Eccidio delle
FOSSE ARDEATINE
ATTENTATO DI VIA RASELLA
Dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre '43, stipulato fra l’Italia e le Potenze Alleate, l’esercito tedesco occupa militarmente l’Italia settentrionale e centrale. L’occupazione tedesca nella capitale, malgrado la posizione di città aperta di questa fin dai primi giorni, si manifesta con un rigore più accentuato che altrove, forse perché si sapeva che in essa si trovava la maggior parte delle persone che avevano tenuto la direzione dello Stato dopo il 25 luglio.
Ai tedeschi era noto che, dopo la caduta di Mussolini, si erano raccolti a Roma molti esponenti di partiti antifascisti i quali avevano iniziato un intenso lavoro di riorganizzazione politica ed una fattiva opera di sganciamento dell’Italia con l’alleanza con i tedeschi.
La caccia agli uomini a Roma era abile, continua e spietata. La polizia militare tedesca, sotto la direzione di Herb Kappler, che in quel tempo rivestiva il grado di maggiore, lavorava intensamente per eliminare quanti erano contrari ai tedeschi o si dubitava che lo fossero.
L’attività di polizia allargava la sua sfera fino a procurare uomini che lavorassero per i tedeschi in Italia o in Germania. E poiché l’arruolamento volontario dei lavoratori era quasi insignificante la polizia effettuava, per le vie di Roma e nei locali pubblici, rastrellamenti di persone idonee al lavoro. Una categoria di persone, che fin dai primi giorni era presa particolarmente di mira da parte della polizia tedesca era data dagli ebrei, contro i quali vigeva in Germania un inumano sistema legislativo.
Anche nella città eterna agivano elementi partigiani che compivano azioni di sabotaggio ed attentati contro autocolonne o comandi militari, allo scopo di richiamare il nemico all’osservanza della posizione di città aperta della capitale.
II 23 marzo '44 alle ore 15 circa in Via Rasella all’altezza del palazzo Tittoni, mentre passa la 2° compagnia del III° battaglione del Reggimento di polizia "Bozen", che da giorni era solita percorrere quella strada, scoppia un carretto delle immondizie imbottito con 12 kili di tritolo. Subito dopo lo scoppio alcuni giovani, che sostavano all’angolo di Via Boccaccio, lanciano delle bombe a mano contro il resto della compagnia e, quindi, si ritirano verso Via dei Giardini, allontanandosi immediatamente dalla zona. Sulla strada rimangono 32 morti tra i tedeschi, 68 feriti (uno decederà in giornata) e due cadaveri di passanti.
La squadra GAPpista che compie l'attentato è comandata da Carlo Salinari.
Alle ore 14 del detto giorno il partigiano Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, percorreva Via Rasella spingendo una carretta carica di 12 chilogrammi di esplosivo ed attorno a questa altri sei chilogrammi di esplosivo. Giunto a metà circa della strada, all’altezza del palazzo Tittoni, il Bentivegna si fermava, in attesa che giungesse la compagnia tedesca, che soleva passare per quella strada alle ore 14,30 circa.
Un po’ in giù del posto in cui era stata fermata la carretta, all’angolo di Via Boccaccio, si trovavano altri partigiani compagni di squadra di Bentivegna. Con essi era anche il comandante della squadra Salinari ed il V. Comandante Calamandrei.
Alle ore 15 circa quest’ultimo si toglieva il cappello per indicare al Bentivegna che la compagnia aveva imboccato Via Rasella e che la miccia per l’esplosione doveva essere accesa. Ouest’ultimo accendeva la miccia, chiudeva il coperchio della carretta e si allontanava verso Via Quattro Fontane. Appena egli imboccava questa strada avveniva lo scoppio dell’esplosivo contenuto nella carretta.
Elementi della compagnia tedesca sparavano in direzione delle finestre sovrastanti e dei tetti, all’impazzata, poiché in un primo momento credevano che I’attentato fosse stato effettuato con il lancio di bombe a mano da una delle case.
Immediatamente giungono sul posto il gen. Maeltzer comandante della città, il col. Dolmann ed alcuni funzionari di polizia italiani. Successivamente arriva il Console tedesco a Roma signor Moellhausen con alcuni gerarchi del partito fascista repubblicano i quali avevano sentito la detonazione dal vicino Ministero delle Corporazioni.
II gen. Maeltzer alla vista dei militari tedeschi morti e feriti era preso da una forte eccitazione. "Sul posto il comandante della Piazza - dichiarava il teste Moellhausen (vol. VII f. 4) - andava e veniva, grida, gesticolava ed anche piangeva, non si poteva trattenere. Secondo lui si sarebbero dovuti fucilare sul posto individui arrestati nelle vicinanze e far saltare, con i suoi abitanti, il blocco di immobili davanti al quale aveva avuto luogo l’attentato.
Intanto ufficiali e sottufficiali del comando di polizia tedesca, accorsi sul luogo, eseguono un’accurata perquisizione nelle case di Via Rasella e fanno scendere sulla strada tutti gli abitanti, che sono condotti in Via Quattro Fontane ed allineati lungo la cancellata del Palazzo Barberini. Alle ore 15.30 circa il ten.col. Kappler giunge al comando di polizia tedesca in Via Tasso. Informato di quanto era accaduto si avviava subito verso Via Rasella. Lungo la strada, in Via Quattro Fontane, egli era fermato dal Console Moellhausen, che ritornava da Via Rasella dove aveva avuto un forte diverbio con il Generale Maeltzer nel tentativo di fare procrastinare le intenzioni di vendetta che questi manifestava sotto I’impulso d'una forte eccitazione, e pregato da quel diplomatico di agire sull’animo del comandante della città quanto mai furibondo e capace di commettere una pazzia.
II Kappler, giunto in via Rasella s’incontrava con il gen. Maeltzer ancora molto eccitato, al quale, dopo un fugace scambio di impressioni, rivolgeva preghiera di essere incaricato di quanto riguardava l’attentato. Avuta risposta affermativa, egli prendeva subito contatto con i suoi dipendenti diretti, fra i quali il cap. Schultz ed il cap. Domizilaff che già si trovava su posto.
Nelle prime indagini venivano raccolte quattro bombe a mano del peso di circa quattro chilogrammi, colorate di rosso e grigio e munite di miccia. Dette bombe, che risultavano essere di fabbricazione italiana, venivano avvolte dal Kappler in un fazzoletto e fatte portare su una macchina della polizia tedesca che, a dire del Kappler, poco dopo sarebbe stata sottratta da ignoti.
Intanto il Kappler,seguendo le istruzioni del gen. Maeltzer, disponeva che i civili fermati nelle case di Via Rasella fossero condotti in una vicina caserma della polizia italiana e di essi fosse fatto un elenco onde accertare quanti risultavano già segnalati negli uffici di polizia.
Alle ore 17 circa, accompagnato dal cap. Schutz che aveva già interrogato i superstiti della compagnia, egli si recava al comando della città di Roma. Ivi, alla presenza del gen. Maeltzer e di altri ufficiali di detto comando esprimeva l’opinione che l’attentato fosse stato effettuato da antifascisti. Circa le modalità di esecuzione dell’attentato egli affermava che "esso fosse stato compiuto mediante lancio di un ordigno principale da una certa altezza e di bombe probabilmente lanciate da diverse persone dai tetti di diverse case" (f. 5 vol. VII).
Altro argomento di conversazione era dato dalle misure di rappresaglia da adottare in relazione all’attentato.
Mentre si svolgeva la discussione il Gen. Maeltzer parlava spesso al telefono. In una di queste telefonate egli usava con frequenza la parola rappresaglia. Ad un certo momento il generale tedesco faceva cenno al Kappler di avvicinarsi e quindi passatogli il ricevitore ed informatolo che all’apparecchio c’era il Gen. Mackensen, lo invitava a parlare con quel generale. II Gen. Mackensen, dopo aver chiesto alcuni particolari in merito all’attentato, entrava subito in argomento circa le misure di rappresaglia intorno alle quali, a giudicare dal suo modo di parlare, egli aveva già discusso con il Gen. MaeItzer (dich. Kappler, f. 6 retro vol VIl).
Alla domanda di quel generale, intesa a conoscere su quali persone potevano essere eseguite le misure di rappresaglia il Kappler rispondeva che, secondo accordi con il Gen. Harste, la scelta avrebbe dovuto cadere su persone condannate a morte o all’ergastolo e su persone arrestate per reati per i quali era prevista la pena di morte e la cui responsabilità fosse stata accertata in base alle indagini di polizia.
II Gen. Mackensen quindi, rispondeva di essere disposto a dare I’ordine, ove fosse stata data a lui la facoltà, di fucilare dieci persone, scelte fra le categorie indicate, per ogni militare tedesco morto. Aggiungeva che si sarebbe accontentato che venisse fucilato solo il numero di persone disponibili fra le categorie suddette. Una conseguenza logica di questo accordo, secondo I’imputato (f. 7 - vol. VII) era che non si sarebbe fatta parola né con il Gen. Maeltzer né con le autorità superiori e che si sarebbe cercato di far conoscere l’accaduto ai rispettivi superiori al più tardi possibile.
Dopo questa conversazione il Kappler si congedava daI Gen. Maeltzer con l’intesa di preparare un elenco di persone sulle quali doveva effettuare la rappresaglia, e si portava alla Questura di Roma per controllare gli schedari in merito alle persone fermate in Via Rasella. Comunicato lo scopo della visita al Questore Caruso, lasciava alcuni suoi dipendenti negli uffici per il controllo degli schedari e di allontanava.
Giunto in ufficio il Kappler dava disposizioni perché fossero accelerate le indagini circa I’attentato con l’aiuto di tutti i collaboratori italiani. Poco dopo veniva chiamato al telefono da Magg. Boblem, addetto al comando della città. Questo ufficiale lo informava che poco prima al suo comando era giunto un ordine in base al quale entro le ventiquattro ore doveva essere fucilato un numero di italiani decuplo di quello dei soldati tedeschi morti. A richiesta del Kappler, il Magg. Boblem precisava che l’ordine proveniva dal comando del Maresciallo Kesselring (Comandante in Capo per l'Italia).
Poiché il contenuto di quest’ordine si mostrava in contrasto con quanto convenuto nel suo colloquio con il Gen. Mackensen, il Ten. Col. Kappler chiedeva la comunicazione con il comando del Maresciallo Kesselring. Dopo circa dieci minuti egli parlava con I’ufficio I che si occupava delle questioni territoriali. L’ufficiale addetto a questo ufficio, alla domanda intesa a conoscere se l’ordine ricevuto in precedenza proveniva dal comando superiore sud-ovest, rispondeva: "No, viene da molto più in alto".
Alle ore 21 il Kappler aveva una conversazione telefonica con il Generale Harster, capo del BSS con sede in Verona, al quale riferiva in merito all’attentato ed al suo sviluppo. Gli comunicava pure che, in base ai dati poco prima fornitigli dalle sezioni dipendenti, egli disponeva di circa duecentonovanta persone, delle quali però un numero notevole non rientrava nella categoria dei todeswurdige. Circa cinquantasette, infatti, erano ebrei detenuti solo in base all’ordine generale di rastrellamento ed in attesa di essere avviati ad un campo di concentramento. Aggiungeva che delle persone arrestate in Via Rasella, secondo informazioni dategli poco prima dai suoi dipendenti, solo pochissime risultavano pregiudicate o erano state trovate in possesso di cose (una bandiera rossa, manifestini di propaganda ecc.) che davano possibilità di una denuncia all’autorità giudiziaria militare tedesca. A conclusione della conversazione rimaneva d’accordo col suo superiore d’includere gli ebrei fino a raggiungere il numero necessario per la rappresaglia.
Dopo tali telefonate egli dava disposizioni perché il mattino successivo, i fermati di Via Rasella fossero liberati ad eccezione di quei pochi che, per motivi vari, risultavano pregiudicati.
Nella stessa serata egli chiedeva al Presidente del Feldgericht Rome di autorizzarlo ad includere nell’elenco le persone condannate dal Tribunale Militare alla pena di morte, le persone condannate a pene detentive ed, infine, le persone denunziate ma non ancora processate. Quel Presidente autorizzava l’inclusione delle persone della prima e della terza categoria, ma, in ordine alle persone della seconda categoria, non intendendo assumersi la responsabilità, rappresentava I’opportunità di chiedere l’autorizzazione del Chefrichter dell’O.B.S.W. L'autorizzazione giungeva poche ore dopo. Nella notte l’imputato, con I’aiuto dei suoi collaboratori esaminava i fascicoli delle persone considerate todeswurdige sulla base dei precedenti accordi.
II mattino successivo, alle nove, il Kappler aveva un colloquio con il Commissario di polizia Alianello, che pregava di chiedere, con la massima urgenza, al vice capo della polizia Cerruti se la polizia italiana era in grado di fornire cinquanta persone. II Cerruti poco dopo gli comunicava che avrebbe mandato da lui il Questore Caruso perché prendesse accordi in merito alla consegna di cinquanta uomini. Alle 9,45 il Caruso, accompagnato dal Ten. Koch, che in quel tempo svolgeva funzioni non ben definite, si presentava da Kappler. Questi spiegava ai due come, per completare una lista di persone da fucilare in rappresaglia dell’attentato di Via Rasella, aveva bisogno di cinquanta persone a disposizione della polizia italiana e spiegava i criteri in base ai quali egli aveva già compilato una lista di 270 persone. A conclusione di questo colloquio si stabiliva che il Questore Caruso avrebbe fatto pervenire al Kappler per le ore 13 l'elenco di cinquanta persone. Nell’elenco compilato da Kappler con I’aiuto dei suoi collaboratori numerosi erano i detenuti per reati comuni e gli ebrei arrestati per motivi razziali; fra gli altri una persona già assolta dal Tribunale Militare tedesco e due ragazzi di 15 anni, dei quali un ebreo. Alle 12 circa I’imputato si recava nell’ufficio del Gen. Maeltzer che lo attendeva. Mentre il generale lo informava che I’ordine della rappresaglia proveniva da Hitler giungeva il Maggiore Dobrik del battaglione "Bozen", che era stato convocato qualche ora prima. II Ten. Col. Kappler informava il generale di aver compilato la lista delle persone da fucilare. A questa lista, diceva, dovevano aggiungersi i nominativi di cinquanta persone che, per le ore 13, gli sarebbero stati dati dal Questore Caruso, scelti fra i detenuti che questi aveva a sua disposizione. Complessivamente si raggiungeva il numero di 320 persone, pari al decuplo dei militari tedeschi che fino a quel momento erano deceduti. II generale Maeltzer, informato dall’imputato dei criteri adottati nella compilazione della Iista, si rivolgeva al Dobrik dicendogli che spettava a lui eseguire la rappresaglia con gli uomini che aveva a sua disposizione Quest’ufficiale esponeva una serie di difficoltà (il fatto che i suoi uomini erano anziani, poco addestrati all’uso delle armi superstizioni, ecc.) con I’evidente scopo di sottrarsi al compito affidatogli. Due giorni dopo, difatti, il ten. col. Kappler riferiva questo episodio al generale Wolf per fare un addebito al maggiore Dobrik. "Dissi - egli afferma parlando di questo colloquio (vol, V 37 retro) - che Dobrik, al quale sarebbe toccato di eseguire la fucilazione, si era tirato indietro, e con ciò io presentavo ufficialmente le mie lagnanze contro Dobrik a Wolf".
Stante le difficoltà poste dal Dobrik, il Gen Maeltzer telefonava al Comando della 14ma armata e parlava con il Col. Hanser, al quale, dopo aver prospettato quanto detto da quell’ufficiale, chiedeva venisse comandato un reparto di quell’armata per l’esecuzione. L’Hanser rispondeva testualmente:" La polizia è stata colpita, la polizia deve far espiare". Il Gen. Maeltezer ripeteva ai due ufficiali presenti quella frase quindi dava ordine al Kappler di provvedere lui all’esecuzione. Congedatosi dal Gen. Maeltzer, il Kappler si portava nel suo ufficio in Via Tasso. Qui chiamava a rapporto gli ufficiali dipendenti e li informava che fra qualche ora avrebbero dovuto eseguire la fucilazione di 320 persone. Al termine della riunione il Kappler impartiva l’ordine che tutti gli uomini del suo comando di nazionalità tedesca, dovessero partecipare all’esecuzione.
Contemporaneamente ordinava al Cap. Schultz di dirigere l’esecuzione e gli dava disposizioni particolari in merito alla modalità dell’esecuzione medesima. "Dissi poi a Schultz - egli afferma (vol VII f.29) - che per la ristrettezza del tempo, si sarebbe dovuto sparare un sol colpo al cervelletto di ogni vittima e a distanza ravvicinata per rendere sicuro questo colpo, ma senza toccare la nuca con la bocca dell’arma." Quindi s’iniziava I’esecuzione: cinque militari tedeschi prendevano in consegna cinque vittime, le facevano entrare nella cava, debolmente illuminata da torce tenute da altri militari posti ad una certa distanza I’uno dall’altro, e le accompagnavano fino in fondo, facendole svoltare in un’altra cava che si apriva orizzontalmente; qui costringevano le vittime ad inginocchiarsi e ciascuno di essi sparava alla vittima che aveva in consegna. II Kappler partecipava, una prima volta, alla seconda esecuzione, che egli racconta brevemente." Vicino I’autocarro - egli dice (vol. VII, f. 31 retro) presi in consegna una vittima, il cui nome veniva da Priebke cancellato su di un elenco da lui tenuto. Altrettanto fecero gli altri quattro ufficiali. Conducemmo le vittime sullo stesso posto e, con le stesse modalità vennero fucilate un po' più indietro delle prime cinque."
Narrazione analoga dell’esecuzione è fatta dall’imputato Clemens. "Quando sparai io - egli afferma (vol. VII, f. 108) - le cinque vittime furono portate nella cava da soldati noi ci disponemmo dietro e, all’ordine sparammo un colpo solo. Le vittime erano in ginocchio e, dopo che caddero, alcuni soldati trasportarono i cadaveri verso il fondo delle caverne dove si trovavano gli altri cadaveri. lo poi uscii dalla cava e non rientrai più, ma ritengo che le altre esecuzioni siano avvenute allo stesso modo."
II tetro spettacolo dei cadaveri che, dopo le prime esecuzioni, si presentava alla vista delle vittime, quando queste entravano nella cava e s’inginocchiavano per essere fucilate, è espresso sinteticamente dal teste Amon, il quale fu presente all’esecuzione, ma non sparò perché non ebbe la forza. "Avrei dovuto sparare - egli dice - (udienza del 12-6-48) ma quando venne alzata la fiaccola e vidi i morti svenni... Rimasi inorridito da quello spettacolo. Un mio compagno mi diede un colpo e sparò per me".
Le vittime dei primi autocarri provenivano dal carcere di Via Tasso, le altre dal carcere di Regina Coeli. Qui si trovava il Ten. Tunàth, accompagnato dall’interprete S. Ten. Koffler, il quale provvedeva a fare avviare alle cave Ardeatine i detenuti del terzo braccio a disposizione dell’autorità militare tedesca. Ultimato il prelevamento di questi detenuti, il Tunath si rivolgeva al Direttore del carcere per avere i cinquanta che erano a disposizione della polizia italiana e che, secondo precedenti accordi, dovevano essere consegnati dal Questore Caruso. Poiché ancora non era giunta la lista se ne faceva richiesta telefonica a Caruso, da cui si aveva promessa di un sollecito invio a mezzo di un funzionario. II tempo trascorreva senza che giungesse la Iista. II Tunath telefonava ancora alla Questura e parlava con il Commissario Alianello, al quale violentemente diceva " che se non si mandava subito I’elenco avrebbe preso il personale carcerario" (Alianello, udienza del 26-6-1948). Dopo un po’ di tempo il Tunath, stanco di aspettare, cominciava a prelevare dei detenuti in maniera indiscriminata. Poco dopo, sull’imbrunire arrivava il Commissario Alianello con una Iista di cinquanta nomi datagli dal Questore Caruso, che consegnava al Direttore del carcere. Questi cancellava undici nomi, precisamente quelli indicati con i numeri progressivi da 40 a 49 e con i numeri 21 e 27 e li sostituiva con altri undici nomi relativi a persone già prelevate da Tunath e che non erano comprese nella lista. La cancellatura degli ultimi nominativi della lista era determinata dal fatto che la compilazione di questa stata fatta iniziando dalle persone ritenute più compromesse per continuare con quelle che si trovavano in posizione migliore, il depennamento dei nomi indicati con i numeri 21 e 27 veniva effettuato invece perché I’una persona era ammalata grave all’ospedale e I’altra non si riusciva a trovarla. Tutti gli imputati prendevano parte all’esecuzione sparando una o più volte, il Kappler, dopo circa mezz’ora dall’inizio dell’esecuzione e dopo aver partecipato ad una fucilazione, si allontanava recandosi all’uffici in Via Tasso. Espletate alcune pratiche ritornava alle cave Ardeatine e partecipava ad altra fucilazione. Gli altri imputati rimanevano sul posto sino alla fine dell’esecuzione, dalle ore 15 alle 19 circa. Subito dopo si facevano brillare delle mine, chiudendosi in questo modo quella parte della cava nella quale i cadaveri ammucchiati fino all’altezza di un metro circa, occupavano un breve spazio.
Da una relazione redatta I’11 maggio dal famigerato dott. Pietro Kock comandante delle squadre di torturatori create dal questore Caruso, ed esistente nel fascicolo intestato "Bombe lanciate contro una colonna di militari tedeschi" si rileva un giovane, identificato per Calamandrei Franco di Pietro, (Firenze 21-9-1917), studente del III anno di lettere, il giorno dell’attentato si trovava all’angolo di Via Rasella, e, all’apparire della colonna tedesca, fece un cenno convenzionale ad uno sconosciuto travestito da spazzino, conosciuto col nome di Paolo. Costui, con la sigaretta, avrebbe acceso la miccia per la esplosione delle bombe depositate su un carrettino porta-immondizie.
Un altro individuo, contemporaneamente, da un posto sopraelevato, avrebbe buttato, al momento del passaggio della colonna, alcune bombe a mano ed avrebbe esploso alcuni colpi d’arma da fuoco, onde dare I’impressione che le bombe occorse per I’attentato alla colonna erano partite dall’alto. Immediatamente vi fu reazione da parte dei tedeschi, da un gruppo di fascisti capitanati dal Questore Caruso, dal ten. Kock e da altri suoi fidi collaboratori. Tedeschi e fascisti procedettero ad arresti in massa, prelevando dai fabbricati da cui si riteneva fossero partiti i colpi d’arma da fuoco, vecchi donne e bambini.
La stessa sera le SS richiesero i precedenti penali e politici di tutti coloro che erano stati arrestati da loro nel pomeriggio, e per ciascuno i funzionari e gli agenti addetti, dissero che precedenti non ce n’erano, sebbene alla richiesta dei precedenti presenziassero ufficiali delle SS tedesche.
La sera dello stesso 23 marzo il questore Caruso ebbe dal comando tedesco la richiesta di consegnare cento nominativi di persone arrestate; il Caruso ridusse la richiesta a cinquanta e, prima di aderire, volle recarsi da Buffarini Guidi per farsene autorizzare. La mattina del successivo 24 tenne nel suo gabinetto una breve e segreta riunione con i suoi più fidi e diretti collaboratori, comandanti delle varie squadre speciali, Kock, Tela, Bernasconi, Occhetto e qualche altro non conosciuto, con i quali preparò una nota di 50 detenuti da consegnare sollecitamente al comando tedesco per la fucilazione. Nell’elenco furono inclusi tutti i nomi degli esponenti e gregari del partito d’azione e di altri arrestati dalle squadre speciali e dai fascisti. L’elenco, sottoscritto dal Caruso, venne portato al carcere dal dott. Alianello, il quale giunse sul posto con mezz’ora di ritardo provocando I’inconveniente che i tedeschi, recatisi a ritirare gli uomini loro assegnati dal Caruso, non avendo trovati quelli, prelevarono un gruppo di dieci pregiudicati comuni che dovevano essere, invece, rimessi in libertà. Pertanto dall’elenco firmato dal Caruso vennero sostituiti dieci nomi di ebrei con quelli arbitrariamente prelevati dai tedeschi.
Su tali circostanze non possono sorgere dubbi perché il questore Caruso sottoposto ad interrogatorio nelle locali carceri, ha sostanzialmente confermato quanto innanzi è detto.
II comando tedesco prelevò dal terzo braccio e da Via Tasso, complessivamente altre 270 persone fermate dalle SS che, ammanettate ed a mezzo di autocarri coperti, vennero condotte in zona che non fu fatta conoscere a nessuno e che solo in seguito si è saputo essere le Fosse Ardeatine.
Come si rileva da una relazione esistente nel fascicolo sopraindicato, tutti i fermati sarebbero stati trascinati ammanettati in una galleria, che i militari tedeschi fecero poi saltare con mine.
Negli atti non si rinviene I’elenco degli uccisi che pure si sarebbe dovuto rinvenire in un fascicolo riservato, evidentemente distrutto prima che i tedeschi si allontanassero da Roma.
Da un sopralluogo fatto eseguire da un funzionario alle tragiche grotte, è risultato quanto segue:
il desolato campo nel quale sorgono le tragiche grotte di Domitilla si trova a poche centinaia di metri dal luogo dove la Via Appia Antica si divide per proseguire in tre diverse direzioni: I’una verso I’Appia Pignatelli; I’altra verso Via Ardeatina e la terza in prosecuzione dell’Appia Antica. Le tristi fosse che accolgono le spoglie dei martiri sorgono in una zona sottostante alla Via Ardeatina e sono costituite da tre cunicoli longitudinali e paralleli, lunghi circa 100 metri, coperti da un ricco terrapieno e congiunti alla loro estremità superiore da un braccio trasversale nel quale si può ora ficcare lo sguardo attraverso un grande foro circolare, al sommo del terreno, delle dimensioni di circa tre metri di diametro.
Ai tre cunicoli si accede attraverso due aperture delle dimensioni di circa 4 metri.
Tale D’Annibale Nicola fu Antonio, (Ceccano, Frosinone il 24-2-1899), abitante in Piazza Casal Maggiore n. 3, int. 6, occupato quale porcaro nel terreno sito in Via Ardeatina prospiciente alle fosse Domitille poté assistere non visto all’eccidio da un campo che si trova a cavaliere delle fosse.
Egli ha dichiarato che il 24 marzo 1944 verso le ore 14 vide giungere alla cava di Via Ardeatina situata a circa 70 metri dal luogo dove egli si trovava, due furgoni tedeschi, del tipo di quelli in uso per il trasporto delle carni macellate, completamente chiusi e con sportelli apribili dalla parte posteriore.
Detti automezzi
dinanzi alla cava eseguirono una manovra circolare, in modo da far capitare
all’imboccatura di essa la parte munita di sportelli con una piccola retromarcia
iI veicolo penetrava addirittura per qualche metro nell’interno del
cunicolo destro. La cava nel suo insieme permetteva agevolmente la manovra dei
furgoni. Compiuta tale operazione, le persone che si trovavano nell’automezzo ne
discendevano e venivano avviate nell’interno e propriamente in fondo alla cava,
dove venivano mitragliate a mezzo di un fucile mitragliatore.
È opportuno notare che la zona era stata completamente isolata dai tedeschi che si erano situati ai vari blocchi.
I colpi rimbombavano cupi nella solitudine circostante e non lasciavano dubbi circa la loro tragica natura, ma le grida giungevano soffocate.
Lo spettacolo destava terrore e raccapriccio.
Secondo il D’Annibale in ogni automezzo potevano stare alla rinfusa dai 70 agli 80 uomini e gli automezzi, scaricato il loro triste carico tornavano indietro a rifornirsene e così, a quanto ricorda il D Annibale, per tutta la giornata, e fino alle ore 14 del giorno successivo.
Secondo tale versione, pertanto, il numero delle vittime sarebbe ben superiore di 320 e si confermerebbe la voce popolare, che le fa ammontare a circa 700.
I primi due automezzi trasportarono persone prelevate dalle prigioni tristemente famose di Via Tasso, mentre gli altri trasportarono detenuti prelevati dal carcere di Regina Coeli.
Ai detenuti prelevati dalle prigioni di Via Tasso fu dato ad intendere che sarebbero stati inviati a lavoro nelle retrovie di Anzio; si ignora che cosa sia stato detto agli sventurati provenienti dalle carceri, ma i giornali pubblicarono che si disse loro che dovevano affrontare un lungo viaggio.
I tedeschi, dopo un paio di esecuzioni facevano esplodere, sempre nell’ interno della galleria delle mine il cui terriccio copriva, di volta in volta, le decine di cadaveri di patrioti ammucchiatevi alla rinfusa. I tre bracci della galleria verso il fondo furono così in breve sommersi sotto I’azione delle mine. Nel braccio di sinistra che si collega nel mezzo delle due porte, i patrioti venivano colpiti da una mitragliatrice posta all’angolo sinistro dell’ingresso. I cadaveri venivano poi trascinati a braccia dagli assassini in fondo al cunicolo ed ivi ammassati .
Nessun’altra persona delle vicinanze è stata in grado di riferire alcunché intorno al criminoso episodio, che ricorda cosi da vicino le fosse di Kathyn. Roma,lì 13 luglio 1944.
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