Rimini 150. In poche parole
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Tra Rimini e San Marino 1943-1944 (6)


Fascisti alla sbarra
Dalla condanna all'amnistia
"Il crollo della linea gotica consentì, con il decreto del 23 settembre 1944, di restituire il potere al Consiglio dei LX e di estromettere i fascisti dal Governo", ci spiega Cristoforo Buscarini, ripercorrendo velocemente gli avvenimenti della Repubblica dopo la liberazione del territorio riminese dall'occupazione tedesca, avvenuta il 21 settembre.
"Con la legge del 23 ottobre dello stesso '44, fu poi avviato un procedimento penale contro i responsabili fascisti. Si badi bene, però. Il procedimento era limitato agli atti compiuti dopo il 28 ottobre 1943, e quindi si riferiva unicamente a coloro che militarono nel partito fascista repubblichino, e compirono atti di violenza". Il 28 ottobre '43, il Consiglio di Stato aveva decretato un "atto di pacificazione cittadina che metteva i capi del regime al riparo da qualsiasi rischio penale per le responsabilità assunte nel Ventennio", precisa Buscarini.
L'effetto di questo provvedimento era chiaro: "In tal modo, non pochi gerarchi responsabili del Ventennio superarono indenni la bufera", aggiunge Buscarini.
Ritorniamo al processo contro i repubblichini. "La sentenza penale, emessa il 22 gennaio 1946, rivelò particolare indulgenza rispetto alla gravità delle imputazioni, le quali esulavano dall'ambito puramente politico, per configurare autentiche, comprovate violenze. Essa fu presto seguita da ampia amnistia", conclude Buscarini.

Scene di un processo
Sul processo ai repubblichini, siamo in grado di presentare una ricostruzione inedita, grazie agli appunti redatti allora dal prof. Giovanni Franciosi, nel corso delle sedute del Consiglio dei XII per le sanzioni contro il fascismo, di cui fece parte.
I lavori vengono inaugurati il 24 dicembre 1945. Il Reggente Martelli illustra la gravità e l'importanza degli atti da compiere, ed invita tutti "i componenti a una serena, obiettiva discussione", facendoli giurare sul segreto, e che essi giudicheranno "senza amore e senza odio".
"Seduta calma e tranquilla", commenta Franciosi: "Sembra che tutti i membri del Consiglio dei XII siano consci della gravità della funzione che sono chiamati ad assolvere".
Franciosi, assieme ad altri due consiglieri, è poco persuaso "sulla entità e consistenza delle prove raccolte su molte gravi imputazioni". Ha dubbi anche su alcuni passi della relazione che il Sindacato istituito dalla legge 23 ottobre '44, ha fornito al Consiglio dei XII. Si decide pertanto di convocare il presidente del Sindacato stesso, avv. Federico Comandini, "affinché possa illuminare il Consiglio sulle procedure seguite durante l'istruttoria e i criteri seguiti nel formulare la sentenza" di primo grado contro i repubblichini.
Preso atto che, come si è visto, "il compito del Sindacato è limitato al periodo 1943-1944", e che quindi "il Ventennio può venire solo incidentalmente considerato", Franciosi e altri due consiglieri "fanno osservare come tutto porti a considerare la opportunità di una pena contenuta in limiti minimi".
D'altra parte, precisa Franciosi, la legge "votata quasi all'unanimità dal Consiglio dei LX... dà la facoltà al Consiglio dei XII di scendere, nell'applicazione del Codice, al di sotto dei minimi che esso prevede".
Viene poi ricordato un elemento, "lamentato anche dal Sindacato, che la cittadinanza non si è molto interessata al processo".
L'osservazione sottintende uno spirito di riappacificazione, a riprova del quale Franciosi aggiunge un particolare: "Vi è stato perfino un membro del Consiglio di Liberazione dei più attivi... che pur essendo tra gli accusatori, non si è presentato a deporre quando è stato citato quale teste, anzi ha rilasciato ad un imputato una dichiarazione che in un certo modo lo scagiona da un delitto (bastonatura allo... stesso)...".
Non tutti sono d'accordo con la tesi di Franciosi. Ma alla fine, la proposta di contenere le pene nei limiti minimi, "viene accolta".


«Idee di mitezza»
Annota Franciosi: "Anche questa seduta calma. Sembra che le idee di mitezza prevalgano. Ma si ricomincia a manifestare l'intransigenza e la settarietà di qualcuno (...)": seguono i nomi.
Qualcun altro è, come Franciosi, "per una condanna più morale che materiale". C'è infine chi "dà ragione a tutti. Dice che siamo tutti d'accordo. Chissà da quali elementi lo ricava questo accordo?".
Alla terza seduta (2 gennaio 1946), interviene l'avv. Comandini, presidente del Sindacato che ha formulato la relazione trasmessa al Consiglio dei XII. Gli vengono chiesti alcuni chiarimenti ritenuti necessari al processo.
La domanda principale che gira tra i componenti del Consiglio dei XII, è questa: in base a quali prove il Sindacato "ha potuto ravvisare negli atti del pfrs una cospirazione"? E poi: se cospirazione c'è stata, come si è concretata?
La richiesta parte dallo stesso Franciosi. Altri giudizi calcano la mano. Danno per accertata la cospirazione, e si chiedono perché non sia stato ipotizzato invece il più grave reato di attentato alle istituzioni della Repubblica.
"Comandini... nega che si possa parlare di attentato". Alla domanda di Franciosi su come si sia realizzata la cospirazione, Comandini risponde: "Colla richiesta del potere fatta il 5 giugno".
La dichiarazione di Comandini rende necessaria una "nuova consultazione degli atti perché molte cose... sono rimaste dubbie anche dopo le delucidazioni date".
E' il momento di maggior tensione tra i XII: "La maggioranza comincia a dimostrare il suo disappunto. Credeva di avere qualche cosa di più sicuro e di maggiormente colpibile. Nei consiglieri della minoranza aumenta invece il disagio morale": essi infatti hanno "l'impressione che la colpabilità degli imputati non venga lumeggiata in modo da avere una chiara idea".
La maggioranza sembra a Franciosi "disorientata (almeno i capi). Appare via via evidente che alcuni elementi (...) se ne freghino delle risultanze del processo: essi nella loro incoscienza sono tranquilli e disposti a qualsiasi condanna".

«I compromessi»
Quarta seduta, 7 gennaio. Il Reggente apre la discussione, credendo che "tutti i Consiglieri si siano formati un'idea chiara del processo".
C'è un gran silenzio nell'aula: sembra che tutti siano consci della gravità degli atti', annota Franciosi. Il quale si alza a parlare per primo: "La costituzione del fascio repubblicano ha portato gravi difficoltà al Governo in momenti particolarmente difficili... L'azione del fascio è stata veramente deplorevole".
Secondo Franciosi, non sono accettabili le tesi della difesa sull'opera svolta dai fascisti sammarinesi a favore della Repubblica. Infatti, "quando il fascio repubblicano si è costituito, le relazioni sia coi tedeschi che con la Repubblica sociale italiana erano normalizzate e nulla era più da temersi data la condotta di stretta neutralità dal Governo tenuta".
Per Franciosi, occorre distinguere tra azioni moralmente condannabili, ma non perseguibili penalmente, da quelle che richiedono invece l'applicazione del codice penale. Dai documenti, aggiunge, non è emersa pienamente la prova del delitto di cospirazione contro lo Stato: "Nello stesso atto del 5 giugno 1944 non si richiede una cessione di poteri, ma solo maggiore partecipazione al Governo".
Franciosi esprime poi un giudizio molto acuto, sotto il profilo politico: "L'ammissione di cospirazione non è conciliabile coi compromessi anteriori e posteriori al 5 giugno".
Franciosi mette così a fuoco, con la parola "compromessi", il clima creatosi a San Marino dopo l'atto di "pacificazione cittadina" del 28 ottobre '43, con il quale si aprivano le porte del Governo anche ai fascisti: ben cinque, su venti componenti, tra cui lo stesso Giuliano Gozi, il duce di San Marino.
Quella di Franciosi è una denuncia basata su di un'opinione ben precisa. Nella confusa situazione creatasi dopo il 28 luglio '43 (caduta del regime fascista sul Titano), i repubblichini si sono macchiati in un certo senso di colpe 'permesse' loro anche dagli avversari. Quindi, non debbono essere soltanto i repubblichini a pagare per tutti. Di qui, la propensione di Franciosi alla linea della clemenza.
Scrive Franciosi che il suo richiamo "a tutti i compromessi anche dal Giacomini sottoscritti", punge lo stesso Giacomini che "annaspa per giustificarli e per coprirsi" (quest'ultima parola non è chiara nel manoscritto), "con una vernice di verginità che gli tolga qualche scrupolo di coscienza sulla sua posizione".
Per provare la cospirazione, poi, secondo Franciosi, occorrerebbe provare anche che in precedenza fossero stati compiuti atti in questa prospettiva, atti "che non fossero a conoscenza come per esempio azioni delittuose eventualmente compiute nelle andate al Nord", di cui non si parla però nei documenti ufficiali.
Altri interventi di segno opposto alla linea sostenuta da Franciosi, definiscono "politico" il processo che si sta svolgendo, ed aggiungono che la condotta degli imputati va valutata appunto sotto il profilo politico e non penale. La conclusione è che i fascisti non cospirarono soltanto, ma cercarono pure di realizzare un attentato allo Stato.
Il dott. Alvaro Casali aggiunge altri particolari su fatti, intimidazioni o "atti violenti", come l'attentato alla sua persona: "Dice che in quel giorno (6 febbraio '44) c'erano in Borgo ben 10 fascisti di città e che era preparato un vero e proprio complotto per colpire non solo lui ma anche altri esponenti".
Giacomini ribadisce: "Il processo è politico e come tale non soggiace alle forme procedurali". Gli risponde Franciosi che per un processo politico occorreva una "legge eccezionale", non quella normale che era in vigore allora.


«Condanna morale»
In una seduta successiva (di cui manca la data negli appunti), Franciosi ripresenta le sue considerazioni: crede che "nel dubbio di una cospirazione, si debbano punire i fascisti per quanto hanno effettivamente compiuto e sia pienamente provato. La condanna sarà quindi soprattutto una condanna morale, una solenne deplorazione..., aggravata da interdizione e da una mite sentenza".
Alla parola "deplorazione", interviene ironico Giacomini: "Come facciamo coi bambini delle scuole elementari". Lo scontro all'interno del Consiglio dei XII si fa aspro. Franciosi, assieme al collega Suzzi Valli, ripete che è per una "giustizia serena" che scaturisca da un "accurato esame degli atti". Dalla parte opposta, si parla di "giochetti" per perdere tempo. Franciosi replica sdegnato: "Questo è un linguaggio offensivo".
La maggioranza dei XII è per l'ipotesi della cospirazione, e per estendere l'accusa a tutti gli appartenenti al fascismo, "anche a quelli cioè non chiamati dal Sindacato o prosciolti da esso".
E' possibile soltanto una pena politica, precisa il Commissario della Legge: così, il Consiglio vota all'unanimità di "dare una sanzione morale a tutti gli ex fascisti repubblicani, infliggendo la perdita dei diritti politici per un tempo da determinarsi caso per caso".
Osserva Franciosi: ormai il Consiglio è diviso in due parti, tra chi vuol dare un giudizio sereno in base agli atti, e chi senza averne letta neppure una riga, è deciso ad infliggere pene di una certa misura, "indipendentemente dai dubbi (o certezze)" che possono nascere dalla lettura degli atti stessi.


Il verdetto
Eccoci alla conclusione dei lavori. Si mettono ai voti le accuse alle singole persone. Per Giuliano Gozi passa la sentenza di sette anni di carcere, per suo fratello Manlio pena di cinque anni.
Osserva ancora Franciosi: "Durante il procedimento è stato veramente deplorevole il contegno di alcuni membri della maggioranza che si comportavano come se si trattasse di fare un giuoco di società piuttosto che di infliggere pene anche gravi a persone che, se anche colpevoli, meritano che i loro casi vengano discussi con la serietà che l'ambiente e il caso richiedevano".
Tra la maggioranza, si parla di "atto di giustizia", per il quale non c'entra per nulla la generosità.


Amarezza e silenzi
Indipendentemente da quanto ognuno possa pensare sul voto contrario dato da Franciosi alla sentenza, assieme ad altri due consiglieri, queste sue pagine restano un importante documento su di un momento cruciale, tra vecchio e nuovo corso degli eventi.
In Franciosi, prevale la volontà di sostituire agli odi del passato, la clemenza di un perdono inteso come rinuncia alla punizione.
Resta l'eterna domanda se giustizia e punizione siano soltanto una forma di vendetta legalizzata della società, o un bisogno degli uomini per ricostruire la vita, dopo le violenze e le distruzioni.
Gli appunti di Franciosi trasudano amarezza. Sono pagine utili a capire il travaglio della storia e dei giudizi che vengono espressi sugli avvenimenti trascorsi, soprattutto quelli più recenti.
Un'osservazione di Clara Boscaglia ritrae perfettamente questo dramma umana: "I verbali del Consiglio di Stato nella loro schematicità non offrono nessuna documentazione del calvario di quei giorni che i più anziani non sembrano intenzionati a tramandarci e che i più giovani ignorano perché nessuno si preoccupa di farlo conoscere".
E a sostegno della sua opinione, la Boscaglia cita proprio Francesco Balsimelli, Reggente nel 1944: "Checco non rievocava volentieri quel periodo, forse perché troppo troppo brutto, forse perché vi giocò un ruolo molto importante... Mai accondiscese alle pressioni di chi insisteva perché dalle pagine del suo diario traesse per le future generazioni la storia degli anni 1943-1944".
Dopo i "giorni dell'ira", vennero i "giorni del silenzio". Che durarono a lungo, ma non poterono cancellare dalla memoria collettiva e dei singoli, quei tragici momenti.


«Questo bieco manganellatore»
All'inizio del 1965, "accompagnato da un ben noto camerata sammarinese, è tornato a San Marino il famigerato Paolo Tacchi di triste memoria, per chiedere nientemeno, con una improntitudine inqualificabile, un attestato di 'benemerenza' per il gran bene che dispensò al tempo del neonato fascismo locale e durante il tragico periodo della seconda guerra mondiale".
E' un corsivo di "Riscossa socialista" degli allora socialdemocratici sammarinesi, uscito nel marzo '65, dove leggiamo ancora: Tacchi, "questo bieco manganellatore di cui molti concittadini portano ancora nelle carni i segni delle sue feroci aggressioni, forse per rifarsi una verginità in Italia, domandava ad un ex Reggente del tempo, una graziosa testimonianza, credendo di trovare in Repubblica, uomini disposti ad assecondare questa sfacciata e provocatoria pretesa. Ben ha fatto l'interpellato a trattarlo nella maniera drastica col metterlo alla porta, sola e meritata risposta, ma non sarebbe stato male che la nostra Polizia lo avesse associato per qualche giorno nella frigida Rocca a meditare sulle sue eroiche gesta, per convincerlo che i Sammarinesi hanno buona memoria e non sono disposti a perdonare le infamie e le violenze ingiustamente subìte!".
Tacchi, in quegli anni Sessanta, cercava invece di accreditare di sé una diversa immagine, raccontando al Montemaggi (che ne riferisce in un suo libro dell'84), di esser sempre stato "animato verso San Marino dagli stessi sentimenti che il dantesco Farinata degli Uberti nutriva verso Firenze, la città che l'aveva ripudiato e che pur egli amava ed aveva salvato"!
L'"Inferno" dell'Alighieri, Tacchi lo aveva studiato da giovane, proprio a San Marino, quando frequentò le scuole della Repubblica.

[Questo testo è apparso sul settimanale «il Ponte» di Rimini, nel n. 21 del 2.6.1990, quinto articolo della serie “I giorni dell’ira”.
Ai precedenti articoli della serie:
1. 28 luglio 1943, San Marino volta pagina
2. Chi minaccia San Marino
3. Attentato a Casali ed arresto di Babbi
4. La prof. che faceva la spia
5. Tra saluti romani e bombe alleate]



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Antonio Montanari

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