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LA LETTERA DI AMBROGIO

di Jorge A. Di Iorio

 

Ambrogio è un uomo di cinquant’anni; però le rughe profonde che solcano il suo viso, i pochi capelli bianchi che ornano le sue tempie, quel suo modo di camminare curvato, lo rendono molto più vecchio di quello che è.

Da quando è arrivato dall’Italia tre mesi or sono, va a pescare con un suo parente e, sebbene marinaio nato, in questo paese non si trova a suo agio. Non tralascia occasione per criticare il modo di lavorare sia in mare che a terra. Io mai avrei conosciuto i suoi sentimenti se i compagni fossero stati con lui un po’ meno severi. Infatti giovani e meno giovani lo considerano un uomo capriccioso, freddo, scettico, un vero orco. Alcuni non esitano a classificarlo pazzo inguaribile.

Ma non è così.

Giorni fa, mentre camminavo tranquillamente per la strada, me lo vidi avvicinare.

-Buon giorno- disse, mentre mi osservava con serietà –Sei tu il figlio di Filippo?

-Sì, Pietro, sono io! Perché mi cerchi?

-Vuoi farmi un favore?…Vuoi venire a casa mia a scrivermi una lettera?

-Certamente, Ambrogio!

-Bene. Andiamo!

Appena arrivati, preparò il necessario per scrivere e, senza molti preamboli, cominciò a dettare:

“Cara moglie e cari figli, vi scrivo per darvi notizie della mia salute. Sto bene, forte, contento…e mi auguro che anche voi, al ricevere la presente…

A questo punto si interruppe sbattendo forte il pugno sulla tavola.

-Che succede? Perché ti sei fermato? gli domandai.

-Come posso continuare? esclamò come un vinto. –Mi succede sempre la stessa cosa…Le idee mi si affollano nel cervello e non riescono a trovar la via per venir fuori…Non è questa la lettera che vorrei scrivere!

-Dettami ciò che credi opportuno; per quanto mi riguarda ti assicuro che nessuno saprà niente.

Ambrogio si passò la mano sulla fronte.

-Non è per questo!…Io vorrei scrivere cose molto belle alla mia famiglia. Vorrei raccontare ai miei figli le bellezze e le meraviglie di questa terra…Però questo mestiere disgraziato mi fa star sempre di cattivo umore, non riesco a dir altro che imprecazioni, maledetta sia la pesca!

-Dì qualsiasi cosa. Come passi la vita, un fatto che ti è capitato…In fin dei conti è tua moglie che leggerà la lettera, ti conosce bene.

-Proprio per questo ho paura. Al leggere i miei tristi pensieri, potrebbe credere che sono impazzito. Proprio io che sono stato un tipo sempre allegro anche in mezzo alle disgrazie. Ah, però, se avessi saputo! Se avessi saputo appena un po’ di tutto questo, a costo di mangiare pane e cipolle tutta la vita, non mi sarei mosso da casa per tutto l’oro del mondo! Qui non esiste né giorno né notte, anche di domenica si lavora. Specie per noialtri più che un lavoro è una schiavitù…

A mezzanotte, all’una, alle due: alzati e cammina! Di corsa fino alla banchina, versa la carnada, carica le reti, afferra le cappotte incerate, metti tutto sulla barca, salpa l’ancora e via. Però fuori c’è il temporale. Sta piovendo a tutta forza. Viene la fine del mondo. Niente. Non fa niente. Mettiti rincantucciato in un angolo mentre il mare ti spruzza la faccia con le sue punte di acciaio…L’acqua ti piove addosso, ti inzuppa, ti riempie gli stivali, ti congela… Che bella vita!

Stattene così, tutto il giorno, su questo mare agitato che ti sbatte da una parte all’altra come un rifiuto qualsiasi e fa il tuo lavoro senza esitazioni…Quando torni a casa tua sei il cadavere di te stesso. Non sei più capace di dare un passo. Apri la porta e trovi tutto sottosopra così come l’hai lasciato. Guardi in cucina. Niente! Tutto spento! Così come ti trovi corri a comprare qualcosa per riempire lo stomaco. Frattanto pensi che questo lo dovrai preparare, pulire, cucinare e finalmente mangiare…ti vengono i brividi. Guardi l’orologio, le lancette corrono a più non posso, è tardissimo. Finalmente, quando già non vedi più niente per il buio, togli la pentola dal fuoco, metti il mangiare nel piatto e te lo butti giù così, mezzo crudo com’è. Mentre mangi il sonno ti vince e, per non cadere con il naso nel piatto, corri a buttarti sul letto vestito e bagnato come stai. Gli occhi si sono appena chiusi, senti una voce che ti chiama: Alzati Ambrogio, che è tardi.

E tu, con uno sforzo sovrumano, metti i piedi fuori dal letto, ti sfreghi gli occhi che non vogliono aprirsi, ti stiri le membra fredde e indolenzite, torni a metterti la giacchetta, un pezzo di pane nel panierino e…al molo, a cominciare di nuovo la storia del giorno prima.

Meglio sarebbe il lavoro forzato.

La domenica, il giorno di riposo per i cristiani, è il più duro di tutti. Ti tocca alzarti prima del solito per andare al ruscello a lavare la biancheria e i panni di lavoro: due ore passate lì su quelle pietre piegato in ginocchio a lavare. Poi devi litigare coi compagni per usare la corda che ognuno vuole per sé. Terminato questo lavoro, comincia la pulizia della “cella”. Dio ci liberi se non lavi il pavimento tutte le settimane! Gli scarafaggi e le cimici diventerebbero subito padroni della situazione.

Verso le otto del mattino ritorni di nuovo al molo: devi asciugare la rete e pulire la barca. Ritorni a casa, come al solito, a mezzogiorno passato, come un lupo affamato. Neanche ti vien voglia di aprire la cucina, dovresti cominciare daccapo un’altra volta per mangiare. Allora te ne vai all’osteria, mangi e quando è il momento di pagare ti accorgi che con quel danaro avresti potuto fare una scorpacciata del mangiare più squisito insieme alla tua famiglia, il cibo che hai mangiato non ti fa star meglio.  Verso le tre del pomeriggio torni a casa. Mentre togli i panni asciutti dalla corda, ti viene in mente che devi dare l’olio di lino alle cappotte cerate che avevi dimenticato in un angolo. Corri a metterle al sole e quando sono asciutte le ungi e ti ungi col preparato. Frattanto il tuo pensiero vola alla famiglia lontana. Ti ricordi che è passato molto tempo che non le scrivi. Subito corri a casa dell’amico che sa tenere la penna in mano, ma non c’è. È domenica, è giusto che stia fuori a divertirsi un po’. E cammini per la strada come un idiota. La gente ti guarda come si fa con un ubriaco o con un pazzo da manicomio.

L’indomani, sulla barca, ti tocca sentire anche le battute dei compagni: E che? Hai fatto un voto? Hai litigato col barbiere? Hai una barba da frate cappuccino!

Ascoltando le ultime parole di Ambrogio, dovetti trattenermi per non mettermi a ridere.

-Amico, gli dissi, tutto ciò che hai detto è vero, perciò lo puoi ben raccontare a tua moglie. Raccontale tutto, perché anche questo fa parte di quello che di straordinario e fuori del comune si incontra in terra americana. I tuoi figli rimarranno soddisfatti lo stesso. Dettami ciò che hai appena finito di dirmi, scriverò tutto per filo e per segno.

-No, no, no, -rispose Ambrogio-. Tutto questo è stato uno sfogo. Voglio che la lettera non ne contenga neppure una parola. I miei figli vanno a scuola e se venissero a saperlo non vorrebbero studiare più per aiutarmi, e io voglio che siano un po’ meno schiavi del loro padre.

Lo guardai negli occhi: scintillavano di insolita allegria; in quel momento era molto vicino ai suoi cari ed era felice. L’espressione del suo volto non poteva mentire.

-Continua, disse,

…E desidero che anche voi vi trovate in buona salute. Vi ho comprato un paio di scarpe ciascuno proprio come quelle degli attori del cinema…

Per un’ora Ambrogio mi tenne al suo servizio. Io entusiasmato dalla mia insolita occupazione gli riempii ben volentieri vari foglietti. Poi, andandomene, gli dissi che ero sempre a sua disposizione per questo lavoro.

E glielo promisi con tutto il cuore, perché nonostante la sua durezza e la sua intrattabilità, Ambrogio è un uomo onesto che ama appassionatamente la sua famiglia.

(da Jorge A. Di Iorio, Desde la barca mia…Memorias de un pescador, Buenos Aires, 1951, trad. di Giorgio Vuoso).

 In: Ischia Oggi, numero 5, anno 1978.

 

 

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