Ripropongo questo autorevole contributo del Prof. Ernesto Landi, Presidente dell'Ordine Nazionale dei Biologi italiani, a riprova che il mondo della scienza ufficiale non è proprio assuefatto ai network delle multinazionali e qualche voce fuori dal coro si trova ancora. Segnalo lo spirito civile e il richiamo alla democrazia che il prof. Landi mette in campo quando una società deve affrontare decisioni vitali ed importanti non solo per la nostra nazione, ma anche per il pianeta intero.
Il problema degli "organismi geneticamente modificati" è complesso. Intorno a questo tema si intrecciano paure e speranze, grandi conquiste scientifiche e vergognose speculazioni. La genetica e la genomica sono diventate, insieme alla biologia molecolare, le nuove frontiere della ricerca scientifica e del dominio commerciale. Quando parlo di dominio non lo faccio a caso, visto che l'attuale legislazione sui brevetti permette a pochi giganti multinazionali di appropriarsi di genomi vegetali ed animali frutto di milioni di anni di evoluzione e, quindi, di proprietà dell'intera umanità.
Credo che il nodo più grosso sia proprio questo, più che invocare presunti pericoli che possono derivare da una non ancora dimostrata tossicità delle derrate alimentari modificate geneticamente. Sono molto più preoccupato dall'aspetto politico della vicenda che non da quello della compatibilita nutrizionale delle nuove piante e dei nuovi animali frutto della biologia molecolare. L'enorme peso economico e l'enorme potere di controllo esercitato dalle grandi multinazionali, che oggi dominano il mercato mondiale delle sementi, stanno modificando radicalmente l'agricoltura e con essa le specie coltivate.
Oggi, grazie alle regole sancite dai trattati internazionali del commercio, si può brevettare una pianta modificandone solo un gene. Tale modifica ne fa qualcosa che non esisteva prima in natura e quindi, come oggetto inedito, questo può essere sottoposto ad una procedura legale che conferisce la proprietà ad un singolo individuo o ad una ditta. Tale titolo di proprietà non è limitato ad un solo seme o ad una partita di semi tutti egualmente manipolati geneticamente, ma a tutte le piante che da quei semi si sviluppano ed a tutte quelle che da queste si svilupperanno. In altri termini è possibile conferire la proprietà, senza limiti temporali su materiale vivente. Mi sembra ovvio che chi detiene tali diritti tenti di promuovere in tutti i modi il suo prodotto. Tale promozione passa, disgraziatamente, per l'abbandono di altre varietà o di altre specie coltivate con l'immediato e conseguente pericolo di erosione della diversità biologica delle specie coltivate.
Inoltre, procedure di biologia molecolare, tanto raffinate quanto perverse, sono in grado di conferire sterilità ad alcuni prodotti dell'ingegneria genetica. Il grano è stato tra le prime piante su cui si è sperimentata questa tecnica, subito ribattezzata dai suoi oppositori "Terminator technology", termine con cui è ora conosciuta in tutto il mondo. In breve si tratta di una tecnica che permette la germinazione del seme venduto, ma impedisce la germinazione dei semi che si maturano sulla pianta di grano che da quel seme venduto si sviluppa. Questa è una strategia messa in essere per proteggere dalla copia il prodotto biotecnologico, impedendo agli agricoltori di poter riseminare parte del loro raccolto. A questi, dunque, non rimane che acquistare ogni anno i semi dalla ditta fornitrice.
Tale situazione non è limitata al grano, molte altre piante sono passibili di essere "protette dalla copia" con procedure analoghe e sembra che ciò sia possibile anche per gli animali. E' amaro constatare che il Comitato Scientifico della Convenzione sulla Biodiversità abbia dato via libera a tali pratiche, che vengono chiamate "GURT" (Genetic Use Restriction Technologies). Ed è ancora più amaro verificare che le decisioni in questo senso di tale Comitato restringono il diritto dei singoli paesi di bandire la "Terminator technology" dal loro territorio. Tutto ciò nel nome del libero commercio e del libero scambio.
Non esito a definire pauroso lo scenario che l'intreccio di tecnologia, scienza ed interessi commerciali ci fa intravedere. Non mi piace un mondo in cui l'agricoltura, e dunque il diritto ad una alimentazione sana, equilibrata e quantitativamente sufficiente possa venir messo sotto il completo controllo di pochi giganti multinazionali. Questo pericolo è particolarmente acuto e terribilmente probabile. La scienza e la tecnica debbono essere strumenti di progresso e di democrazia, non dovrebbero piegarsi alle cieche leggi di un'economia che non rispetta i reali bisogni della gente. Non bisogna dimenticare che le società umane sono strutture che elaborano complessi codici di comportamento, all'interno dei quali si organizzano rapporti centrati sulla condivisione di valori comuni. Tale elaborazione culturale crea una rete di interessi e di scambi basati sulla solidità e la compattezza dell'intero sistema sociale. Senza il cemento culturale, da cui discendono norme di comportamento condivise, non esisterebbero strutture sociali e nemmeno scambi. La sfera economica, dunque, deriva e dipende dalla sfera culturale e deve essere a servizio di questa, non viceversa.
Spero che il dibattito sugli aspetti politici della brevettazione della vita e delle conseguenze sociali che ne discenderanno si faccia sempre più vivo. Credo, e spero, che i biologi, nella loro veste di uomini e donne di scienza e di professionisti al servizio della collettività, diffonderanno e sosterranno un approccio di alta valenza democratica ai problemi etici e pratici che le nuove tecnologie della vita generano nella nostra società che cambia.
Fonte: BIOLOGI ITALIANI 4/2000