Seconda Parte
In settimana mi diverto a giocare con il computer
regalatomi da mio fratello, un maniaco in grado di fare qualsiasi
cosa, addirittura, una volta l’avevano pure chiamato a lavorare in
una azienda di livello internazionale.
Ha risposto picche, ci gioca e basta, non gl’interessa
passarci una vita sopra a lavorare.
Mentre sto giocando, mi viene in mente di scrivere
qualcosa.
Comincio a scrivere di cose passate, di quello che
è successo nella mia pur breve vita.
Ad un certo punto mi torna alla mente che non ho
più visto Josuè.
Il semplice fatto di scrivere qualcosa della mia
infanzia, di cose accadutemi, mi porta in modo spontaneo a ricordare
Josuè.
Come sembra lontano il ricordo del tipo, e come ora
lo senta presente, all’interno del mio stesso essere, non so come
spiegarmi questa sensazione.
Viene quasi da pensare che sia proprio lui a
scatenare in me tanta voglia di ricordarlo, forse viene in mente
perché non l’ho più rivisto o forse è la mia immaginazione a
creare questa sensazione. Fatto sta, che entro in uno stato comatoso.
Tutto si ferma.
Vedo e non vedo ciò che è all’infuori di me,
sembra di essere all’infuori delle cose materiali che mi circondano,
compreso il mio corpo, sono catapultato in una dimensione che non ho
mai sperimentato prima, tutto è così tranquillo.
Anche il mio stesso respiro si è calmato di colpo,
ho amplificato il modo di sentire, di udire, percepisco cose che sono
al di fuori della mia percezione, tutto è così strano ma invitante.
Ricordo non aver mai provato questa strana ma
bellissima sensazione.
Una sensazione nuova e fresca, simile all’innamoramento,
come quando t’innamori e ti è tutto così leggero, spontaneo.
Sto nuotando in un lago, ma il mio nuotare non è
uno sforzo fisico, ma piuttosto un volare a pelo sull’acqua.
Questo ricordarmi le cose accadutemi, conduce
sempre più il mio essere alla ricerca dell’equilibrio interiore,
non ho mai fatto caso a questo, ma ora mi è chiaro.
Sembra che tutto quello che è successo nella vita
non sia altro che materiale per espandermi interiormente.
Ho fatto un balzo in avanti dell’essere, ho
riscoperto l’interiorità, mi sono risvegliato da un lungo letargo.
Quasi non credo ai miei occhi, aver scoperto tutto
questo grazie al semplice fatto di aver conosciuto per pochi attimi
Josuè.
E’ lui che ora sta sussurrando all’interno del
mio essere.
Ed è lui, Josuè, che capitò davanti un giorno
mentre stavo passeggiando con il mio fido cane lungo l’argine di un
fiumiciattolo, il posto in cui avevo trovato Antonio a pescare.
Con mia grande sorpresa ora non incute più timore.
Sento salire un’emozione straripante, mi sento
euforico, è oramai da circa cinque anni che non lo vedo, ed ora è li
a pochi passi, come un fantasma.
Lo posso sentire in tutta la sua fragranza, certo
sembra sia anche un qualcosa di gustoso da assaporare, da annusare.
Riesco subito a rompere il ghiaccio e a chiedere
come mai non l’ho più rivisto su all’eremo.
Ma Josuè è impassibile.
Non una piega o un cenno al mio indirizzo. Continuo
a chiedere e più chiedo più Josuè sembra impassibile. Non gl’importa.
Svanisce sotto i colpi incessanti della mia lingua,
fino al punto di esaurire tutte le forze, però, ecco che all’improvviso
Josuè si affaccia per la prima volta al cospetto e saluta in modo
molto naturale e semplice.
Resto lì disorientato.
Non riesco a capire come mai ora mi si affaccia
davanti in questo modo, il suo modo di fare mi manda in tilt, rende le
cose ancora più difficili, almeno secondo la mia osservazione.
Fa cenno di sedermi vicino e di restare in silenzio
per un paio di minuti.
Sono passati venti minuti e sono ancora li seduto a
gustarmi il momento delizioso che sento nascere dentro di me.
Mi sento come un bambino, fresco, pieno di energia
e di serenità.
Ora tutto sembra avere un significato diverso, l’essere
in semplice silenzio accanto a Josuè, mi riempie d’amore, si amore,
penso sia solo questa la parola da esprimere, ammesso si possa.
Una sola parola per dare il senso di totalità che
sto provando.
Josuè, mi chiede incuriosito della risposta, se
sono contento di averlo rivisto.
Gli rispondo che non l’ho più dimenticato dal
primo giorno che l’ho visto, non so, è come se non fosse mai
mancato all’interno del mio essere.
Forse è una cosa che porto appresso fin dall’infanzia.
E’ ancora avvolto in un mistero il fatto che da
bambino provassi le stesse emozioni che ora provo dinanzi a Josuè.
Questo non è che un motivo di discussione
appassionante e di estremo interesse.
Gli chiedo, sostenendo il suo sguardo penetrante.
"Josuè, mi puoi dare delle risposte a tutto questo?, ti sembra
che stia esagerando o c’è un nesso in tutto questo?".
E lui, allentando le difese.
"Certo che c’è un nesso in tutto questo,
quando eri bambino tutto era chiaro e limpido, perché eri pura
essenza.
Eri innocente come il cucciolo che succhia il latte
alla madre.
Tutta l’esistenza si riversava in te e tu
ricevevi energia vitale data la tua trasparenza, dalla tua aperta
disponibilità ad essa.
Eri semplicemente un vaso vuoto da riempire d’amore,
tutti i bambini nascono con queste qualità. Poi succede la vita.
La vita è quella che ti si pone davanti per farti
capire qual è la tua natura.
Ti può togliere la fragranza, l’amore, la
bontà, ma questo è solo un pretesto per farti ritornare bambino
consapevole delle sue qualità.
Quando le persone si ritrovano, ritrovano la loro
anima, il loro centro, si catapultano di conseguenza nell’amore
universale, tutto ciò che erano all’inizio del viaggio, lo
ritrovano con fanciullesca consapevolezza durante la loro vita.
E questa che tu chiami mistero non è altro che l’amore".
Sentite queste dolci e fragili parole pronunciate
da Josuè, m’intenerisco e quasi mi metto a piangere dalla
felicità.
Quello che ha detto è sempre stato all’interno
di me, ed ora che ho udito ciò, ne sono ancora più felice. Sembra
che tutto quello che ho appena sentito sia uscito dalla mia bocca,
tanto è universale il linguaggio che parla Josuè.
Continuo a massacrare Josuè con domande a
ripetizione, lo incalzo a tutto campo.
Lui, come prima, si ritrae e non apre più bocca. L’ascia
che parli per dieci buoni minuti.
Fa cenno mormorando divertito che se ne deve
andare.
Io, mi blocco di colpo e gli dico di restare ancora
per un attimo.
Mi assicura che non ha voglia di ascoltare tutte le
domande e che non servono a niente.
"Sono solo pattume", risponde in modo
sbrigativo.
Lo guardo un po’ divertito e gli dico: "Come sono tutte pattume, cosa vorresti
insinuare?, non ti sto chiedendo delle stupidaggini".
E Josuè.
"Certo che lo sono, ma non nel senso che lo
intendi tu.
Non sto dicendo che le tue domande non siano
precise o che non abbiano senso è solo che sono solamente parole,
parole, parole, e tutte queste parole non servono assolutamente a
nulla.
Tu non sei quelle parole, sei di più, sei…"
e resta zitto.
Gli chiedo cosa sono.
Risponde che non sono, cioè che sono tutto e
niente, vuoto o colmo d’amore, universalmente amore.
Vedo svanire Josuè in lontananza.
Raccapriccia il fatto che forse non lo rincontrerò
più per diverso tempo.
Quei pochi istanti passati assieme, donano la forza
e l’energia al corpo di continuare il cammino verso casa.
Mi tornano alla memoria le belle parole pronunciate
da Josuè, sono estatico e ansioso di raccontarlo ad Antonio, sicuro
che ora s’incuriosisca e stia ad ascoltare.
La sera, dopo aver cenato con mio fratello e aver
parlato di scuola e libri, dato che lui doveva uscire con una ragazza,
telefono ad Antonio e lo invito a bere una birra a casa mia.
Arrivato, mi presto tutto euforico e colmo di
energia. Lui, subito, non sembra molto interessato a quello che gli
sto a dire, poi, man mano che parlo di Josuè e delle sue splendide
parole, vedo crescere ad Antonio un misto di curiosità e
coinvolgimento.
Si vede che fa effetto, almeno così sembro aver
capito in quei pochi minuti di conversazione, poi, scopro sconsolato
che il tutto non è una curiosità tipica di chi sta ad ascoltare, ma
è bensì il suo stato d’animo che ha cambiato tono ed effetto.
Si è appena fatto una canna ed è arrivato a casa
mia ancora un attimo prima di andare fuori di testa.
Constatato che è proprio così, dico ad Antonio
quando pensa di smettere con il fumo.
Lui, incurante delle parole, canticchia fra sé
una canzone familiare, non sembra dar peso ai miei avvertimenti.
Visto che non ottengo nulla di buono, mi metto a
ridere come un matto, tanto ho capito, non c’è niente da fare, è
fatto così.
Gli piace troppo farsi le canne e non posso certo
farlo uscire da qualcosa che gli va di fare.
Oramai è da anni che si fa e sono altrettanti anni
che cerco di farlo smettere senza successo, ho capito che è tutto
inutile.
E’ lui che deve sentirsi in grado di farlo se ne
ha voglia.
La serata che volevo trascorrere si tramuta in un
casino.
Antonio, comincia a tenere discorsi assurdi sulle
ragazze; afferma che vuole scoparsele tutte, anche quelle con i peli
sulle gambe.
Addirittura continua a ripetere che per soldi
scoperebbe anche sua madre.
Io, non riesco più a trattenermi dalle risate.
Mi viene perfino il mal di pancia da quanto forzo
la risata, fa male addirittura la bocca da quanto la tengo aperta.
E’ come se un dentista si fosse dimenticato il
divaricatore per qualche ora e che nel toglierlo si fosse bloccata da
un crampo.
Tutto quello che volevo dire ad Antonio, si
trasforma in una serata all’insegna della pazzia, ora ne sono
coinvolto anch’io.
Antonio, vedo, fa un’altra canna, e così vado
anch’io fuori di testa.
Cominciano a venirmi i primi sintomi di pazzia
allorché mi metto in piedi sopra la tavola con una scopa in mano,
nudo, a schitarrare come un pazzo schizofrenico.
Antonio, visto l’andazzo si lascia andare ad uno
strip esagerato che finisce sul divano e con fare da porno attore si
esprime in una vistosa e sonora smanettata.
Se in quel momento fosse entrato mio fratello,
avrebbe sicuramente fatto il 113, o addirittura il 118, servizio
psichiatrico.
La serata fu unica.
Dopo aver consumato un paio di birre a testa, ad
Antonio viene la strana e pazza idea di andare a fare un giro in un
locale sexy.
Presa la macchina dal garage e salutato il mio
cane, che peraltro ci guarda esterrefatto, c’immettiamo in strada,
insicuri del nostro andare, non sappiamo bene cosa stiamo facendo,
però ormai è fatta, si deve concludere con il botto.
Arriviamo ad un toples-bar nel centro città, dopo
aver fumato un’altra canna.
Entriamo e non riusciamo neppure a conoscerci a
vicenda.
Ci prendiamo due ragazze e le accompagniamo ad un
divanetto, parliamo un po’ del più e del meno.
Nel frattempo le tocchiamo a vicenda senza
disturbarle.
Loro, si lasciano fare senza nessun ritegno.
E’ da tanto che non tocco una ragazza, e in
queste condizioni tutto è così semplice.
Questa sera, ho voglia di fare sesso e dato che
dobbiamo finire con il botto le portiamo a casa mia. Antonio, lo
parcheggio in camera mia, io, mi metto sul divano.
Mentre faccio sesso, passano davanti ai miei occhi
come in un film, tutte le scene che ho fatto prima di uscire, mi viene
anche da ridere, ma oramai l’eccitazione è troppo alta e nel
momento del piacere più intimo mi trapassa davanti un’altra figura.
Questa la conosco molto bene, è la figura di Josuè.
Rimasto in comune silenzio per un paio di minuti,
torna sempre più insistente il volto di Josuè.
Non fa che procurarmi strane sensazioni, non riesco
a capire se è frutto della mia esperienza diretta, o se è una
fantasia creata dal troppo fumo o dalle birre che ho bevuto.
Nello stesso istante tutto questo appare logico, è
nata in me una nuova sensazione.
L’aver approfittato seppur consensualmente, di
fare del sesso con una prostituta, fa nascere in me una nuova
consapevolezza.
Come posso sentirmi in pace e sereno avendo tratto
piacere da una persona costretta dal lavoro e dai soldi, a fare tutto
ciò?, se lei non capisce che sta sbagliando, come posso approfittarne
senza sentirmi in colpa?.
Scomparso il volto di Josuè, mi ritrovo la ragazza
tra le braccia.
Non capisco come faccio a trovarmi in questa
situazione, sono sorpreso.
La tipa, una certa Gessi, mi si accoccola
abbracciandomi sul collo e sostiene che starmi vicino la fa sentire a
casa.
Le do la sensazione di essere nel suo rifugio, mi
dice contenta, ed io, che non riesco a capacitarmi di tutto questo, ne
resto contento e divertito.
Forse comincio a capire qual è il significato di
tutto ciò.
Il mio stato di quiete, il mio semplice essere, da
sensazioni esterne che sono captate solo da persone che sono più
sensibili.
Si affacciano dinanzi nuove esperienze.
Ora posso capire come mai i miei atteggiamenti sono
diversi da così tanta gente, il solo fatto di aver compreso la mia
natura, mi fa danzare in un vortice di colore e luce.
Come mai non ne ero venuto a conoscenza prima, mi
chiedo senza sosta, tutto quello che ho fatto e provato è forse la
via per il raggiungimento del mio potenziale spirituale?, o questo è
soltanto un piccolo tratto di strada che devo percorrere?.
E’ chiaro perché il dubbio mi perseguiti da
tutta una vita, ho già intuito qualcosa e quel qualcosa mi dà la
sensazione che sia reale.
Solo quello che proviene dal mio essere è reale,
tutto il resto è solo il desiderio di conquista.
Come ho fatto a non capire che tutto lo sforzo
fatto in tutti questi anni non è servito a nulla, che è tutto fumo
quello che ho sempre desiderato?.
Ho capito, finalmente, perché l’amore è l’unico
nome che si può dare al tutto, tutti i problemi che di solito
intrecciano la mia vita, non sono altro che una mancanza d’amore per
il tutto, per tutte le cose che esistono.
L’amore ho capito, è luce, e dato che è tale t’inonda,
ti rende gioioso.
E’ talmente forte la luce che emana l’essere in
amore, che tutto quello che ti circonda cambia aspetto.
Tutto diventa speciale, sublime.
E’ talmente forte la luce che emana che ti
abbaglia.
Ti abbaglia così intensamente che diventi cieco,
è così intensa che ci vedi solamente con il cuore.
Solo con il cuore ci può essere visione amorevole,
ed è per quello che nulla più ti preoccupa.
Tutti i problemi che prima mi affliggevano, ora
svaniscono, sono insignificanti.
La gioia che scaturisce l’amore, sfocia in una
fioritura che ha per fine la fragranza, la divinità.
Tutto questo però lo si capisce vivendolo,
assaporandolo.
Per scoprire tutte le sue sfumature, devi entrarci
con tutto l’essere, con tutta la forza che hai.
Quando tutto questo ti accade, arrivi a comprendere
che sei anche vulnerabile.
Sei talmente vulnerabile, che puoi essere ferito in
qualsiasi momento, perché ti esponi e nell’esporti ti apri, non hai
più la corazza che ti fa da scudo.
Questa è la paura che hanno le persone mediocri,
le persone che non sanno vivere totalmente.
Si nascondono dietro false ipocrisie.
Il vero innamorato si lascia trasportare dal flusso
di energia che lo ha invaso, che lo rende inerme.
Il vero innamorato non conosce la paura, perché è
cieco, è luce, amore.
Il vero innamorato, lascia alla persona che ama, il
sacrosanto diritto di realizzare i propri sogni, le proprie speranze,
senza intralciare o infrangere i suoi desideri.
Se manchi di rispetto, manchi d’amore.
Se la persona che ami, entra nel tuo silenzio,
distruggendolo e contaminandolo, non ti ama.
Se vuole il tuo possesso, infrange la legge dell’amore,
perché l’amore è libertà.
Ora ho capito che quando mi ero innamorato, mi ero
innamorato della sua bellezza, e lei era bella perché era libera.
E’ la libertà che dona la grazia e la bellezza
alla persona che ami.
Anche in natura, è la libertà che dona la
bellezza.
Guarda gli animali, sono belli se sono liberi.
La loro bellezza è scaturita dalla libertà,
perché è lei che t’incanta.
Se rinchiudi o metti in gabbia un qualsiasi
animale, lo uccidi.
Non lo uccidi fisicamente, lo uccidi come essere.
La forza scaturita da una rondine in volo, è la
vera bellezza.
Prova a rinchiuderla, sarà tua, è tua, ma l’avrai
uccisa dentro.
Guarda un cane alla catena, ti sembra contento?.
Se potesse parlare cosa ti direbbe?.
La libertà porta con se una bellezza unica, e l’unica
cosa che ti porta felicità, come puoi toglierla alla persona che
ami?.
Se l’amore non vi rende liberi, quello non è
vero amore, è solo un falso modo di viverlo.
Tutte le cose che non ti danno il senso di libertà
sono false, sbagliate.
Vivi libero e sarai sempre in amore.
L’amore vissuto in libertà, è l’unico metro
di misura che la natura conosce.
Ed ora che tutto questo esce chiaramente dal mio
cuore, non mi resta che trasmetterlo, diffonderlo. Solo trasmettendo
questo stesso sentimento mi torna centuplicato.
Solo donando può esistere uno scambio con l’esistenza
stessa.
Solo donando amore ricevo amore, il contrario non
è possibile.
L’amore genera amore.
Non guardo più cosa fanno e cosa dicono gli altri
nei miei confronti, solo il mio agire con semplicità, con passione,
con consapevolezza dona amore alle cose che faccio.
Mi sembra sempre più chiaro che qualsiasi cosa uno
faccia, se non lo fa con amore, con il cuore, non riceve altro che
amarezza e frustrazione.
Anche il semplice calpestare un fiore senza un
motivo valido, è un atto di non amore.
Certo questo non è tutto, ma è sicuramente la
strada da seguire, ed è l’unica via da percorrere.
Al ritorno dal topless bar, dove abbiamo
riaccompagnato le due ragazze, siamo ancora su di giri per la serata
trascorsa.
Guardo Antonio per un attimo per cercare qualche
segnale, qualche cosa che mi dia la sensazione di veridicità, visto
che sono ancora sospeso nei miei sogni, nelle mie fantasie peraltro
veritiere.
Chiedo se va tutto bene.
Mi risponde che è un po’ sotto sopra, che non
gli è chiara una cosa.
Da un po’ di tempo sente uno strano malessere al
torace e in confidenza, mi dice sconsolato, si sente una gran fitta
sopra la punta dello stomaco.
Lo ascolto con apprensione.
Mi rattrista il fatto di sentire Antonio lamentarsi
per la salute, io, che l’ho sempre esortato a trascorrere una vita
più sana, più regolare ed ora, visto che mi sta parlando in un modo
sconosciuto e peraltro di una cosa che può essere anche di vitale
importanza, sento di donargli tutto il mio affetto, tutta la mia
comprensione.
Ora sembra che il tempo si sia fermato o
accelerato, non posso capire qual è la sensazione che il mio corpo
sta provando, si mescolano dei tremolii a delle improvvise scariche di
adrenalina che paiono incendiare il corpo.
Arrivato a casa di Antonio, lo accompagno e lo
conforto, gli dico che probabilmente ha esagerato con il fumo e che l’indomani
mattina si sentirà molto meglio.
La mattina seguente, vado subito a casa di Antonio,
ne esce sua madre piangendo, capisco che è successo qualcosa, lei, mi
fa cenno di entrare.
Entro e mi accomodo in salotto, il solito salotto
dove tante volte ha annusato tutto quell’odore di erba, quel
salotto, che se potesse dire la sua, sicuramente contesterebbe ad
Antonio l’uso indiscriminato di esso.
Sua madre mi si avvicina con una tazza di tè, la
bevo, anche se non è quella la sostanza di cui ho bisogno.
Si siede a fianco e mi dice; " Antonio è
ricoverato al centro tumori dell’ospedale di Bologna".
Resto di sasso al sentire queste parole.
Nasce in me un profondo sgomento, a stento non si
tramuta in lacrime.
La madre di Antonio mi prende una mano e me la
stringe in modo umano, quel modo che ti riempie di calore, di
speranza, mi si stringe il cuore, non avrei mai immaginato che Antonio
si trovasse ora in questo stato.
La madre cerca di spiegarmi con parole dolci la
situazione, io, nervoso, cerco di nascondere la mia impazienza facendo
domande un po’ vaghe e senza grandi pretese.
E’ una commedia recitata ad arte quella che
stiamo tenendo io e la madre di Antonio, oramai è palpabile che i
nostri discorsi servono solamente da anestetico. Per tagliare corto
dico a sua madre che nel pomeriggio vado a trovarlo, lei, con un gesto
semplice di consenso sprofonda in un disperato pianto da madre, quei
pianti che ti tolgono anche il più piccolo appiglio che resta, forse
la speranza è la sola cosa che nel mio intimo fa ancora restare
fiducioso, così esco e m’incammino verso casa.
Dopo avere pranzato, svogliatamente, parto con l’auto
verso Bologna.
Strada facendo, mentre sto ascoltando alla radio
una canzone melodica, New-Age, mi appare come un lampo, il volto di
Josuè.
Quasi sbando andando a sfiorare il guardrail.
La figura di Josuè compare e scompare a seconda
degli eventi, viene in mente, forse il richiamo del vecchio è
scaturito dalla mia predisposizione o forse dalla disponibilità
meditativa, fatto sta che fino all’ospedale non appare più.
Nell’abitacolo aleggia una calma serenità,
sembra che ogni volta che appare, scaturisca un po’ d’amore nel
mio essere, mi riempie d’una fresca brezza.
Entro in ospedale senza chiedere indicazioni per
trovare il reparto, data la semplicità con cui posso girare in questo
labirinto di corridoi e stanze.
Trovo Antonio intento a guardare la tv, un po’
stanco e nervoso, lo saluto e lo abbraccio, lui, sorride
svogliatamente.
Ci sediamo nel letto.
Antonio, animatosi della mia presenza, assicura che
se lo immaginava, lo sentiva, che prima o poi doveva succedere
qualcosa.
Comincia ad assicurare che in tutta la vita non ha
ottenuto niente altro che tristezza e amarezza.
Lo seguo con apprensione, so di cosa sta parlando e
annuisco facendolo continuare.
Ripete continuamente che il suo sogno era di essere
una persona tranquilla, con uno scopo nella vita, ed ora che si trova
a pochi passi dalla morte, tutte queste cose gli rimbalzano in testa
come palline da ping-pong.
Lo ascolto senza commentare, senza interromperlo,
capisco il suo stato d’animo ma non riesco a formulare all’interno
della testa un motivo valido per incoraggiarlo, noto, però, la
presenza lo rasserena, gli da conforto.
Forse non è tutto, la mia semplicità, la
comprensione, allevia almeno in apparenza il suo stato d’animo,
stargli vicino lo rivitalizza e lo rende più allegro.
Ogni tanto ci raccontiamo quello che abbiamo
combinato assieme in passato, lo assecondo in ogni sua dichiarazione,
gli do, la possibilità di esternare tutti i dubbi, tutte le ansie, le
paure.
Raccapriccia il cuore sentire Antonio parlare in
questo modo, oltretutto al passato, sembra sia al corrente sia al
capolinea.
Ancora una volta la morte bussa alla porta, questa
volta tocca a quella di un carissimo amico, accetto con amore ciò che
l’esistenza riserva, anche questo mi rende più forte, si schiude un
nuovo spiraglio, costato che la vita riserva molte sorprese alcune
delle quali spiacevoli e prendo atto che tutto questo non è altro che
la vita stessa, ciò che è.
Noto con amarezza che i condannati a morire,
accettano a malapena il verdetto.
Nei loro occhi leggo chiaramente che hanno paura.
La luce che splendeva nel loro viso, ora si è tramutata in un più
cupo raggio ombroso.
Mi chiedo dov’è finito lo sguardo scintillante
delle persone che accettano senza rimorso, come mai la morte porta
tanto buio e così tanta tristezza dato che fa parte della vita
stessa, come mai le persone non accettano tutto questo senza paura, ma
solamente come un puro fatto naturale.
Tornato a concentrarmi su Antonio, noto che anche
il suo viso è tormentato da bagliori di tristezza. L’Antonio che
conoscevo fino al giorno prima è scomparso, la paura della morte ha
preso in ostaggio anche il suo carisma.
Il corpo ora dà segnali negativi.
Fintanto che Antonio resta muto, il pensiero corre
come un cavallo impazzito in una prateria estesa all’infinito, in
cerca di una verità, in cerca di un perché, la speranza, vedo, è l’unica
scappatoia. Comincio a pensare a come ci si può sentire negli ultimi
giorni di vita, provo ad immedesimarmi nella parte, ma evidentemente
lo sforzo non fa altro che confermare la solita schiacciante realtà,
che comunque uno si senta in quel momento, la morte resta l’unica
verità.
Antonio mi guarda come a chiedere delle
spiegazioni, si vede che lo sguardo gli comunica qualcosa, quel
qualcosa che vedevi negli occhi di tua madre quando eri piccolo,
quando cercavi il latte nel suo seno materno.
Dal mio cuore mando segnali criptati d’amore, di
compassione, questo è ciò che dono in questo momento.
Lui, ancora immobile come un ragazzo davanti alla
sua innamorata, fissa per scrutare al mio interno, sento che lo
sguardo entra ed esce dalla mia anima in cerca di un appiglio, ma
oramai anche lo spirito ha levato l’ancora, l’essenza è già in
partenza, tutto il suo corpo, sento, non fa che elemosinare pietà.
Capisco che staccarsi dal proprio corpo è dura, ed
Antonio conferma tutto questo in modo spontaneo, anche uno sciocco ora
l’avrebbe compreso, non so come arginare il mare di dolore che provo
guardandolo.
Mi viene spontaneo poggiargli una mano al cuore,
forse è l’unica cosa che dà serenità e ci fondiamo entrambi
formando un’unità, sembra di essere un’essenza, non esisto più
corporalmente e nemmeno il corpo di Antonio, siamo uniti da un centro,
da una consapevolezza.
Noto che anche Antonio è estatico, privo di paura
e tensione, tutto quello che ho notato e sentito fino a questo
momento, è sparito, spazzato via da un vento d’estasi, da una forza
che non conosce confini, che non conosce ostacoli.
Resto allibito.
Non c’è più corpo e mente, tutto questo è
sostituito da un cielo azzurro, da un silenzio che riconosco, certo è
il silenzio che nasce all’interno di noi, quello che da ragazzo
sentivo nascere quando andavo da solo nel bosco, quel silenzio che
tanto bramavo ritrovare.
"Ocra", dice Antonio ancora scioccato
dalla sensazione che fino a poco tempo prima ha provato. "Sei una
persona unica, fino a questo momento ho sempre pensato che tu fossi
strano, ma non avrei mai pensato che mi facessi provare tanta gioia.
Con il semplice tocco della tua mano, con la tua
semplice presenza".
Lo ascolto compiaciuto.
Neanch’io non mi sarei mai immaginato di dargli
così tanta serenità, forse Antonio non ha mai provato quel senso di
vuoto, un vuoto ricolmo di luce, gli rispondo che tutto quello che ha
appena provato, non è altro che una splendida esperienza.
Ancora in preda a spasmi di serenità, afferma che
ha voglia di chiarire alcune cose che sono rimaste in sospeso;
soprattutto della volta che siamo andati all’eremo e che ha tanto
parlato della innamorata.
Lo esorto a lasciare perdere, ma insiste, vuole
mettere a posto le cose incompiute si vede. L’assecondo pensando che
forse è meglio se ne parla, dopotutto, da come risulta il suo aspetto
fisico, sono pochi ancora i giorni che lo separa da una morte certa.
Così, con un po’ d’apprensione e un’aria
abbattuta, comincia a scusarsi per tutte le volte che ha esagerato nei
miei confronti, che la storia che ha raccontato su all’eremo, è una
invenzione, è un bluff. Io, inebetito ma divertito, ascolto senza
fare obiezione, sembra stia confessandosi per la prima volta, tale è
l’aria che si respira.
"Antonio".
Lo fermo per un attimo.
"Mi spieghi perché quella volta hai
bluffato con la storia?", gli sussurro piano per non disturbare
gli altri pazienti, visto che si è fatto tardi.
"Volevo provare a sentire come si stava da
innamorati e così ho inscenato tutto, tanto per vedere come ti
comportavi al riguardo".
"Hai tratto vantaggio da tutto questo?",
gli dico senza premura.
"Certo, ho capito com’eri tu, come prima
cosa, volevo sentire la tua opinione, tanto per spassarmela",
dice ridendo, con la sua solita risata da birichino che si trova ad
avere per natura.
"Visto che assecondavi, ho continuato la
commedia e ti giuro che non mi sono mai divertito tanto, ci credevi
talmente, che fermarmi rovinava tutto".
Lo ascolto divertito ed anche un po’ seccato.
Dentro di me, nasce una risata che esplode con
tutta la sua forza.
Devo tapparmi la bocca per non disturbare, mi
pianto l’angolo del lenzuolo fino in gola ed ancora ne esce un suono
cupo ma sonoro, guardo in giro e per fortuna scopro che i pazienti
sdraiati nei rispettivi letti, non sembrano ricevere alcun disturbo.
Dopo pochi attimi tolgo dalla bocca il posticcio
tappo di lenzuolo e mi riassesto.
Torno alla normalità, almeno esteriormente e dico
ad Antonio che devo rientrare per sera.
Lui, mi guarda disorientato e impaurito, non so
cosa fare, ma devo proprio andare.
" Ocra", sussurra ad un orecchio Antonio.
"Vorrei ti ricordassi di me".
Lo guardo a fondo, fino nel suo profondo.
I miei pensieri mandano parole dolci e serene, il
sangue sembra addensarsi sempre più.
"Certo che ricorderò di te, ma sembra
prematuro per darci un addio, non ti pare?",
dico un po’
freddamente per non dare l’impressione di essere in apprensione.
Si distende, noto.
Lo esorto a mettersi la mano al cuore e a stare
tranquillo, poi, con fare naturale e gioioso, lo stuzzico assicurando
che con la pellaccia che si ritrova può stare tranquillo.
"Tanto sei forte come l’erba cattiva",
ribatto ironicamente.
Prima di andare mi chiede un’altra cosa.
"Ocra, quello che ho sentito prima con te,
ricordi?, quella bellissima sensazione di calore, di luce.
Ha qualcosa a vedere con la nostra persona, oppure
è solamente una sensazione che ci proiettavamo a vicenda?".
Non so cosa rispondere, vorrei assicurargli che
quello che abbiamo provato è la realtà, il nostro spirito interno,
ma non ne sono convinto pure io.
So che la sensazione la ho già provata da bambino, ma
non so se anche lui ha capito il messaggio, così, per farlo
rasserenare, sostengo che è la nostra anima che si è fusa in un tutt’uno
con l’esistenza, con l’esistenza divina.
Dai suoi occhi, escono lacrime dalla gioia, si vede
dallo scintillio che emanano.
Sono contento di avere dato la risposta giusta, gli
stringo la mano con forza e lo saluto.
Passando per i rispettivi reparti, noto con
amarezza che sono stracolmi di degenti.
Il cuore sembra stretto da una morsa, tanto è
sconvolgente la realtà.
M’imbatto per caso nel reparto di chirurgia
infantile, i bambini ignari del loro destino, sembrano non accorgersi
del loro stato.
Dal loro sguardo esce un fluido allegro ma con un
pizzico di malinconia.
Solo guardando attentamente le loro madri si
capisce chi è più sofferente, nonostante tutto riescono a tenere
lontana l’angoscia e la paura.
Mi domando se qualche madre accetta con serenità
ciò che l’esistenza dona, anche questo fa parte della vita, mi
viene da pensare.
Allora come mai tanta sofferenza e ansia se poi
alla fine l’unica santa verità è che tutti dobbiamo morire?.
Non c’è farfalla o leone, non c’è povero o
ricco davanti all’unica verità.
Torno al paese e mi fermo un attimo dalla madre di
Antonio.
Le assicuro che Antonio è tranquillo e in pace,
lei, con sussulto, mi bacia sulla guancia e ringrazia per tutto quello
che ho fatto.
Resto immobile e contento.
Fa piacere avere sollevato anche se pur in maniera
leggera, lo stato d’animo della madre, così la saluto e m’incammino
alla macchina e torno a casa.
Dopo tre giorni, Antonio perde il corpo.
Dà fastidio solamente sapere la madre disperata,
non è che a me faccia piacere, però, sapere che Antonio ha condiviso
la propria vita con me, mi fa sentire in pace, non dico sereno, ma
allevia il dolore.
Al funerale, che si è compiuto con il solito rito
funebre, non ci vado.
Preferisco ricordarlo in partenza per un viaggio di
piacere, questa è la sensazione che provo.
I pensieri formulano un posto in cui Antonio non
deve fare altro che danzare e divertirsi, mangiare e dormire, amare e
dispensare allegria, cantare e suonare.
Un paradiso dei sensi, un giardino sempre in fiore,
con profumi esotici, con profumo di pino e muschio selvatico, con
tutti i colori dell’arcobaleno, con fiumi d’acqua spumeggianti,
con una leggera brezza che fa arruffare i capelli, con tutti i tipi d’animali,
da quello più piccolo e gracile, a quello più robusto e forte, da un
cielo azzurro che più azzurro non si può, e in fine, da un buio che
più buio non si può, che solo la luna riesce a farsi notare e di
tutte le cose che abbiamo in dono, se solo ci accorgiamo, qualche
volta.
Oggi, per ricordarlo con più ardore e sentimento,
faccio la solita passeggiata con il cane su all’eremo, nel posto in
cui quella volta raccontò la storia della tipa, la storia fasulla.
Al pensiero mi viene da ridere e rido.
Rido così di gusto che se qualcuno in questo
momento mi vedesse, sicuramente penserebbe che sono tutto matto.
Ridere, è così liberatorio che è una preghiera,
sono in pace, sereno, anche il cane ne è contagiato, abbaia senza
motivo, è il suo modo di ridere.
La luce, che entra negli occhi, frastorna tutti i
sensi, l’olfatto capta ogni piccolo profumo, l’udito ogni più
piccolo suono, cinguettio.
I colombi che aleggiano in aria, formano delle
figure, danzano spensierati, le piante si lasciano andare ad una ola
naturale, semplicemente vanno a destra e a sinistra per come il vento
le spinge, anche le foglie secche si perdono in vortici di allegria e
formano nuvole di coriandoli.
All’improvviso, senza rendermene conto, sento il
bongo di Josuè.
Fa straripare dall’emozione il bisogno di
vederlo, è da tempo che non lo sento.
Ora lo percepisco.
Entra squassandomi il cuore, tutto l’essere ne è
stregato, in preda ad un rapimento.
Mi avvicino al punto dal quale è scandito il
battito, è il solito posto dentro alla grotta, lui, José, guarda
sorridente il mio arrivo, anche a lui fa piacere rivedermi, me lo
assicura la disponibilità.
Mi avvicino e lo saluto, quasi svengo dall’emozione,
sorride e fa segno di sedere vicino.
"Ocram, amico mio".
Esordisce in modo spontaneo e allegro.
"Da quanto non ci vediamo.
Dove sei stato in tutto questo tempo?", dice
con un pizzico di spiritosaggine.
Resto ad osservarlo ancora un attimo prima di
aprire bocca, sembra un sogno quello che sto provando.
"Dove sei stato tu", gli dico anch’io
sorridente.
"Mi sembra di averti già ricordato che sono
sempre qui. Sei tu che non mi vedi", dice sempre con il suo modo
spiritoso e provocatorio.
Turba un pochino il fatto di non comprendere come
mai Josuè lo veda solamente rare volte e che si ostini ad assicurarmi
che è sempre presente, che solo io, non lo veda sempre, comunque,
sono contento lo stesso, averlo vicino rasserena.
Josuè, porta sempre felicità e spensieratezza,
saperlo vicino, presente, fa scaturire sensazioni uniche, quasi
magiche.
Mi domando come mai lo riveda il giorno del
funerale del mio migliore amico, forse è il destino, oppure come ho
già sperimentato, la sua presenza è scaturita dal mio stato d’animo.
Josuè, chiede come mai mi trovo all’eremo un
giorno qualsiasi della settimana e non alla solita passeggiata
domenicale.
Lo informo subito della morte del mio amico, e che
preferisco restare per conto mio in disparte, non m’interessa andare
al solito rito funebre come tanti. Ho la sensazione che la presenza
dei partecipanti, non sia altro, la logica conseguenza di un
meccanismo, un meccanismo dal quale se non ne fai parte, non sei
normale.
Josuè mi guarda con occhi scintillanti, noto con
stupore che quello che ho appena detto in qualche modo ha in lui un
interesse particolare, a questo punto, chiede se ho paura della morte.
Lo ascolto con osservazione, m’interessa sapere
cosa ne pensa lui e con modo serio ma spontaneo, lo esorto a darmi
spiegazioni.
Si mette a ridere.
Ride per quasi cinque minuti, non capisco il motivo
ma la risata contagia anche me, così ci mettiamo a ridere tutti e due
come bambini.
Lo esorto a spiegare il motivo della domanda e a
darmi delucidazioni.
Lui, si riassesta e riprende la normale posa, si
vede che normalmente sta seduto in posizione da Buddha.
Comincia a parlare di essa e mi chiede di essere
aperto e ricettivo, di non fare commenti e di trarre conclusioni
affrettate.
"La morte", dice Josuè con semplicità e
serenità.
"E’ la conclusione della vita del corpo.
Non è altro che una tappa nel mondo materiale.
La gente ne ha paura perché non sa cosa sia.
Ne ha paura perché le stesse religioni né danno
un senso sbagliato, hanno contorto la sua vera venuta, e la gente,
cieca e sorda, non vede che paura e sofferenza in essa, non si
accorge". Dice Josuè in modo quieto.
" Fa parte della vita stessa, non si rendono
conto che fanno tutto in funzione della morte, la paura della stessa
condiziona in modo sbagliato le loro scelte".
Guardo Josuè con occhi ammirevoli e attenti.
Quell’udito, si convoglia come per incanto nel
centro del mio cuore, le parole sono trasportate da un fluido dolce,
da un venticello di primavera, poi, Josuè ricomincia a parlare.
"La morte è come l’onda, l’oceano è la
vita.
La vastità del cielo è la vita, il temporale, la
morte".
"La gente", dice.
"Non è consapevole del loro modo d’identificarsi,
si identificano con le cose materiali, pensano di essere ciò che
hanno, e non ciò che sono, la paura della morte, nasce dentro di loro
perché non sanno di essere consapevolezza, pura consapevolezza.
La paura, della morte, nasce dalla loro avidità,
dalla loro voglia di avere a tutti i costi, a costo del proprio corpo,
della propria anima.
Certo, perché non sono consapevoli che la
ricchezza esteriore non è altro che futile, è futile quando si
rendono conto che tutto quello che è in loro possesso, un domani,
alla venuta della stessa, "Morte", non sarà più loro, non
potranno portare con loro niente di tutto quello che hanno ricevuto
per dono della natura".
"Quando si nasce", dice Josuè con fare a
modo.
"Si entra nella vita con nulla.
Nulla di tutto quello che trovi quando nasci lo
porti con te alla morte.
Con mani nude entri e con mani nude esci, te ne
vai. Questo dovrebbe fare capire alla gente che avere sempre la
bramosia di ottenere, di avere, non è altro che un modo per sfuggire
alla propria consapevolezza.
La gente, ne ha paura perché in tutta la loro
vita, non hanno fatto altro che arricchirsi e a bearsi di cose
materiali, ma non si rendono conto che per ottenere tutto questo,
hanno sacrificato la propria esistenza. L’avidità è entrata nel
loro corpo come una scure e soffiano sul fuoco della stessa, senza
rendersi conto che porta inevitabilmente alla gelosia, alla
sofferenza, perché chiunque sia afflitto da ansia di bramosia,
inevitabilmente non sarà circondato nient’altro che da odio e
paura.
Se seppellisci un morto e vicino ad esso ci metti
una manciata di denaro", dice Josuè.
"Noterai un giorno che non sono altro che cose
materiali, tutte e due diventano polvere.
La polvere genera polvere e l’avidità genera
avidità. Come può una persona avida essere in pace, essere serena
con il proprio corpo, l’avidità, crea l’ansia della competizione
e la competizione crea l’insofferenza, l’insofferenza di non
riuscire ad essere come gli altri, come il tuo amico, il tuo vicino di
casa.
Se ti senti insofferente perché vedi che non
riesci ad ottenere quello che vuoi, cominci a diventare distruttivo,
cominci ad essere intollerante nei confronti degli altri.
Se non puoi ottenere, almeno puoi non fare ottenere
agli altri, in te si crea una gelosia talmente grande che si tramuta
in non amore.
La gelosia è amica del desiderio e il desiderio di
avere, di possedere, crea in te la sofferenza.
Un giorno, qualcuno che raggiungerà la
consapevolezza, entrerà in sintonia con il proprio essere e allora
dentro di lui, nascerà la vera felicità. Allora si renderà conto
che dall’esterno del suo stesso essere, non è possibile cercare
tale felicità, ma capirà che la vera felicità non può essere
conseguita dalla bellezza delle cose esteriori, non può trarne nessun
vantaggio perché comunque uno abbia raggiunto tanti agi, non ne è
trasformato".
Chiedo a Josuè come mai nessuno fino ad oggi non
ne ha mai parlato, come mai le persone competenti, religiose, non
diffondono queste bellissime parole.
Lui, mi osserva con amore, si mette a ridere.
Adesso è lui che ride a crepapelle, ride così
forte che la risata provoca l’eco nella valle, è una risata che
nasce da dentro, si sente, fa cenno di lasciare perdere.
"Forse te lo dico un’altra volta", dice
sogghignando.
Torna sul discorso ammonendomi di averlo
interrotto.
"Perciò, Ocram caro, dobbiamo vivere la
nostra vita in modo da conseguire alla meta, cioè alla nostra
realizzazione, alla conoscenza della nostra consapevolezza, solo
questo è reale e vero, il resto è materiale futile".
"Con questo", afferma Josuè con voce
più amorevole.
"Non voglio sostenere che avere gli agi
necessari per vivere non sia importante, però, se la gente comincia a
capire che la vita non è solo questo, ma parte anche di questo,
allora in loro nasce anche la felicità interiore, e da questa
felicità scaturisce come per incanto un istinto amorevole per tutte
le cose e per tutta la gente, non ci saranno più violenze e guerre,
distruzioni e malvagità, a questo punto anche la morte sarà una
certezza che si può ricevere e vivere in modo allegro, questo solo la
consapevolezza del proprio sé, te lo può donare".
Resto esterrefatto dalle parole fuoriuscite dalla
bocca di Josuè.
Il corpo sprizza gioia da tutti i pori.
L’aver sentito Josuè parlare in quel modo così
profondo e allo stesso tempo semplice, mi fa rabbrividire di felicità, non
ho mai sentito nessuno esprimere tale argomento con tanta energia.
Guardo Josuè allontanarsi.
I pensieri che formula la mente rotolano come
macigni schiantandosi nella consapevolezza, ora è chiaro che tutto
quello che ho udito è anche dentro di me, tutto è familiare.
Al ritorno, Josuè., ha una mano ricolma di terra,
mi indica con un cenno di osservarla, la osservo divertito e attento.
"Vedi questa terra", dice Josuè
sorridente.
"Questa è terra, polvere, noi siamo tutto
ciò.
Tutto quello che vedi tutt’intorno fa parte di
noi e noi di essa, siamo in simbiosi con il tutto.
Quello che c’è all’infuori di noi, c’è
anche dentro di noi", dice guardandomi fisso, forse per scrutare
nei miei occhi se c’è attenzione.
L’osservo sempre con un po’ d’apprensione, ma
non è data dalla paura, bensì dal mio stato febbrile, una febbre di
meraviglia.
"Vedi", dice.
"Guardiamo e vediamo le cose attraverso gli
occhi, siamo identificati con quel modo solamente perché siamo
consapevoli solo di quello.
Se tutti noi fossimo un po’ più attenti,
noteremo che anche guardando all’interno del nostro essere le cose
sono uguali, sono esattamente come le vediamo esteriormente"
"E’ per quello", dice Josuè.
"Che voi vi sentite sempre ansiosi e privi di
felicità. Non riuscite a comprendere che tutto quello che vedete non
è altro che il tesoro che avete all’interno del vostro stesso
essere.
Non vi rendete conto che la bellezza, le cose che
voi date per belle all’esterno, non sono altro che voi stessi.
Tutto quello che esiste, che è vivo è tale anche
all’interno del vostro essere".
E’ bello che le parole di Josuè entrino fino
giù, nel profondo, lasciandomi sulla lingua un sapore dolce, quasi
mieloso.
Come se un raggio di sole penetrasse il buio di una
cantina e desse per la prima volta la luce all’unica ragnatela
ignara del suo splendore.
Come posso sentirmi se non un fascio di luce
ricoperto dai colori dell’arcobaleno in cui il suo unico scopo non
fosse altro che il raggiungimento della vastità di un oceano di pace
e amore.
Guardo ancora meravigliato Josuè.
Lui, seduto in posizione del loto resta
impassibile. Gli chiedo come mai lo veda rare e sporadiche volte.
Mi ripete che sono io il problema, cioè, sono io
che non riesco a vederlo sempre chiaramente.
Saperlo presente solamente in qualche frangente
della mia vita, mi tortura un angolo remoto del pensiero.
E’ come se in un cesto di mele, ce ne fosse una
diversa, più bella, più colorata, ma allo stesso tempo intoccabile,
sfuggevole.
"Cosa pensi di fare? ", dice Josuè.
" Ora che il tuo amico se né andato? ".
"Ancora non lo so", rispondo
semplicemente.
"Non mi par vero che Antonio se ne sia andato
così velocemente".
Mi accorgo quasi subito di non aver più pensato a
lui.
E’ strano che mi sia semplicemente lasciato
andare senza pensarlo più, comunque piacevole di sentirmi leggero e
frizzante.
Sono vicino Josuè.
E’ di un piacere unico, stare qui anche solamente
per poche ore, riempie di felicità.
La sua presenza mi rende schiavo di allegria, è
come se sentissi di essere libero dal tutto.
E’ così tranquillo, privo di sforzo, la quiete
che né ricavo è profonda quanto un abisso, solo il pensiero di
tornare giù, mi rende un po’ triste, questo però scompare nell’incontro
con lo sguardo di Josuè, dà fiducia, dà serenità, ora è lui che m’invita
ad andare, se né accorto dai movimenti ritornati rigidi, il corpo lo
comunica si vede.
Saluto Josuè, il vecchio.
Lui, sempre impassibile mi guarda fugacemente quasi
a confondermi, so per certo che non lo fa apposta, è il suo modo.
Nel ritornare giù, ancora il bongo sento
rimbalzare nelle pareti rocciose, anche le piante vanno a ritmo, il
dolce fruscio ne risalta la sonata.
Il cane rimasto impassibile per tutto il tempo, ora
è euforico, anche lui sembra sgranchire la sua felicità, saltella
davanti a destra e a sinistra, è lampante.
Arrivo giù in paese e noto la gente ritornare dal
cimitero irrigidita e priva di parola.
E’ brutto ammettere tale negatività, io, pieno
di entusiasmo sono l’unico anormale, quello fuori dell’ordinario.
Mi chiedo se sia meglio esserlo o no.
Nasce in me un profondo sentimento d’amore per
tutti quelli che sono rattristati dal fatto.
Scorgo in loro un senso di vuoto, di nullità di
fronte al potere della morte, sempre e solo lei, ed io, che all’infuori
da tutti i soliti schemi sono in pace e sereno.
Per strada solo saluti formali.
Niente fa pensare a qualcosa di diverso da un
funerale, i soliti fiori lasciati davanti alla chiesa.
Qua e là, alcuni gruppetti di donne anziane che
per l’occasione si raccontano fatti e misfatti del giorno, quasi a
spettegolare per passione, per maestria.
I bambini, anche loro torturati dall’evento, si
dimostrano più veritieri, scherzano, però con una specie di freno
inibitore, quasi fosse sbagliato, da non fare.
Penso a tutti loro, a tutte le loro regole e mi
rendo conto di essere solo nella mia disobbedienza.
A casa, do da mangiare al cane e rientro per
preparare la tavola.
Mio fratello, noto, ancora non è tornato dal
lavoro e così ascolto la radio ad alto volume.
I pensieri tornano a pochi mesi prima, quando, io e
Antonio, ci divertivamo a fare casino, a passare serate all’insegna
della trasgressione.
Tutto passa davanti come la velocità di un aereo,
la musica è il carburante di tale velocità.
E’ ancora più vivo di prima il ricordo, dato che
ora sono a casa nella mia solitudine a pensare e a ripensare.
Dopo la morte di Antonio, la mia vita, l’esperienza,
mi rende più vivo.
Passo le giornate a studiare e a passeggiare con il
fido cane "Maciste".
Così si chiama il pastore regalatomi da un
conoscente, regalatomi in extremis, dato che la figlia lo voleva per
se, ma fortunatamente destinato si vede portarmelo a casa.
"Maciste ", il nome dato dalla figlia del
proprietario, nome di battesimo che ho dovuto fermamente assegnarli
tale era l’insistenza della ragazza per cederlo.
La figlia aveva voluto darmi il cane solamente se
mantenevo il nome.
Era fermamente convinta che il cane più grande
della cucciolata, il capo branco per intenderci, doveva portare un
nome degno di prestigio, e non mi era sembrato il caso di discutere
data l’insistenza.
Maciste, un pastore dal pelo folto e lungo, un po’
grande e giocherellone, cattivo solamente con i suoi simili, dalla
troppa gelosia, dalla paura di non essere l’unico e il solo ad
essere coccolato.
Un giorno diventato quasi omicida per amore del
padrone.
Omicida di un cucciolo indifeso e peraltro solo,
portato a casa dopo averlo trovato per strada abbandonato.
Un cucciolo paffutello, nato da un incrocio tra un
San Bernardo e un terranova, già grande ma indifeso.
Certo, anche un cane adulto ne avrebbe avuta
davanti a Maciste, visto che normalmente i cani per lui non sono altro
che simili a gatti, tutti da abbattere.
Ogni tanto trovo la madre di Antonio per strada.
I discorsi che volteggiano nell’aria sono sempre
inevitabilmente i soliti.
Le lacrime che perturbano le guance rossastre della
madre sembrano uscite da una fabbrica di oggetti falsi, tanto sono
inutili.
Hanno la stessa forza espressiva dei fiori di
plastica. Questo non fa che rattristarmi.
Per me, è sempre la verità il sentiero dominante,
quello da percorrere.
Dà fastidio notare la gente, in questo caso la
madre di Antonio, falsare i modi di fare per fare posto a innaturali
emozioni, per farsi compiacere e notare.
Questa è l’impressione che la madre di Antonio
mi ha dato.
Avevo l’impressione che a lei del figlio non
interessasse poi tanto prima di morire, dato che fino il giorno della
malattia, del figlio drogato non gliene fregava proprio un bel niente.
Dopo un paio di mesi a districarmi tra libri e
studio, nasce un’idea che nel volgere di poco tempo si materializza.
L’idea nasce da una curiosità interiore, nasce
una voglia assoluta di sapere, di conoscere.
Quello che mi sembra essere di massima importanza
in questo periodo per la crescita interiore, è di andare a scoprire
le varie metodologie religiose, la loro psicologia.
Andare a scoprire se da queste si può trovare
beneficio, sapere se l’intimo mio può esserne trasformato o se
quelle che secondo me sono solo propaganda di comodo non sono altro
che utopie.
Mi metto a studiare l’Induismo, a conoscerne la
disciplina, i riti.
Leggo e approfondisco il Chassidismo, la via della
grazia, forse la più vicina alla verità assoluta.
Leggo e m’informo del Giainismo, una delle più
antiche religioni.
Approfondisco il Buddismo, la religione Cristiana,
quella Maomettana, Mussulmana, tutto questo però mi da un’unica
verità.
In ogni caso uno sia, più o meno religioso, non ne
è trasformato.
Le varie religioni non danno la sensazione di
sviluppare la persona nella sua potenziale spiritualità, dunque se
una religione non trasforma l’individuo rendendolo cosciente della
propria spiritualità, non è vera religione, è solo un surrogato.
Così, dato che ho un amico che si è appena
insediato in un monastero di frati, e secondo la mia opinione è la
strada da percorrere, comincio proprio dal piccolo monastero situato
in cima ad una collina.
La prima volta che vado a trovare il mio amico,
resto stupito della strada che devo percorrere a piedi per raggiungere
il posto.
Non capisco come mai hanno scelto per le loro
funzioni, un santuario dislocato a circa un’ora dal primo paese e
che per giunta gli ultimi tre chilometri si debbano percorrere a
piedi.
Neanche fosse necessario nascondere le proprie
necessità.
Arrivo in cima ad una collina cosparsa di oliveti e
radure.
La prima cosa che mi stupisce è vedere i frati
intenti a correre come disperati per la partitella quotidiana di
calcio.
L’allegria che trasmette tale partita si nota
dalle facce sorridenti e dal modo d’interpretarla.
Si vede benissimo che non è solamente una semplice
partita di calcio, ma è bensì uno sfogo fisico, quasi a bilanciare
le ore passate a pregare e a fare le proprie mansioni.
Nel loro modo di giocare, di comunicare, si nota
semplicemente che hanno un bisogno tremendo di allegria, di
divertimento.
Sembrano ragazzini indisciplinati alla prima sagra
paesana, c’è chi sfotte l’amico, " In modo cortese,
naturalmente", chi l’avversario di turno.
I loro sfottò sono prevalentemente causati dalla
diversità calcistica.
C’è chi tifa per una squadra, chi per un’altra,
chi pensa di passare la palla come Maradona e chi come Pelè e così
via.
Al finire della partita, fischiata da frate
Nicolò, un tipo grasso con la barba folta e dai lineamenti
chiaramente tedeschi, i giovani frati s’incamminano verso le
rispettive stanze.
Guardo se vedo il mio amico, ma non è in quel
gruppetto.
Mi avvicino a frate Nicolò e gli chiedo dove posso
trovare fra Alberto, il mio amico.
Sostiene che è in camera a studiare.
Resto perplesso dal modo in cui lo dice, pare
divertito di tale risposta.
Così m’incammino verso il santuario.
Arrivo all’entrata del santuario e trovo ad
aspettarmi il frate più anziano, quello che porta avanti il tutto,
penso.
Chiedo gentilmente dove posso trovare frate
Alberto, lui, cortesemente mi ci accompagna.
Arrivati davanti alla porta, mi saluta con un
inchino e se ne va’.
Busso alla porta e pochi secondi dopo sono già
dentro.
La camera spoglia è semplice, il mio amico la
divide con un altro frate, un certo Luigi, molto più anziano di lui e
messogli appositamente per insegnare le varie mansioni.
Abbraccio il mio amico Alberto con foga, lui, un po’
sconvolto dalla visita resta fermo e ammutolito, non sembra essere
contento di tale visita.
Rompo il silenzio con una battuta.
Gli assicuro che alla partita mancava il bomber,
quello vero, lui, ammicca un sorriso poi esplode in una risata
liberatoria, sonora.
"Così mi piaci", dico.
"Questo è Alberto che conosco e ricordo con
piacere".
Dopo aver parlato delle solite formalità, Alberto
chiede il motivo della visita incuriosito.
Spiego a grandi linee qual é, a lui però non
interessa molto, si vede dall’espressione che il viso ora comunica.
Trascorrono pochi minuti fintanto che Alberto
rimette a posto i libri, poi, decidono di comune accordo di uscire a
prendere una boccata d’aria fresca.
La giornata, splendida per la solarità, richiama
con diritto la presenza di persone in grado di accertare con
meraviglia tutta la sua forza trascinante.
Ci dirigiamo quasi senza accorgerci in un luogo
appartato, poco distante dal santuario.
Nel tragitto, Alberto, parla delle aspettative,
dice con calore che da quando si è trasferito in questo posto, la sua
vita è cambiata, si sente più tranquillo e sereno.
Arriviamo vicino ad un pozzo dal quale gli è tolta
l’acqua per irrigare i campi da coltivare, ci sediamo su una panca
di legno, costruita da loro con tavole di ciliegio e decorata con
disegni raffiguranti alcuni passi della Bibbia.
Resto un attimo in silenzio a gustare il canto
degli uccelli.
L’aria che soffia contribuisce a rendere tale
canto più sonoro.
Gli olivi sparpagliati tutt’intorno, danno anche
loro un contributo, fischiando leggermente, il tutto condito da una
pace interiore che esplode rendendomi ancora più pacifico.
La prima cosa che Alberto mi chiede è il motivo
della visita, lo guardo negli occhi per accertare la disponibilità.
Annuncio che voglio vedere personalmente la vita
che si trascorre in un santuario, in un posto così detto religioso.
Alberto indispettito ma divertito, sostiene che non
c’è niente di cui preoccuparsi.
La vita che è trascorsa all’interno dello stesso
è semplice e serena, tutti hanno una loro mansione.
C’è chi si prende cura dei campi, chi della
cucina, chi delle cose religiose e cosi via, un po’ come la vita di
caserma.
Parla apertamente.
E’ raggiante e contento di spiegare con cura i
vari modi e metodi per stare in quel luogo.
Chiedo a bruciapelo se è contento di essere qui,
in questo posto isolato, a pregare e a fare questa vita privandosi di
cose e di libertà per l’equilibrio dell’uomo.
Ci pensa un attimo e mi assicura che la scelta che
ha da poco effettuato è la sua vera via, la vera realizzazione,
insomma si sente in pace e contento di tale scelta.
"Allora", dice Alberto.
"Che ne pensi del posto, ti piace?".
Mi metto a ridere.
Non è una risata che contagia Alberto, è solo
mia, lui, impassibile, aspetta la risposta.
"Certo che mi piace", dico.
"E allora cosa c’è tanto da ridere?",
dice Alberto a modo.
"Rido perché la tua domanda sembra essere
fatta apposta per ricevere una risposta piacevole".
Mi osserva quasi impaurito.
Forse aver detto tanto lo mette un po’ in
apprensione, gli faccio notare che il posto è splendido,
meraviglioso.
L’unico neo sembrano essere i tre chilometri che
si devono percorrere a piedi per arrivarci, ma considerato l’aspetto
ecologico, noto, ha le sue buone ragioni per essere così fuori
portata.
"Quello che m’interessa personalmente è
sapere come vivete la vostra vicinanza alla religione, qual è il
vostro approccio ad essa, gli dico.
E lui.
"Viviamo in povertà e in modo semplice.
Tutto quello che vedi è frutto delle nostre azioni
e dei nostri sacrifici, abbiamo i nostri doveri religiosi e
lavorativi, come ti ho già detto prima", dice fra Alberto.
"Ma con che criterio vi avvicinate alla
religione e a Dio, se non sono troppo invadente", gli dico
curioso della risposta.
"Niente di particolare, lavoriamo tutto il
giorno e per quanto riguarda il rivolgersi al signore abbiamo delle
ore appositamente create per la preghiera e per le mansioni religiose.
Per esempio in una giornata normale, feriale, noi
dobbiamo adempiere a due sante messe e ad un incontro libero di
preghiera", dice fra Alberto divertito e spensierato.
Lo guardo e ascolto intensamente.
Le parole escono fluide e facili.
Saperlo dentro ad un santuario mi riesce difficile,
lui, che a casa era tutt’altro, un tipo estroverso e pieno di
iniziativa, non risulta abbia avuto problemi in famiglia o d’altro
tipo.
La riflessione apre così un altro interrogativo.
"Posso farti una domanda personale, se non ti
turba", gli dico amorevolmente.
Lui, senza esitare fa cenno di proseguire.
"Pensi di trovarti meglio qui dentro,
rinchiuso per tutta la vita a pregare e a lavorare, senza per esempio
costruirti una famiglia o essere libero di fare ciò che vuoi, o più
semplicemente ti sembra la soluzione per il resto della vita,
rintanarti qui dentro perché pensi la cosa più giusta da fare per il
tuo bene?", dico forse un po’ troppo energicamente, visto anche
il viso tirato che ha Alberto ora.
"La tua domanda non è solamente una freccia
che trapassa, è anche una valida avversaria alla mia risposta",
dice Alberto più distaccato.
"Se sono qui è perché l’anima mi ha
indicato la strada giusta da percorrere, e penso che continuerò fino
alla morte".
Sentito ciò, nasce un dubbio.
Come può essere certo di restare in tale posto, se
in qualsiasi momento può cambiare idea?.
Certo, ora che è qui da poco tempo capisco che
può anche esserne felice, e questo lo conferma chiaramente il viso,
lo si percepisce, ma domani sarà lo stesso frate raggiante e felice
che ho visto il giorno prima?.
Come può pensare di restare in questo posto per
tutta una vita?, non avendo più nessun dubbio della felicità e della
sua vita?.
"Non ti sembra", gli dico incuriosito.
"Che privarti di cose naturali per la propria
serenità psico fisica e mentale, sia nocivo al fine del corpo
stesso?".
Mi guarda più perplesso di prima.
Il suo sorriso lascia posto ad una smorfia, è
tirato come la corda di violino.
"Come ti ho detto prima, sto benissimo e sono
in pace, cosa vuoi che ti dica di più, qui mi sento armonioso",
risponde.
Io, continuo a massacrarlo per tirare fuori tutto
quello che par logico.
"Voglio assicurarti che sembra strano che una
persona si reprima fisicamente e mentalmente per voto al Signore, alla
propria religione e questo, per come dite voi, per amore".
Alberto con modo gentile e calmo, spiega che non
reprime un bel niente, che la scelta non è altro che frutto della
disponibilità al Signore.
Secondo lui, è stato chiamato al voto di
obbedienza, di povertà e di castità dal Signore stesso.
L’anima lo ha esortato a percorrere tale sentiero
e ha accondisceso alla chiamata.
Non riesce a capire quale sia tutta questa
repressione che gli sto a dire, non è repressione quella che lui e i
suoi confratelli fanno religiosamente, ma semplicemente un voto alla
religiosità stessa, per amore al Signore sono felici e disponibili ad
accettare tutto questo senza nessuna repressione.
"Tutto qui", dice Alberto.
Chiamato in causa per le cosiddette ragioni e per
curiosità, affondo e ribatto che secondo il mio modo di vedere sono
assolutamente innaturali, che la condizione di vita lo fa notare
chiaramente.
"Non potete", gli obietto ad Alberto.
"Reprimere l’istinto.
Come potete reprimere la vostra stessa fonte di
vita?.
L’atto scaturito dall’amore vi ha donato la
vita e voi non fate altro che reprimere tale.
Come fai a non renderti conto che è una cosa
innaturale?.
Anche la vostra dissociale condizione di vita, il
vostro stare in disparte è innaturale", esclamo in preda ad una
fiamma lanciata dalla verità, la verità assoluta.
Detto questo, noto fra Alberto rinchiudersi in se
stesso.
Le parole scagliate addosso sembrano aver trafitto
la sua debole verità.
"Non mi dire", chiedo cautamente.
"Che tu non hai mai un sentimento d’amore
verso l’altro sesso, che tutto il giorno non pensi ad altro che a
pregare e a lavorare".
Mi guarda impaurito.
E’ fermo come uno che ha appena preso uno
schiaffo.
Il suo stare zitto e fermo lo conferma, glielo
leggo negli occhi, nel suo osservarmi.
Per rompere la discussione, mormoro a fra Alberto
che è ora di andare, lui, spontaneamente, mi chiede di restare
ancora, m’invita a pranzare con loro nella mensa comune.
Ascolto con piacere la benevola richiesta.
Si percepisce che nell’intimo, è l’amore che
sta parlando, Alberto sicuro delle parole, lascia spazio ad una nuova
sensazione d’amore.
Per non rattristarlo ancora di più, acconsento
alla richiesta e ci dirigiamo verso la mensa.
continua...
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