piccola. Un divano di velluto, la riempiva quasi per intero. La ragazza lo indicò a Vincenzo e lo invitò a sedersi accanto a lei.
  Intimorito, il pescivendolo, che era solo un povero e rozzo contadino, che col commercio del pesce, aveva voluto tentare la fortuna si muoveva goffamente, e camminando usava prudenza, come se avesse paura di rompere qualcosa. Con corti passettini, si avvicinò al divano, e dopo avere indugiato ancora una volta, accarezzò la morbida superficie, come per vedere se era troppo delicata, e finalmente si sedette.
  Si era seduto sul bordo, senza appoggiarsi allo schienale, e sembrava che da un momento all’altro, dovesse scivolare per terra.

  La ragazza aspettava. Quando Vincenzo fu più rilassato, gli andò più vicino e incominciò ad accarezzarlo sul ginocchio. Contemporaneamente premeva la sua coscia contro la coscia tozza e muscolosa dell’uomo. Vincenzo si sentì avvampare. La ragazza insisteva con le carezze, e con intenzione lo guardava dritto negli occhi e continuava a sorridergli.
  Il gioco durò alcuni minuti. “Lo so che non dobbiamo dare confidenza ai condannati, il sindaco non vuole, ma qui non può vederci,” disse a un tratto. Parlava a bassa voce, ma se dietro il divano ci fosse stato nascosto qualcuno, avrebbe sentito tutto. A tratti, dalla sala grande, arrivavano fino a loro delle fragorose risate. “Il sindaco,” continuò la ragazza, che s’era fatta ancora più vicina a Vincenzo, “ti ha concesso la grazia, ma tu in cambio devi fargli un favore. Se accetti, avrai salva la vita e potrai godere per sempre delle sue ricchezze. In caso contrario…”.

  Nonostante l’imbarazzo, Vincenzo aveva ascoltato ogni parola della ragazza attentamente. Quella frase lasciata in sospeso, aveva reso inutile la gioia che aveva provato, sentendo che il sindaco gli concedeva la grazia. Dovette farsi forza per parlare. “Se accetto, che cosa dovrei fare?” chiese. Avrebbe preferito che al posto della donna ci fosse un maschio. Con gli uomini era abituato a trattare, mentre con le donne trattava solo certi affari. Abbondavano le prostitute, su tutte le vie che percorreva ogni giorno, per vendere il pesce. Ma in quel momento si decideva della sua vita e doveva a ogni costo vincere la vergogna.

  “Lo saprai a suo tempo,” rispose la ragazza, “qui da noi, ogni cosa ha il suo tempo. Non diamo mai fretta a nessuno. Puoi decidere con calma e quando sarai pronto, ci darai la risposta”.
  Senza aggiungere altro, attirò a sé Vincenzo e lo baciò sulla bocca. Il rozzo pescivendolo, inebriato dal profumo della sconosciuta, si sentì mancare. La bocca della ragazza, era il contrario di quella di sua moglie, odorosa solo di carie e alito cattivo. Si eccitò, e ben presto la ragazza ne ebbe tra le mani la prova più evidente. Vincenzo sperava che la donna si concedesse tutta. Si fosse trovato in un’altra situazione, avrebbe anche lui preso l’iniziativa, ma in quel momento, solo un gemito strozzato gli uscì dalla gola.
  La ragazza si alzò per andare vicino alla porta girevole. Dalla sala continuava a giungere il suono delle risate, che diventavano sempre più rumorose. Quando fu certa che non veniva nessuno, ritornò di corsa al divano e si distese sul morbido velluto.

Diciannove 

  L’aria dell’alba che stava sorgendo, rinvigorì Vincenzo. La ragazza l’aveva accompagnato fuori dalla residenza del sindaco, attraverso un cunicolo che dava sulla strada. Lì lo congedò, dopo avergli dato le ultime istruzioni.
  Quando ritrovò la piazza, subito si accorse che la fontana era scomparsa, ma il suo camion era nello stesso posto dove lo aveva lasciato l’ultima volta. Si affrettò per raggiungerlo. Quando fu vicino, appoggiò le mani sul cofano. Il contatto con la fredda lamiera gli era familiare. La nostalgia si risvegliò nel suo cuore, e senza attendere oltre, entrò nella cabina.
  Il motore si avviò al primo giro di chiave. Era il rumore solito, che per anni, l’aveva accompagnato nei lunghi viaggi, alla guida di quella macchina che era diventata la sua seconda casa.
  In un solo momento, Vincenzo, lasciato solo nella strada, senza guardiani e senza mura che lo imprigionavano, e senza donne nude che lo ammaliavano, e senza tesori da poter guardare, in un solo momento, al contatto col mondo, aveva riassaporato il gusto della libertà. Poi, la vista del camion, aveva fatto il resto. Adesso la nostalgia gli struggeva l’animo. Se avesse potuto fare ancora in tempo, sarebbe andato a riprendere il Guercio e Tobia e poi sarebbe ritornato a casa, come se nulla fosse accaduto. Per salvarsi la vita, era stato disposto a fare qualsiasi cosa. Ma la libertà era una ricchezza più grande di tutte le ricchezze.
  Inserì la marcia e pigiò sull’acceleratore. Le ruote incominciarono a girare dolcemente. Ma aveva percorso solo metà della piazza, quando frenò di colpo.

  Indeciso si scrutò nello specchietto retrovisore. Si era fermato, perché non era più tanto sicuro di volersene andare. Stava per riacquistare la libertà, e presto avrebbe potuto rivedere il suo paese e la sua famiglia. Ma anche questo aveva un prezzo. Doveva rinunciare a qualcosa, che mai più poteva sperare di riavere. Il ricordo dell’oro, il ricordo della ragazza, gli ritornarono prepotentemente alla mente.
  Tutto a un tratto saltò giù dal camion e se ne allontanò, lasciando aperta la portiera. Di corsa andò a rifugiarsi nella chiesa.
  Il prete uscì dal confessionale e gli andò incontro sorridendo. “Ti stavo aspettando,” disse quando furono distanti solo un metro, “ma andiamo nella sagrestia, dove potremo parlare con più calma”.

  La porta della sagrestia era a lato dell’altare. Quando furono dentro, il prete gli porse una sedia e gli disse di sedersi davanti al tavolo. La sagrestia sembrava più grande della chiesa ed era meglio illuminata. In un angolo c’era il caminetto, e oltre a quella in cui si trovavano, dovevano esserci delle altre stanze, perché su una grande parete verde, c’erano due porte chiuse, ridipinte di fresco.   
  Il prete si tolse i paramenti e il colletto bianco, sbottonò le maniche della veste, arrotolandole fin sopra ai gomiti, e poi andò a una credenza. Prese una bottiglia di vino e due bicchieri. Con cura stappò la bottiglia, liberandola dal sughero, e ritornò da Vincenzo. Finalmente si sedette accanto a lui e versò il vino nei bicchieri.

  Parlò di molte cose, incominciando dal tempo inclemente, che nel passato inverno, aveva rovinato tutti i raccolti. Parlò del Papa, di Roma, della fede, dei giovani e del commercio del pesce. Dell’ultimo argomento, Vincenzo capì abbastanza, per il resto si limitava ad annuire con la testa e a dire qualche sì. Intanto il livello del vino nella bottiglia scendeva.
  Era vino buono, forse di quello usato per la messa.
  Quando ne rimase solo un dito, il prete portò la conversazione sull’argomento che gli premeva. “Il sindaco,” disse, “è un brav’uomo, e se qualcuno gli chiede un favore, non dice mai di no. Se poi gli chiedono una grazia, diventa un vero santo”. Parlava lentamente, facendo delle piccole pause tra una parola e l’altra. “Ma sai come vanno certi affari, il sindaco qui rappresenta l’autorità, però è un uomo come tutti gli altri, questa è la democrazia, e di tanto in tanto ha le sue debolezze. Allora bisogna accontentarlo, perché e lui che ci tiene uniti, assumendosi il compito di rappresentare la legge, e ti assicuro che non è un compito facile. Dio in certe faccende non può entrare, per questo abbiamo bisogno del sindaco. Il sindaco fa i favori e concede le grazie, ma è umano che qualche volta, anche lui chieda qualche piccolo favore in cambio.” Si fermò per osservare le reazioni del pescivendolo. Concluse. “Se sei d’accordo, ti dirò che cosa devi fare”.    
 
“Sono venuto in chiesa per questo,” disse Vincenzo, “proprio come mi aveva detto la ragazza”.
  “Quello che hai goduto stanotte,” disse il prete, “è solo un piccolo segno dell’ospitalità del sindaco. Ma avrai molto di più. Puoi esserne sicuro”.
  “Ancora non so cosa dovrò fare,” disse Vincenzo.
  “Non preoccuparti,” rispose il prete. “E’ molto semplice. Si tratta di questo…” Versò il poco vino che era rimasto, dividendolo nei due bicchieri e incominciò a sorseggiarlo.

  Il pescivendolo non sapeva cosa fossero le profezie, ma il discorso del prete era convincente, e inoltre sembrava che tutto fosse molto facile e, a parte il fatto di entrare di nascosto in un luogo sacro, non c’era niente di disonesto. Le pietre della croce, che pendeva appesa a una catena d’oro, dal collo del prete, brillavano a ogni suo movimento.
  “D’accordo,” disse Vincenzo con una punta d’orgoglio, quando il monsignore ebbe finito di parlare. “Dimmi come farò ad arrivare alla capitale, e io ci andrò.”
  “Riceverai tutte le istruzioni,” disse il prete. “Ogni cosa va fatta a suo tempo. Ora ritorna alla casa del sindaco e aspetta.”

Venti 

  Inebriato dalla notte passata nella saletta del divano, Vincenzo non aveva badato alla via che percorreva.
  Perciò non se ne ricordava più e non gli fu facile ritornare alla dimora del sindaco.
  Si affannò per ritrovare la strada giusta. Ne percorse molte, tutte quante deserte, e come il primo giorno i manifesti riempivano tutti i muri delle case.
  Dopo aver vagato a lungo, ricordò che uscendo dalla chiesa, aveva notato che il bar era aperto. Ritornò indietro, e poco dopo era di nuovo nella piazza.
  Quando entrò, nel locale calò il silenzio. A un tavolo rotondo, quattro contadini disoccupati, giocavano a carte. Uno di loro disse qualcosa all’orecchio di un altro, e quest’ultimo fece un cenno con la testa al barista.
  Il pescivendolo si era avvicinato al banco, dove tre uomini, che già stavano consumando birra, si fecero da parte, lasciandogli più spazio di quanto gliene fosse necessario.

  Anche se nessuno ancora gli aveva rivolto la parola, Vincenzo si sentiva temuto e rispettato. E questo gli piaceva molto. Entrando nel locale, aveva subito capito, non solo dall’improvviso silenzio, ma anche dallo sguardo sottomesso che ognuno dei presenti gli aveva rivolto, che adesso lo riverivano tutti, certamente perché da quella mattina, era diventato amico del sindaco, e aveva una commissione da sbrigare per lui.
  “Il signore vuole qualcosa?” chiese gentilmente il barista, che in mezzo a tutti quei contadini, sembrava uno che aveva studiato. E infatti era un impiegato dell’ufficio delle tasse, che quando poteva, andava a lavorare nel bar della moglie.
  “Dov’è la casa del sindaco?” disse Vincenzo quasi sprezzante.  
  L’aiutante barista, che quel giorno non era andato all’ufficio, stupito guardò ad uno ad uno i compaesani. “Ma il sindaco,” disse, quasi fosse incredulo che ancora qualcuno ignorava quel fatto elementare, “non ha una casa. La sua casa è il municipio!”.
  “Dimmi allora dov’è il municipio!!!” disse Vincenzo, con un tono che non nascondeva il suo disprezzo per quell’uomo. Incoraggiato dall’atteggiamento di quella gente, incominciava a spazientirsi.
  L’altro non se lo fece ripetere, e come se non volesse lasciarsi sfuggire una buona occasione, si offrì lui stesso di accompagnarlo o, disse, avrebbe mandato qualcun altro in vece sua, “se il signore lo preferisce”. Era troppo evidente che in quel paese, accaparrarsi l’amicizia degli amici del sindaco, era molto importante.

Ventuno 

  Quando l’uomo che l’aveva accompagnato glielo indicò, Vincenzo ne restò deluso. Aveva di fronte un edificio abbastanza modesto e piuttosto malridotto. Più che alla residenza di un sindaco importante, assomigliava a un vecchio monastero, e non pareva proprio il palazzo dove aveva trascorso l’ultima notte.
  Si entrava salendo da delle lunghe scale, che Vincenzo non ricordava di avere mai disceso. Ma sul fatto che quello fosse il municipio, non potevano esserci dubbi. Le scale, una a destra e l’altra a sinistra, conducevano a un ampio loggiato, al centro del quale troneggiava un portone con i battenti di legno. Sul portone, faceva bella mostra una scritta a grandi caratteri. Si leggevano anche da lontano. MUNICIPIO, diceva la scritta, e questo bastava a fugare ogni ombra di dubbio.
  C’era una sola spiegazione a quello strano cambiamento, e Vincenzo, che aveva rinunciato al suo passato, per ritornare in quella reggia, cercò di convincersi che quella era la spiegazione giusta. Il municipio — si disse — doveva essere tanto grande, da comprendere più edifici, ognuno con la sua entrata.
  Così, avendo trovato a suo modo, una risposta a quest’altro interrogativo, anche se egli stesso non poteva esserne convinto fino in fondo, Vincenzo discese la gradinata che conduceva nello spiazzo davanti al municipio, e scelse di salire per la scala di destra. Il portone era completamente spalancato. Entrò senza indugiare. Tra le due scale, in una nicchia polverosa, una vecchia fontana arrugginita, che non dava più acqua, faceva da sentinella al tempo che passava.

  L’interno del municipio era squallido, ancora più fatiscente della facciata. Gli si presentò davanti un vecchio corridoio, lungo almeno trenta metri, su cui si affacciavano alcune porte dipinte di giallo.
  Un ometto, piccolo piccolo, comparve da un’altra porticina laterale, messa proprio vicino all’ingresso principale. Era minuto come un bambino e aveva la faccia smunta e malaticcia. Fin dalla prima parola, si dimostrò della stessa pasta di quelli del bar. Indossava una divisa grigia con i fregi e i bottoni dorati. Andò incontro a Vincenzo e lo salutò con molto garbo.
  “E’ questa la casa del sindaco?” disse il pescivendolo, senza rispondere al saluto.

“Questo è il municipio,” disse l’ometto che sembrava uno gnomo, “e il municipio è la casa del sindaco. Ma è anche la casa di tutti, perché il municipio appartiene al popolo che ha eletto il suo sindaco. Infatti io vivo qui, con la mia famiglia. Perché io non ho una casa mia, e il sindaco mi ha concesso quella piccola stanza. Di sera, quando è tutto chiuso, tiro fuori nel corridoio, i letti dei miei quattro figli, e io e mia moglie dormiamo nella stanza. È un po’ sacrificato, e la mattina debbo alzare tutti presto, perché il municipio apre alle otto, ma in compenso sono sempre qui, per qualsiasi cosa. Io sono l’usciere e ho la chiave del portone centrale e anche quelle di tutti gli uffici,” e mostrò con orgoglio il distintivo dorato, che portava appuntato al petto in bella evidenza.

  “Ho piacere, signore usciere, di averti incontrato,” disse Vincenzo, “ma adesso vorrei parlare col sindaco o col segretario,” ricordando in quel momento, che nel municipio c’era sempre un segretario e che anche al suo paese ce n’era uno.

  “Adesso,” rispose il vecchio, “il sindaco non c’è, perché è uscito, e il segretario non c’è neppure, perché è andata in pensione dieci anni fa. Da allora non ne hanno mandato uno nuovo, perché a noi non serve un segretario. Anche gli altri impiegati sono tutti impegnati a lavorare, e non possiamo disturbarli. Ma se ti serve qualcosa puoi dirlo a me”.  
  Vincenzo incominciava a stancarsi di quel vecchio, che, quando parlava, era finanche troppo garbato, ma non voleva sembrare un cafone, perciò cercò di rispondergli educatamente.
  “Ti ringrazio,” disse, “ma non mi serve niente. Volevo solo parlare col sindaco, ma visto che non c’è, aspetterò”.

  “E’ inutile che l’aspetti,” disse allora l’usciere, “perché il sindaco non ti riceverà più. Ti ha affidato a me, e io ti darò tutte le istruzioni. Ti farò sapere quando sarà il giorno, intanto alloggerai qui, vedrai che i miei figli non ti daranno fastidio. Ci sono tre stanze,” e indicò con l’indice le tre porte. “Puoi scegliere quella che ti piace di più.”

  Poco dopo Vincenzo era di nuovo solo, per affrontare l’ultima prova.

Ventidue 

  Quando notò che lo specchio non rifletteva le immagini, per la sorpresa fece un balzo indietro.
  Era entrato timidamente nella prima stanza e aveva visto quel grande specchio appeso alla parete. Subito ne era stato attratto, e si era avvicinato per guardarvi dentro.
  Mentre cercava di capire l’inghippo, da dietro sentì una vocina che lo chiamava. La porta si stava chiudendo da sola e nella stanza cadeva la penombra. Per questo non si era accorto che c’era qualcun altro.
  “Scegli questa stanza,” implorava la vocina, “anche se non è molto grande. Ma d’inverno è ben riscaldata”.
  Non capiva da dove proveniva la vocina. La porta si era completamente chiusa e la stanza adesso era al buio. Si ricordò di avere in tasca dei fiammiferi. Ne accese uno. In un angolo, a lato della porta, vide un uomo magro e longilineo, vestito da prete. A stento, tanto era alto, riusciva a stare in piedi nella stanza, senza battere la testa contro il soffitto.
  “E tu chi sei?” chiese Vincenzo meravigliato da quella strana figura.
  “Io sono don Girolamo,” rispose il prete.
  “Piacere. Io sono Vincenzo il pescivendolo e vengo da…” e disse il nome del suo paese, ed era la prima volta che lo pronunziava da quando era arrivato.
  “So chi sei e perché sei venuto. Qui le voci circolano in fretta,” disse don Girolamo.
  “Cosa ci fa un prete, qui dentro?” chiese Vincenzo, che ancora non si era abituato alle sorprese che quel paese gli riservava.
  “In questa stanza ci abito da trentadue anni,” rispose l’altro. “Non vedi che la schiena mi si è incurvata, perché il soffitto della stanza, è troppo basso per me?” Si girò, e mostrò al pescivendolo una piccola gobba che lo accorciava di alcuni centimetri.

  Vincenzo continuava ad accendere fiammiferi, che stringeva tra due dita finché non sentiva bruciare. Ne accese un altro e chiese al prete: “Perché continui a vivere qui e non te ne torni a casa tua?”.
  “Non posso,” sospirò don Girolamo. “Sono stato condannato all’ergastolo,” e senza che Vincenzo glielo avesse chiesto, incominciò a raccontare. “Una volta,” disse, “prima che venisse eletto questo sindaco, la mia casa era la parrocchia, ma una notte, disgraziata, per me e per tanti altri, in paese venne commesso un delitto. Ignoti uccisero un contadino, oppositore del partito del sindaco, che a quel tempo era ancora giovane, ed era un semplice consigliere. Qualche giorno dopo, le guardie trovarono dentro il confessionale, un coltello e un fazzoletto sporchi di sangue, e mi incolparono dell’omicidio. Io conoscevo l’assassino, ma non potevo accusarlo. Infatti, una sera venne da me un giovane e chiese di confessarsi. Sebbene l’ora tardi, avevo il dovere di farlo, così riaprii la chiesa solo per lui. Era evidente, tanto era agitato, che sulla coscienza gli pesava qualcosa di molto grave. Aveva le pupille dilatate e le mani gli tremavano. Quando si calmò, lentamente, con la voce rotta dal pianto, mi raccontò ogni cosa. E alla fine mi consegnò anche una prova del delitto, una lettera che gli avevano dato. Io però non potevo assolverlo, perché doveva confessare la sua colpa anche alla giustizia. Ma lui si rifiutò, e adesso è ancora libero”.

  Il pescivendolo si commosse alla storia di Girolamo, e credendo di aiutare il povero recluso, offrendogli, bella e pronta, una soluzione, gli disse: “Se davvero conosci in nome dell’assassino e hai anche la prova, perché non lo denunci, così sarai libero?”.
  “Non posso,” rispose il prete, “perché ho il segreto che mi lega. Per questo ho dovuto anche nascondere la lettera, in un luogo segreto. Ma qui non si sta tanto male, quello che mi pesa di più, è il fatto che il mio vescovo, non è mai venuto a farmi una visita”.

  Turbato dal racconto del prete, pur non sapendo molto delle faccende della chiesa, Vincenzo capiva che don Girolamo aveva subito una grossa ingiustizia. Non ebbe però il tempo per riflettere su tutto ciò, perché il religioso non aveva ancora finito, e interrompendo il filo dei suoi pensieri, gli disse: “Oggi, in paese, l’omicida è una persona importante e temuta, ma io continuo a pregare per la sua anima. Però adesso lasciamo stare questi discorsi e parliamo di noi”.
  “Cosa avrà da dirmi?” pensò Vincenzo, cercando di immaginare il seguito del discorso. Don Girolamo riprese: “So perché sei venuto fin qui, perciò ti chiedo di restare nella mia stanza. Non ho niente da offriti, è vero, ma ti offro tutto quello che ho”.
  “Vuoi dire,” chiese Vincenzo, “che dovrei restare qui con te, per sempre, rinunciando a fare quello che ho promesso?”.
  “E’ proprio così,” rispose pronto don Girolamo. “Io ci ho vissuto per tanti anni in questa stanza e sono ancora vivo.”

  A un tratto la commozione svanì. Non aveva rinunciato a tutto, per ottenere la compagnia di un prete carcerato da trentadue anni. Questa volta voleva dare una svolta alla sua esistenza. Non gli rispose e decise di andare nella stanza accanto.
  Don Girolamo non lo trattenne. Mentre usciva, senza farsi vedere, lo benedisse con la mano, e in silenzio, solo col cuore, pregò per lui.
  Anche nella seconda stanza, appeso sulla parete di fronte all’entrata, c’era un grande specchio, che si illuminò di una luce bianchissima, quando Vincenzo entrò.

  Lo specchio, come l’altro nella stanza di don Girolamo, non rifletteva le immagini, ma osservandolo attentamente, dentro il vetro si vedevano delle persone.
  Cercò di mettere a fuoco le figure. Era difficile con quella luce bianca che abbagliava. Ma poco dopo riconobbe sua moglie che impastava la farina, come se stesse preparando il pane. Vide i figli, diventati di nuovo bambini, mentre rincorrevano una palla. Alla fine vide il Guercio e Tobia che vendevano pesci nella piazza del paese, e a fianco a Tobia, che incassava i soldi, c’era un posto vuoto. A quelle scene, tanto consuete, gli occhi gli si riempirono di lacrime.
  E presto scoppiò in un pianto dirotto, quando vide i suoi cari e i due amici, che smesse le faccende nelle quali erano impegnati, lo chiamavano per nome, facendo dei grandi gesti con le mani.

  Un poco alla volta, nell’immagine dello specchio, arrivarono altre persone. Vincenzo le conosceva tutte. C’erano i vicini di casa, i compagni della cantina, il cantiniere, tutti i preti della cattedrale. Adesso riusciva a sentire anche le parole. “Tornatene a casa,” dicevano. “Tornatene a casa…”

  Ma all’improvviso, si sovrappose a quella visione, il volto di una donna. Sorrideva, e a ogni sorriso, sputava una moneta d’oro.
  Il pescivendolo asciugò le lacrime. Si vergognava. Mai nessuna donna l’aveva visto piangere. Allora decise di andare nella terza stanza.
  Anche quella era uguale alle altre. Appena fu dentro, lo specchio si illuminò di una luce intensa e viola.
  Vincenzo vi si avvicinò e questa volta vide una casa. Guardò meglio e si accorse che era la casa dal tetto rosso. La stessa che aveva inutilmente cercato di raggiungere, il giorno in cui era iniziata la sua strana avventura. Davanti alla casa sedeva una vecchia. Ed era la stessa vecchia del crocicchio, e ancora una volta stava seduta su una pietra. Appena l’immagine fu completamente a fuoco, la vecchia si alzò e avanzò di qualche passo. Poi si rivolse a lui e gli disse: “Tu non potrai mai liberarti di questa casa, perché è la casa nella quale sei nato. Ma neanche di me ti libererai”. A quel punto, la vecchia incominciò a trasformarsi davanti agli occhi attoniti di Vincenzo, che la stava vedendo tramutarsi da donna in uomo.

  Un attimo dopo, al posto della vecchia, vide un uomo vestito di quegli abiti semplici che vestono i contadini. Aveva il volto stanco dei contadini, ma era ben fatto e muscoloso, con i capelli appena brizzolati che incorniciavano un sorriso ingenuo e un po’ triste.
  Vincenzo non ricordava bene suo padre, perché era morto quando lui aveva appena otto anni. Ma quello che stava vedendo, era l’uomo della fotografia grande, che la madre teneva bene incorniciata nella stanza da letto. Era quello l’unico ricordo, oltre alla terra, che era rimasto del padre.
  Cercò di convincersi che stava avendo delle visioni. Forse era uscito pazzo. Ma il padre era sempre davanti a lui, come se fosse uscito anche dallo specchio, e aveva incominciato a parlare. “Nessuno,” diceva l’immagine nello specchio, “può dimenticare la sua casa. E anche quando la casa viene distrutta, continuerà a esistere per chi vi è nato. Però non hai voluto darmi ascolto. Anche da piccolo eri così! Non dovevi buttare i pesci nel fosso, ma la paura è stata più forte. Ora ti resta ancora una possibilità, perciò ritorna al tuo camion e cerca bene. Se trovi un pesce, torna subito da me”.
  Vincenzo non capiva, ma l’apparizione di suo padre, era l’ultima cosa che si aspettava, e almeno adesso, anche se forse era troppo tardi, non voleva disobbedirgli, perché era quello il padre che aveva sempre voluto, e non c’era stato rimedio, perché la madre era rimasta vedova per sempre.
  
  Correndo ritornò nella piazza. Non gli fu difficile trovare la strada. Il suo camion c’era ancora. Incominciò a frugare nel cassone. Finalmente trovò un pesce. Uno solo. Era marcio e puzzava. Ma non aveva altra scelta, perciò lo prese e ritornò al municipio.
  In fondo alla scala, vide la vecchia, seduta sul marciapiede, con le spalle rivolte all’antica fontana. Anche quello era un ricordo che si era cancellato.
  Capì che doveva andare vicino alla donna, e lei subito l’apostrofò. “Hai visto cose è rimasto della tua vita?” disse. Vincenzo la guardava ancora incredulo. “Invece il sindaco di questo paese,” continuò la vecchia, “è ricco, e tu volevi diventare come lui. Ma nemmeno il sindaco può fare tutto. Possiede l’oro, ma non ha cibo sufficiente per sfamare il popolo. L’oro non si mangia, e per questo ne fa morire tanti. Tu invece avresti potuto regalare i pesci e il popolo ti avrebbe acclamato”.

  Il pescivendolo capiva che oramai la partita era chiusa, anche se in fondo, la colpa non era tutta sua, se tante volte nella vita, aveva visto fare agli altri le stesse cose, e con l’ultimo sprazzo d’orgoglio, che ancora poteva sopravvivere in un uomo giunto a quel punto, chiese: “Sarebbe servito a qualcosa? Se io stesso non possiedo niente, come avrei potuto sfamarli tutti?!”.
  La vecchia non indugiò a rispondere. “Si ha sempre paura quando si vogliono salire le scale,” disse. “Ma ora, se tu lo vuoi, il camion posso riempirtelo di nuovo”.
  “E come farai?” chiese Vincenzo.
  “Non sei cattivo,” rispose la vecchia, “ma non hai ancora compreso l’ultimo mistero della vita. Nessuno lo conosce, ma ciò che ti avevano detto di fare, era un gesto inutile. Almeno questo dovevi capirlo. Ora dammi quel pesce marcio, e vedrai di quali prodigi saresti stato capace”.
  Sembravano vivi i pesci che apparivano sul palmo della vecchia mano. “Vedi,” disse la donna, “in questo mondo niente è impossibile. Tra poco avrai tanto pesce, da poterci riempire tutto il tuo camion. Se mi darai ascolto, ti dirò dove venderlo, e prima di sera farai ritorno al tuo paese”.
  “Vuoi dire,” rispose Vincenzo, non lasciandola nemmeno finire di parlare, “che dovrò ritornare a lavorare e a fare la vita che facevo prima?”.
  “Devi scegliere,” disse la vecchia. “Ti ricordi il giorno in cui sei arrivato? C’erano tutti quei manifesti con il tuo nome. Adesso puoi decidere.” Tacque, in attesa di una risposta che non venne. Allora riprese a parlare. “Puoi tornare a essere Vincenzo il pescivendolo,” disse, “o puoi continuare a salire la scala. Ma da solo dovrai scoprire qual è quella giusta”.
  Vincenzo sembrò valutare la proposta, perché si richiuse in sé stesso, pensieroso. La vecchia lo guardava. In quello stesso momento aveva smesso di moltiplicare i pesci, e la fontana dietro di lei, era arida come il deserto del mondo.
  Finalmente Vincenzo si scosse, ma non parlò. Lentamente si avviò verso una delle due scale, e ancora più lentamente incominciò a salire a uno a uno i gradini. Rimuginava nella mente le ultime parole della vecchia. Quante cose strane gli erano accadute in quelle ore. “… qual è quella giusta?…”
  Avrebbe voluto scoprirlo, ma non ne aveva la forza. Ci avrebbe pensato il giorno dopo.

  Nel municipio nulla era cambiato. Si incamminò lungo il corridoio. Arrivò davanti alla prima porta. L’oltrepassò. Oltrepassò anche la seconda, e l’ultima non la guardò neppure.
  Sul fondo ce n’era un’altra. Dalla targhetta si poteva vedere che era quella del sindaco. La spinse senza indugio ed entrò. Una stanza circolare, alta e stretta, quasi un cilindro di cemento, l’accolse. Il sindaco gli sorrideva. Subito dopo, una nebbia dorata, densa come nient’altro al mondo, invase la stanza e la mente. Contemporaneamente, nella piazza del suo paese, si sentì un pescivendolo gridare. “Pesce fresco, pesce fresco a poco prezzo, venite donne, è regalato…”
  La folla accorse. La vita non era ancora finita. La mostruosità del mondo, era solo un’anticipazione dell’inverno, un’oscura parvenza, che lascia la bocca eternamente amara.

Nota : Gran parte di questa storia è vera. Ci è stata raccontata da un vecchio conoscente nel 1984, ma nel mondo ci sono le prove della sua autenticità. Per quanto possibile, si è cercato di mantenere la forma originaria del racconto.

 

Nome autore Alfredo Bruni
Opere edite:   Parole Uguali, 1977; Parole (prefazione di Dante Maffia), 1981; Alfabeto, 1982; Testamento (poemetto), 1984, apparso nel n.8 di “Discorso Diretto”, trimestrale di poesia diretto da Paolo Ruffilli; Il cane bugiardo (prefazione di Dario Bellezza), 1987; Ambiente e poesia (in collaborazione con Giovanni Spedicati), 1988; nel 1994 ha pubblicato un libretto senza titolo, in duecento copie numerate a mano e firmate, contenente una breve prosa e due poesie; La cosa assurda che sporca di bianco, 1995, edizione privata realizzata a mano in quattro copie firmate; Racconto breve (il testo), 1997, edizione privata realizzata in venti copie numerate e firmate; Reprint, 1998, edizione privata; In calce e daccapo (briciole di cemento armato e di presente), 1999, edizione privata con illustrazioni dell’autore; Dubbi, 2000, edizione privata con copertina illustrata dall’autore, realizzata in 11 copie numerate e firmate, Immondizia Diario postumo di un netturbino, 2000, edizione privata con copertina illustrata dall’autore; Sesso, perverso, occasione mancata Sogni, bisogni e vita di un uomo/impiegato qualsiasi, 2000, edizione privata di cui sette copie stampate su carta da pacchi; Il mio immacolato disordine, 2000, edizione privata con un’illustrazione e la copertina disegnate al computer dall’autore; Avanguardia, 2000, edizione privata di un poemetto dedicato alla madre e composto a Bologna nell’aprile 1984 con copertina illustrata dall’autore.
Collaborazioni: Per la rivista Primi piani di Roma ha curato una rubrica di segnalazioni e recensioni di videocassette. Ha collaborato con il LiSSPAE di Brindisi e, tra le altre, con le riviste Verso il futuro, Logos, La mongolfiera e Il sodalizio. È stato redattore di Malvagia (trimestrale della cultura sommersa di Milano), in cui ha pubblicato alcune cronache e alcuni racconti.
Principali Premi: Principali premi: secondo classificato al Premio G. Carrieri 1983; targa Assitalia al Premio Vallecrati 1983; primo classificato (sezione silloge inedita) al Gran Premio Rebecca 1984 con Il cane bugiardo; secondo classificato al Premio M.F. Iacono 1985 con il racconto “I manichini sorridevano ai fantasmi”; diploma con targa al Concorso S.N.A. negli anni 1986 e 1987; finalista al Premio Fortezza ’86 con il romanzo inedito “Vincenzo il pescivendolo”; primo classificato al Premio Poesie sotto le stelle – Notte di San Lorenzo 2002.
Note sull'autore: È attivo nel campo della mail art e della pittura, sperimentando varie tecniche e materiali. 
Alcune sue composizoni sono state pubblicate nel saggio Parole senza frontiere, di Bianca Maria Folino (www.aloisi.it/scrittori/Folino/), curato dall’autrice milanese per il sito web di Stampa Alternativa (www.stampalternativa.it/ma/index.htm). 
È stato presentato al pubblico di Amendolara, Terranova da Sibari e Saracena nel corso dell’itinerario culturale meridionale Il Musagete.
Per le edizioni La mongolfiera ha curato le poesie di Alfonso Iuso, giovane sieropositivo, ex tossicodipendente della Comunità Saman, pubblicate nel volume Ti chiamerò domani, e Quando il tempo…, della poetessa calabrese Rosalba De Simone.
e-mail alfredofrancesco.bruni@tin.it

 

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