Mariano Mandolesi

"Carlo"

Gaeta 9 settembre 1920 - 20 maggio 2001

(da http://storiaveneto.scipol.unipd.it)

brani dall'intervista di Franco Schiavetto

Carlo a Belluno il giorno della liberazione

 

Fausto: Come sei diventato comunista?

Carlo: Io sono diventato comunista a Civitanova Marche. Lavoravo in una fabbrica di 4.000 operai, l’officina Fratelli Cecchetti, dove si producevano vagoni per le Ferrovie dello Stato,  mitragliere, bombe per i gas asfissianti e proiettili da 105 e da 303. Lavoravo al Reparto aggiustaggio, dove facevamo gli attrezzisti.  Sono arrivato laggiù ai primi del ‘38 e ci sono restato fino all’aprile del ‘40, perché in maggio dovevo partire militare.

F.: Di che origine sociale sei?

C.: Operaia, mio padre era un vecchio vetraio.

F.: Era socialista?

C.: Più che socialista era anarchico. Un tipo che non sapevi da dove pigliarlo. Partecipò alla settimana rossa di Ancona; spesso si trovò coinvolto in scontri politici. Mi rammento le fotografie che lo ritraevano da giovane con un fazzoletto nero al collo. Era di tradizione repubblicana - anarchica. Quando mio nonno morì li misero sopra la bandiera d’Italia con scritto “Dio e Popolo” perché lui era un Repubblicano di ispirazione mazziniana.

C.: Da ragazzo ho lavorato in vetreria. Lavoravo di giorno e di notte per poter andare a scuola perché la mia famiglia era numerosa. Già da ragazzino avevo uno spirito antifascista. Le idee antifasciste le appresi in quel periodo lì. Nel ‘35 andai nelle Marche dove conobbi un gruppo di ragazzi, tra i quali il figlio di un anarchico e il figlio di un repubblicano. Con costoro costruii una cellula antifascista. Io ero capace di incidere su rame, ottone e bronzo. Facemmo delle medaglie io e il mio futuro cognato: da una parte incidemmo un teschio e dall’altra una falce e martello e le portavamo perché noi facevamo parte di questa organizzazione con cui ci proponevamo di ammazzare Mussolini.

Lui veniva sempre qua a Gaeta a passare in rivista, qui sotto a questo viale alberato, le truppe di mare. Allora avevamo pensato di mettere un cinquantina di chili di esplosivo in una di queste fogne che passano sotto il viale. La carica volevamo farla saltare con un contatto elettrico da una barca.

Questa era l’idea nostra: metterci con la barca in mare e quando Mussolini veniva .... Là si poteva seguire da Formia la sua macchina, con dietro il codazzo della scorta. Avevamo già accumulato una decina di chili di clorato di potassio; volevamo fare una carica di clorato di potassio, carbone, zolfo con un detonatore dentro.

Detonatore che avevo già realizzato e sperimentato. L’artificio era un filo di lampadina che quando facevo contatto, accendeva la polvere e faceva saltare il detonatore. Eravamo intenzionati a fare l’azione; ma a questa operazione non ci arrivammo mai, colpa del farmacista che non ci volle più dare le dosi di potassio che compravamo a 1/2 lira alla volta in farmacia.

Ci disse: “Ma a Natale farete i botti! Volete sempre clorato di potassio? Ora non ce n’ho più. Non ne compro più. Il clorato serve a fare gli sciacqui  in bocca, non i botti”.

E non ce n’ha voluto dare più di questo clorato di potassio. Noi ne tenevamo una decina di chili perché con 50 centesimi ne pigliavi quasi due etti, ma 50 centesimi mica li trovavi tanto facilmente! Inoltre i farmacisti non erano disposti a darcela questa roba.

Mussolini ci era antipatico per tutta una serie di ragioni. Lo volevamo far fuori. Pensavamo che colpendo lui avremmo colpito tutti i fascisti. Se levavamo di mezzo lui, avremmo levato di mezzo tutti. Nelle Marche dunque organizzammo questa cellula. Con me c’erano Angelo che era un anarchico, un certo Calderoni di cui non ricordo il nome e mio cognato. Ci facemmo pure una fotografia insieme, tutti e quattro. Portavamo le medagliette con questo teschio e la falce-martello.

Dove sono arrivato a diventare comunista, fu in fabbrica, quando uno di questi emissari che stavano dentro alle fabbriche, sapendomi antifascista mi disse: “Di un po’; ma tu sei comunista o socialista?” E io gli ho detto: “Guarda, io non ne capisco niente; tu mi devi spiegare cos’e’ il socialista e cos’e’ il comunista?” E lui mi ha detto: “Socialisti sono quelli che vogliono formare prima la coscienza alla gente e poi prendere il potere. I comunisti invece vogliono prendere il potere per poter formare la coscienza alla gente”. E io gli ho detto: “Allora sono comunista. Prendiamo il potere e poi facciamo la coscienza alla gente”.

 

Al V Contraerea di Padova. Contatti con il Partito. Sgnaolin.

Da militare arrivai a Padova. Ti ho detto perché ho fatto il sergente. Per non andare al fronte. Io prima sono andato in marina. Dalla marina mi sono fatto mettere ai servizi sedentari, dicendo che non ci vedevo. Ero convinto che essendo nei servizi sedentari della marina non sarei stato mandato nella fanteria. Invece poi ci fu una disposizione in tal senso. Per evitare di andare a finire con il mio reggimento in Africa, partecipai a un corso di sergente motorista. Fu ciò a portarmi a Padova. Qui dopo pochi mesi presi contatto con i compagni.

F.: Chi erano?

C.: C’era Sgnaolin. Lo vedevi fuori dalla Caserma con un fare da cospiratore, con la coppola in testa, la bicicletta a mano. Mi pare li mancasse un dito.

Dunque presi contatto con Sgnaolin che era legato a Schiavon il quale era un po’ il funzionario responsabile, quello che manteneva i contatti tra i comunisti a Padova. In seguito seppi che Sgnaolin era il compagno incaricato di tenere i contatti con i militari. Arrivai a Padova nel settembre del ‘41 e intorno a novembre presi contatto. I rapporti miei con i compagni di Padova continuarono stretti fino a quando, nel novembre del ‘42, fui mandato in esilio a Montagnana.

F.: Dici che sei stato mandato in esilio. Perché ?

C.: A Padova nelle caserme mi muovevo da antifascista attivo. Sgnaolin mi dava del materiale e poi nelle caserme si trovavano dei volantini, si trovavano delle scritte nei gabinetti: “Vogliamo la pace”, “Ritirate i nostri fratelli da oltre frontiera”, “Smettetela con la guerra”. Tutte queste scritte le andavo facendo io, portavo i manifestini e in più avevo fatto un’azione di reclutamento. Avevamo costituito una cellula di partito dentro la caserma “Piave”.

Alla fine i miei superiori si resero conto che ero io che facevo questa azione antifascista. Presero a pretesto una mia passione per la cugina di Tonio Zancanaro. La incontrai, ci innamorammo. Poi fu fatta sposare a uno; ma continuammo a vederci. Erano sorte delle cose un po’ complicate.

Questo fatto lo vennero a sapere in caserma e fu l’occasione per cacciarmi da Padova. Mi mandarono a Montagnana con la motivazione che ero indesiderato dalla cittadinanza di Padova perché ero un puttaniere, un donnaiolo, perché avevo un sacco di donne. Questo fu il mio biglietto da visita per Montagnana; cosicché quando vi giunsi ... le donne mi accolsero a braccia aperte. Mi avevano fatto una pubblicità che non finiva mai. Però la ragione vera del mio esilio era politica.

A mandarmi via da Padova fu soprattutto uno che era stato un mezzo federale fascista prima di far carriera nell’esercito. Uno che, dopo la liberazione, arrestammo nel periodo in cui io ero vice-questore. Era aiutante maggiore del comando, quello che fa tutto e che prepara anche i biglietti di punizione.

Era un disgraziato. Mi ha infilato in prigione diverse volte. Quando mi trovava per strada, bastava un bottone sbottonato, una cravatta un po’ storta, una bustina un po’ di traverso e subito mi ficcava dentro. Insomma questo disgraziato di aiutante tanto ha brigato per spedirmi a Montagnana.

F.: Cosa c’era a Montagnana?

C.: A Montagnana c’era un drappello di circa 300 uomini, si trattava di una unità distaccata dell’artiglieria contraerea di Padova. Fui dunque aggregato a questo drappello con l’ordine che ogni due ore mi dovevo presentare al comando, che non avrei più dovuto fare l’operaio di officina che non avrei più fatto l’istruttore automobilistico. Inoltre non avrei avuto più il permesso, come sottoufficiale, di rientrare in caserma due ore dopo la ritirata dei soldati semplici. 

Non volevano infatti che io ritornassi a Padova. Quello che rompeva di più era il capitano Consiglio si chiamava. Anche il vice-comandante della caserma premeva, e anche lui si chiamava Consiglio, un farabutto pure lui. A Montagnana ci stavo dunque sempre molto controllato.

Io invece a Padova ci volevo tornare sia perché volevo rivedere la ragazza, sia perché volevo riprendere i contatti con il Partito.

A Montagnana ci arrivai verso la fine di novembre. La mia situazione di isolamento completo durava ancora alla vigilia di Natale. La sera della vigilia chiesi al sottotenente d'ispezione se mi lasciava, quella sera, libero fino a mezzanotte, senza l’obbligo di tornare dopo due ore dalla libera uscita. Era costui un militare triestino, con i capelli all’umberta senza basette laterali, tutto pulito. Dice: “Mi dai la parola da militare che non andrai a Padova?” A me, sai quanto caspita mi fregava della parola da militare! Comunque ho dovuto dargliela: non sarei andato a Padova e sarei rientrato a mezzanotte. Mi diede il permesso, lo salutai e me ne andai in un trattoria.

In un angolo un gruppo di persone attorno ad un tavolo se ne stava li a mangiare, a bere, a sfottere l’oste.

Dai discorsi che faceva quel gruppo di uomini nell’osteria, capii che erano dei compagni. A un certo momento questi intonano l’Internazionale e io li accompagno. Allora vennero vicino e mi invitarono al loro tavolo.

Tramite quel gruppo di compagni conobbi Doralice e Frison e tutto il gruppo dei comunisti. Dopo una settimana mi portano a tenere un’assemblea in campagna. All’uscita della caserma c’era uno che mi aspettava (mi pare si chiamasse Nando) con un bicicletta a mano, un tabarro e un berretto in testa. Lo riconobbi subito.

Pedalammo per più di mezz’ora. Arrivammo ad una casa di campagna. Come entrammo dentro trovammo una stanza con tutte le seggiole preparate in fila e con un tavolo per la presidenza. Immagina un po’: io dovevo tenere una assemblea. Quella sera lì ero proprio in pallone, per l’emozione non vedevo avanti nessuno. Stavo in mezzo a 3-4 esponenti comunisti e socialisti e davanti c’erano una ventina di compagni a sedere.

Dalla cucina si affacciavano tutte le donne. Parlai, dissi delle cosette. Non ricordo quello che dissi; ma erano continui applausi. Quella sere avevamo fatto un’assemblea come se fossimo già in un regime aperto.

Finita la riunione subito i tavoli si raddrizzarono, le sedie si disposero intorno, arrivarono le tovaglie. Le donne, da dentro la cucina, portarono da mangiare veloci perché io dovevo tornare presto in caserma. Mangiammo tutti quanti! Mi fecero bere anche troppo. Nando mi riaccompagnò in caserma, dove arrivai con mezz’ora di ritardo.

Da quella volta avevo un’assemblea alla settimana. Venni così a sapere che a Montagnana veniva un compagno da Padova per mantenere i contatti ed era Schiavon. Io allora non lo conobbi come Schiavon, lo conobbi come Beppi. Quando presi questo contatto ormai mi ero ambientato a Montagnana e ci stavo bene. La nostra compagnia venne trasferita a Padova, per fortuna quella bestia di Consiglio non c’era più.

Ecco che viene il 25 luglio. Il 25 luglio mi prese che tornavo da Montagnana. Arrivo in caserma e la trovo in subbuglio. Tutti erano contenti. “Eh Mandolesi è caduto il fascismo!” Adesso tutti sanno che sono io quello che mette i biglietti. Vado nella camerata della mia compagnia.

Tutti mi vengono incontro, mi dicono “I fascisti stanno lì a Piazza Duomo, a Piazza dei Signori. Resistono. Bisogna andare lì a sparargli, a snidarli. C’è l’ordine di armarsi contro questi fascisti.” Quando siamo tutti pronti arriva un tenente che conosco, gli dico “Vengo anch’io contro i fascisti.” Mi risponde: “Si, si, vieni anche tu.” Partiamo. Questo tenente io e venti uomini. Penso di andare a Piazza Duomo e invece il tenente apre un dispaccio che ci ordina di andare in fondo a via XX Settembre, al ponticello che c’e’ vicino alla Questura, in via Roma, la strada che porta a Prato della Valle. Dovevamo montare la guardia a questo ponticello. Non capivamo il perché di questa disposizione.

I fascisti chi li ha sentiti più! Quando ebbero la notizia si tapparono in casa. Solo qualcuno che non aveva sentito la radio scese la mattina con lo stemma in mostra. Erano dei poveracci, degli impiegati statali che si dovevano presentare in ufficio col bottone. E come la gente vedeva il distintivo, li rincorreva e li menava pure. Me ne ricordo uno di questi impiegati. Era un ometto piccolino (vive ancora a Padova); scese dal portone di fronte a cui montavamo la guardia, con la cimicetta bene in vista sul suo pulito abito blu. Non gli dissi niente, ma pensavo fra me: “Che esca; che esca gli daranno una bella crocchiata”. E la crocchiata gliela diedero davvero, incontrò infatti, per sua disgrazia un corteo antifascista.

 

L’8 Settembre a Padova.

il groviglio di biciclette al Canton del Gallo.

All’8 settembre io ero ritornato in caserma. Nei giorni precedenti cercavo di smobilitare più soldati possibile. Specie i padovani e i veneti, li mandavo in licenza, li liquidavo. Capitò un giorno che ero d’ispezione alla porta. Vennero un gruppo di padovani, sette per la precisione. “Sergente, abitiamo dalle parti di Monselice” Risposi: “Lo so, io vi faccio uscire; però voi non vi fate più rivedere. Assumo io la responsabilità, voi andate a casa e non ritornate più.” Questi accettarono ed uscirono fuori. Erano appena sopra il ponticello che sta di fronte alla caserma Piave, sulla strada che viene da piazza Castello, quando ebbero la disgrazia di imbattersi nel vice-comandante, il tenente colonnello Consiglio. Il grassone, con gli occhialetti alla Cavour: “Fermi! Fermi!” Col collo grosso così per l’ira. Se li prese, se li portò in caserma quei disgraziati. Chiamò l’ufficiale di picchetto e ci fece dare 7 giorni di punizione di rigore. Visto che ero di rigore sono andato in maggiorità da Bressan e gli dico: “Senti, fammi una cortesia: mettimi di ronda!” Quando ero punito spesso facevo così, perché almeno potevo muovermi fuori. In quella situazione poi lo desideravo ancor di più perché avevo la sensazione che gli avvenimenti ci rovinassero addosso. Erano già un paio di giorni che ero di ronda quando, proprio nella via che da piazza delle Erbe va al Canton del Gallo, sento da una radio il comunicato dell’8 settembre, il proclama di Badoglio.

Il giorno 9 settembre assistei ad un gigantesco scontro di biciclette al Canton del Gallo. Successe così: i ciclisti che da via Roma andavano a Prato della Valle, all’improvviso videro arrivare i tedeschi e girarono indietro verso il Bò e si scontrarono con la corrente di biciclette che veniva da piazza delle Erbe. Il semaforo forse non funzionava più. Fatto sta che all’incrocio c’era una caterva inestricabile di biciclette le une sopra le altre e sempre nuove ne arrivavano sopra. Era il panico.

Io ero là di ronda e volli spingermi verso Prato della Valle. Strada facendo trovai un militare che conoscevo, uno che stava in Marina, Stefanelli si chiamava e veniva da Trieste. Laggiù, ci informò, i tedeschi avevano già occupato le navi. Ci disse: “Che fate qua? Scappate! A Trieste i tedeschi hanno occupato tutte le caserme e prendono prigionieri i soldati”. Lui era scappato la sera prima. L’8 settembre sera e già a Trieste succedeva il fatto del disarmo delle caserme da parte dei tedeschi. Stefanelli aveva viaggiato tutta la notte, un po’ con un mezzo un po’ con un altro ed era arrivato a Padova, non mi ricordo se alla mattina o al pomeriggio, assieme ai tedeschi.

I tedeschi in Prato della Valle volevano solo transitare per Padova. Hanno chiesto di passare tranquillamente. Si sono incontrati al comando Presidio col Generale Carbone. Vidi con i miei occhi, quando arrivati in Prato, una camionetta davanti al Presidio con 4-5 tedeschi a bordo.

 

l’8 settembre alla Caserma "Piave"

Tornai in caserma, dove erano restati una ventina di uomini. Il comandante li aveva messi davanti al cancello con una mitragliatrice Breda in posizione. Dissi: “Guardate che così, Padova non la proteggete mica, come voi dite (mi rivolgevo agli ufficiali presenti). Con le forze che ci sono, col reggimento di fanteria che c’è, col reggimento di artiglieria contraerea e con quello di artiglieria pesante, hai voglia che blocchi che riuscirete a formare intorno a Padova sulle strade da cui verranno i tedeschi, soprattutto sull’adriatica e su quella che viene da Chioggia!” Ma era inutile parlare. I comandi non volevano porre resistenza ai tedeschi. Allora mi misi d’accordo con un ufficiale che, appena fossero giunti i tedeschi, ce la saremmo filata dal portone posteriore della caserma. Preparai una macchina, una millecento. Le feci il pieno di benzina e, perché altri non se ne servissero, manomisi lo spinterogeno cosicché non andava in moto; ma io in pochi istanti ero in grado di aggiustarla. Inoltre tenevo le chiavi dell’armeria, dove pensavo di prendere una cassetta di pistole, proiettili e i 2-3 mitra che ci stavano.

Intanto i soldati avevano cominciato a fuggire da altre caserme e gettavano le armi per strada. Uscii dalla caserma e, assieme a Sgnaolin ed altri compagni raccogliemmo diverse armi sulle riviere.

 

L’inizio della resistenza a Montagnana

Sull’imbrunire partii verso Montagnana. Purtroppo dovetti rinunciare alla macchina che avevo preparato. In caserma non era certo il caso di tornarci. Avevo deciso di raggiungere Montagnana, dove tra l’altro c’erano delle armi da prendere. Procedetti sulla strada dei colli fin dove abitava una famiglia che conoscevo. A loro esposi la mia situazione: "Guardate, io devo raggiungere Montagnana." Loro mi risposero che il Parroco, che stava lì vicino, poteva accompagnarmi. Costui, che aveva una macchina mi disse però che, a causa della poca benzina che teneva nel serbatoio, mi poteva portare col suo mezzo solo fino a Tencarola. Così fece: mi accompagnò fino a fuori Padova e ritornò indietro. Proseguì da solo fino a Noventa Vicentina. Poco prima di arrivare in quel paese vidi un carretto che procedeva lentamente. Chiesi un passaggio al carrettiere, salii, mi sdraiai in mezzo al fieno e dormii fino alle otto del mattino successivo. Mi svegliai col suono dell’orologio in piazza a Montagnana.

 

L’esercito si sfalda

il primo arsenale della resistenza padovana

Tra gli uomini presenti, che erano circa 300, solo una quindicina dissero che rimanevano e tra loro un sergente che conoscevo bene, Tambolo Giulio. Costui in seguito ebbe una storia curiosa. Sposò una donna di Este, una certa Tonello. Molto ricca (il palazzo dove c’era la federazione fascista al Lido di Venezia era una sua proprietà). Era bruttina; ma lui la sposò per poi piantarla, non senza avergli portato via quanti più soldi poteva, andandosene a spenderli Svizzera. Questo Tonello era molto legato con il Parroco di Montagnana che era un omone grosso grosso.

La gran massa dei soldati presenti in caserma, dunque, se ne andò. La popolazione li aiutò in ogni modo; diede loro dei vestiti borghesi, le loro divise le bruciò prevedendo di dover dare spiegazioni se i fascisti o i tedeschi gliele avessero trovate in casa. La gente dava anche aiuti finanziari e viveri.

In caserma eravamo restati dunque in una quindicina e raccogliemmo oltre 300 moschetti che furono uno dei primi arsenali della resistenza padovana. Queste armi finirono a Padova dove in parte, in seguito, furono seppellite sotto le macerie della casa in cui venivano custodite e che si trovava all’Arcella. I compagni nei giorni seguenti al bombardamento andavano di notte a scavare tra le macerie per recuperare qualche fucile. Molte di quelle armi che da Padova, nell’inverno del ‘43-’44, ci arrivavano su nel Vajont erano le armi che io avevo recuperato a Montagnana e quelle che Sgnaolin aveva recuperato sulle riviere dopo che i soldati le avevano gettate fuggendo l’8 settembre.

 

Il "Buscarin". Checco da Gioz

F.: Tu sei arrivato al "Buscarin" non a Lentiai ma in Val del Mis.

C.: Arrivai da Padova in Val del Mis assieme a Brunetti, Luisari e un  compagno Greco, uno che stava a studiare all’Università e che volevano obbligare a fare il militare in Italia, in quanto era di origine italiana poiché il nonno era italiano. Noi ci unimmo "Buscarin" quando questo si era già spostato da Lentiai a Sopra Gena Alta. Fra gli altri ci stavano: Rega, Funes, Bortnikov, Kutnizov, quattro slavi tra cui Mirko, Bose. La figura politica di spicco era Rega.

Il nostro contatto maggiore con la base lo tenevamo attraverso Checco da Gioz. Fu quello che io, Bruno e gli altri incontrammo all’arrivo. Noi sapevamo solo, quando partimmo da Padova, che ci sarebbe stato uno che sarebbe venuto a prenderci. Come siamo arrivati a Sedico lo abbiamo riconosciuto subito dalla barba. Salì sul trenino dove eravamo trasbordati noi, cioè passammo dal treno delle ferrovie dello stato al treno della Montedison che andava ad Agordo. Prima che partisse il trenino si era già fatto riconoscere. Fu così che poi ci fece scendere al Peron da dove abbiamo dovuto fare tutto quel tratto di strada fino a Vedana e oltre su su fino a Gena Alta. Quasi tre ore a piedi. Portavamo delle armi, portavamo degli indumenti. Avevamo uno zaino e due valigie a testa.

F.: Dove eravate di preciso?

C.: In una casera sopra Gena Alta. Eravamo una ventina tra cui quattro russi, quattro slavi, Funes che faceva il cuoco, l’avvocato Longobardi che era un po’ il filosofo e alla sera teneva l’ora politica. Dopo qualche giorno e’ arrivato Landi De Luca.

F.: Quali erano i comandanti?

C.: Nicolotto era il comandante e Mario Silvestri faceva il commissario.

 

 Muore Ferdiani

   Nel frattempo si era verificata l’azione a Forno di Zoldo contro il farmacista. Ci andarono Misha, lo slavo e Ferdiani (Mario). Lì sono andati e l’azione non e’ riuscita. Poi ci fu una caccia molto forte nei loro confronti capeggiata da un certo Sovilla, il tabaccaio a Forno di Zoldo. In un sentiero non troppo praticabile, Mario, scivolò e cadde in un burrone.

Lo mandammo a recuperare subito dopo la guerra. Anzi nell’estate seguente, poiche’ quella zona venne sotto la mia giurisdizione, mi fu portato l’orologio a testimonianza che l’avevano individuato. Poi dopo la guerra abbiamo sotterrato la salma e l’orologio l’ho fatto avere alla famiglia. Si trattava di un cronometro.

   Dopo questa azione che ci aveva un po’ avviliti pensammo che il "Buscarin" dovesse prendere il nome di "Tino Ferdiani".

 

 

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