Giorgio Vuoso
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Giorgio Vuoso

 

 

L’EDIPO RE

DI

SOFOCLE

 

 

 

 

Rivista Letteraria

 

1980-1988

 

IL MITO DI EDIPO

PRIMA DI SOFOCLE

 

 

   Il mito di Edipo, senza dubbio, è antichissimo.  L'origine del suo nucleo centrale, il parricidio e l'incesto, (il mito nella forma in cui ci è noto, è il risultato della combinazione di miti eterogenei e originariamente indipendenti) è stata collocata dagli studiosi nell'ambito mitologico preellenico e, più precisamente, nell'ambito storico e culturale egeo-anatolico, detto anche mediterraneo.  In questo ambito, in cui vigeva un'organizzazione sociale di tipo matriarcale, esso aveva un suo preciso significato religioso.  Il figlio che uccide il padre e sposa la madre non è altro che un dio dell'anno o della vegetazione che prende il posto dei dio vecchio, suo padre, ormai esausto e privo di forze, uccidendolo, accanto alla dea madre.

   Ora è evidente che questa dea madre o Demetra, in quanto essere primordiale, generatrice di tutte le cose viventi, per assicurare la continuità del ciclo vegetativo e insieme della procreazione animale e umana, deve unirsi in matrimonio con i propri figli.  In un contesto sociale di tipo matriarcale quale quello mediterraneo, quindi, l'unione del figlio con la madre non era avvertita come turpe né come incestuosa, proprio in virtù della caratteristica della dea di essere madre universale.  (1)

   Quando questo mito dal suo ambiente originario passò in ambiente greco, il cui ordinamento sociale, strutturato su base patriarcale, era completamente diverso, perse interamente il suo significato, diventando un racconto incomprensibile e in pieno contrasto con l'etica della nuova società.  Di qui la necessità di dare un nuovo significato, compatibile con il mutato quadro sociale e familiare, a questo racconto così contrastante con la moralità del nuovo popolo. Cominciò così quel processo attraverso il quale il nucleo mitico originario -parricidio e incesto- si combinò con altri miti ad esso originariamente estranei e, al termine del quale, si ottenne un altro mito del tutto nuovo e dal significato completamente diverso.

   La prima ed essenziale combinazione, infatti, fu quella con il mito del neonato esposto perché deforme (Edipo = dai piedi gonfi) che sottratto alla morte e divenuto adulto, ritorna in patria per vendicarsi sui genitori (2). L'uccisione del padre faceva da punto di contatto, da legame tra i due miti.  Nel nostro caso, per effetto di alterazioni subite dal racconto, la deformità dei piedi non era causa dell'esposizione ma conseguenza di essa, per cui, in epoca classica, tutto il mito fu impostato sul tema degli oracoli. Edipo viene esposto appena nato perché con la sua morte annulli quanto aveva predetto un oracolo: che il padre sarebbe morto ucciso di sua mano.  Il neonato tuttavia non muore ma, raccolto da un pastore, viene allevato a Corinto.  Poi, divenuto adulto, un giorno si imbatte per caso in Laio e, senza riconoscerlo, lo uccide in una lite.

   Successivamente, per giustificare le nozze con la madre, furono inseriti altri due racconti mitici: la lotta con la Sfinge e il concorso nuziale bandito per la mano della principessa (nel nostro caso la regina rimasta vedova).  In Sofocle i due temi mitici sono fusi e il secondo (il concorso nuziale) si risolve nel primo. Edipo ottiene la mano della regina e, per conseguenza, il regno di Tebe in riconoscenza di aver liberato i tebani dal mostro.

   Il mito di Edipo, dunque, nella sua forma definitiva, nella quale era conosciuto in epoca classica e che a noi è stata tramandata dai tragediografi, fu costituito dall'aggregazione e dall'amalgama di più racconti mitici, che, fusisi con il primo, si saldarono in una superiore entità, perfettamente chiusa e intelligibile e trascendente il limitato contesto di ciascuno di essi. (3)

   In epoca storica il primo accenno sicuro alla figura di Edipo lo troviamo nell'Iliade (XXIII, 679-80) dove il poeta ci informa in soli due versi della morte dell'eroe e dei giochi funebri celebrati in suo onore.

   Nell’Odissea (XI, 271-280) l'accenno è molto più ampio. Tra le donne che Ulisse vede nell’Ade riconosce anche la "madre di Edipo, la bella Epicasta, la quale compì un'azione colpevole per la ignoranza del suo intelletto, poiché sposò suo figlio.  Questi la sposò dopo avere ucciso suo padre.  Subito gli dei resero note agli uomini queste cose.  Tuttavia quello in Tebe molto amata, soffrendo dolori, continuava a regnare sui Cadmei per la funesta decisione degli dei.  Lei, invece, se ne andò presso l'Ade che inflessibile chiude la porta, avendo legato un alto laccio alla sommità del soffitto, vinta dal suo dolore. A lui, poi, lasciò innumerevoli mali, quanti le Erinni d'una madre portano ad effetto".

   Come si vede, si tratta di ben nove versi che testimoniano però che l'autore del poema seguiva una versione della leggenda diversa da quella dei tragici. Infatti, secondo la versione di questi ultimi, Edipo, scoperto il parricidio e l'incesto, si acceca, va in esilio e muore sparendo in modo straordinario.  Secondo Omero, invece, anche dopo la scoperta degli orrori commessi, Edipo continua a regnare in Tebe trascinando pure la città nella sua infelicità.  Quasi certamente, quindi, tutti questi particolari non erano ancora stati trovati.  Del resto, dalla lettura dei versi, risulta che Omero del mito di Edipo conosce solo la parte più antica, che più su si è definita nucleo centrale, costituita dal parricidio e dall'incesto.  Di questo mito, però, già ai suoi tempi si era smarrito il significato religioso.

   Egli, infatti, giudica le nozze di Epicasta con Edipo, in base alla nuova spiritualità, "un'azione colpevole". A tal punto colpevole che gli dei, non potendo sopportare che l'orrore dell'incesto rimanesse a lungo nascosto, lo rivelarono subito agli uomini. In che modo, poi, avvenisse il riconoscimento, Omero non lo dice; d'altra parte non dice neppure perché Epicasta ignorasse che Edipo fosse suo figlio, ignoranza che, certamente, secondo il poeta, doveva giustificare in parte, una così terribile colpa; né fa alcun cenno dei figli di Edipo, come pure dell'esposizione di Edipo bambino e della vittoria sulla Sfinge e del concorso nuziale. È opportuno anche notare che, secondo Omero, è Epicasta a lanciare contro Edipo quella maledizione che, invece, secondo Sofocle, egli scaglia contro se stesso. È molto probabile, dunque, che ai tempi di Omero, quel processo di combinazione e fusione di miti diversi intorno a quello centrale del parricidio incesto fosse appena agli inizi, come pure la razionalizzazione del mito alla luce della nuova morale.

   Altri due poemi trattavano la sorte di Edipo e dei suoi figli: l'Edipodia, di cui non sappiamo niente; e la Tebaide, della quale ci restano due frammenti: uno di dieci versi e un altro costituito da uno scolio.  Questi ci informano della maledizione scagliata da Edipo contro i suoi due figli, colpevoli soltanto di avergli presentato, per disattenzione, in due diverse occasioni, una volta una coppa che egli riconobbe di suo padre, l'autore di tutti i suoi mali; e una seconda volta la coscia della vittima, ritenuto pezzo inferiore, invece della spalla che erano soliti offrirgli.

   Pindaro anche, nell'Olimpica seconda, parla di Edipo (vv. 42-44), “il figlio fatale -mòrimos huiòs- che venuto a rissa uccise Laio e compì il vaticinio già pronunziato da tempo in Pito".  Il poeta, cioè, spiegando il perché della varia sorte nella stirpe dalla quale è disceso Terone (discendente di Polinice) la giustifica con la macchia del peccato di Edipo che restò operante nei discendenti.

   E giungiamo così ad Eschilo (4) il grande tragico predecessore di Sofocle.

   Eschilo dedicò alle vicende di Edipo una intera tetralogia comprendente il Laio, l’Edipo, e i Sette contro Tebe, seguiti dal dramma satiresco la Sfinge .  Purtroppo dei tre drammi c'è pervenuto solo il terzo: i Sette contro Tebe; mentre quello che ci rimane degli altri due è talmente poco che è impossibile ogni tentativo di ricostruzione.

   Ma se è impossibile poter rigorosamente ristabilire il seguito degli avvenimenti come Eschilo lo aveva messo in scena, resta pur sempre una via attraverso la quale ci si può fare un'idea, almeno a grandi linee, di quello che doveva esserne lo sviluppo, vale a dire cercare nel dramma superstite gli elementi per la ricostruzione di quelli perduti.

   Ed infatti Eschilo suole, come si può vedere nelle Eumenidi per la Orestia, riassumere in qualche punto dell'ultimo dramma i motivi principali svolti negli altri due, per richiamare alla mente dello spettatore i precedenti dell'azione, cosicché questi li abbia davanti come premessa e preparazione degli sviluppi imminenti e spiegazione del problema morale in essi racchiuso.

   Nei Sette contro Tebe il punto in cui Eschilo ci fa questa specie di riassunto è costituito dai versi 742-79 1 del secondo stasimo.

   Da questi versi è così possibile ricostruire i due drammi perduti.  Il Laio trattava della maledizione inflitta al re di Tebe dall'oracolo delfico.  Dal momento che contro l'oracolo di Apollo aveva voluto discendenti, s'aspettasse la morte dal proprio figlio Edipo.  Probabilmente il Laio continuava narrando come Edipo fu esposto sul Citerone, fu salvato da un pastore e affidato al re di Corinto Polibo e, divenuto adulto, imbattutosi in Laio, durante un viaggio, lo uccise.  A questo punto si innestava l'azione dell’Edipo.  Acclamato dai Tebani, per aver sciolto l'enigma della Sfinge, il protagonista divenne re della città e sposò la vedova di Laio, ignorando che costei era sua madre.  Dall'unione incestuosa nacquero più figli, tra cui due maschi, Eteocle e Polinice.  Scoperte le colpe commesse Edipo s'accecò; inoltre dolendosi della mancanza di riguardi dei suoi figli, nella sua collera, li maledì, augurando loro di dividersi la sua eredità con le armi.  Nei Sette contro Tebe al centro dell'azione sta Eteocle che difende la città dagli assalti di Anfiarao, di Polinice e degli altri cinque principi che assediano la città tebana.  Mosso da amore per la patria egli tenta prima di calmare le donne che formano il coro, terrorizzate dalla mischia e imploranti tutti i numi dell'Olimpo.  Al racconto di un nunzio che descrive le paurose insegne e l'ardore guerriero degli avversari, reagisce con frasi di scherno e con orgogliosa sicurezza. Quando però sente dire dal messo che Polinice vuole misurarsi con lui per ucciderlo, intuisce che il suo destino sta per compiersi e decide d'affrontarlo: si spenga dunque finalmente la schiatta funesta di Laio!  L'esito dello scontro viene riferito da un nunzio: Tebe è salva, ma i fratelli, dilaniatisi a vicenda, non sono ormai che due cadaveri.  Questo, per sommi capi, il contenuto della trilogia eschilea.

   A questo punto mi sembra non inopportuno fare alcune brevi considerazioni sui rapporti tra Eschilo e Sofocle, cercare di stabilire quali fossero le concezioni morali e religiose dei due poeti per poi, alla luce di esse, scorgere nelle loro opere -I sette di Tebe e l' Edipo Re- quali affinità li uniscano, quali discordanze li differenzino nella trattazione del mito di Edipo; vale a dire che cosa essi videro e come interpretarono le vicende della casa dei Labdacidi.

   Bisogna tenere presente (non sarebbe neanche necessario dirlo) che l'arte e la poesia dei due poeti fanno sì che le due tragedie siano ugualmente autonome e indipendenti e immortali per quanti influssi dell'una noi possiamo trovare nell'altra, per quante affinità di situazioni, di costruzioni, di intreccio noi possiamo riscontrare in esse.

   L'anonimo biografo autore della vita, ci dice che Sofocle "imparò la tragedia da Eschilo".

   L'affermazione può essere senza altro accettata come vera se si intende nel senso che Eschilo, padre della tragedia fu, più o meno, maestro a tutti.  Senza dubbio Sofocle molto dovette al suo predecessore.  "Egli cominciò imitando Eschilo".  Questa affermazione è del Perrotta e gli è stata suggerita dal poeta stesso che, in un giudizio sull'arte sua in rapporto a quella di Eschilo -il giudizio è riferito da Plutarco e si hanno buone ragioni per ritenerlo autentico-, afferma che da principio egli avrebbe imitato il fasto eschileo.  La perdita delle tragedie giovanili di Sofocle ci mette nell'impossibilità di verificare noi stessi la veridicità della affermazione del giudizio attribuito al poeta e di renderci conto dell'entità del debito di Sofocle nei riguardi di Eschilo. Le sette tragedie che ci sono pervenute appartengono alla piena maturità artistica del poeta, al periodo in cui, cioè, si è liberato da influssi esterni per esprimersi in uno stile e in un linguaggio che sono espressione esclusiva del suo mondo poetico e adatti al carattere dei personaggi rappresentati.

   Per quanto riguarda i rapporti intercorrenti tra i Sette contro Tebe eschilei e l’Edipo sofocleo, nessuno può negare gli influssi del primo dramma che si avvertono nel secondo.  Questi sono stati ben messi in evidenza dal Polhenz (5).  Il prologo dell'Edipo Re, movimentata scena di massa, scenografico e fastoso come in nessun'altra tragedia di Sofocle, è tutto costruito sul modello di quello dei Sette contro Tebe.  Ad Eteocle circondato da tutti gli uomini validi di Tebe che egli, nella consapevolezza della sua responsabilità di capo della città, incita a fare il loro dovere fino all'ultimo per la salvezza dello stato e degli dei patrii nell’imminenza del pericolo, fa riscontro nella tragedia di Sofocle, Edipo che parla alla folla di giovani, vecchi e bambini che sono venuti a supplicarlo perché solo da lui, dopo che dagli dei, si attendono un aiuto. Come nel prologo dei Sette contro Tebe così anche nell' Edipo Re ci viene presentata la calamità che affligge la città e l'uomo chiamato e intenzionato ad arginarla.  Lì l'assalto di Polinice e dei suoi alleati, qui la pestilenza che affligge il paese uccidendo uomini ed animali e piante.

   Lo stesso Pohlenz nota anche dei riscontri formali tra le due tragedie (6): all'inizio dei Sette contro TebeKàdmou polìtai, chrè lèghein tà kàiria, hòstis phylàssei pràgos en prymne pòleis, òiaka nomòn, blèphara mè koimòn hypno” corrisponde in Sofocle: "O tèkna, Kàdmou, tou pàlai nèa trophé”, mentre il motivo del capo della città che non deve abbandonare gli occhi al sonno è ripreso al verso 65, dove Edipo, sempre rivolto alla folla che è venuta a supplicarlo perché faccia qualcosa per allontanare la pestilenza, dice: “hòst' ouch hypno gh' hèudonta m'exeghèirete (sicché non dormente per sonno mi svegliate).  Al verso 10 dei Sette contro Tebe Eteocle esorta " kài tòn ellèipont' èti hébes akmàis kài tòn èxebon chròno blastemòn  aldàinonta sòmatos polyn", mentre in Sofocle sono venuti a supplicare Edipo " hoi mèn oudèpo makràn ptèsthai sthènontes, hoi dè syn ghéra barèis".

   Nondimeno le diversità non mancano, e non poteva non essere così.  Esse si notano nei particolari, nelle sfumature e specialmente nel tono dei due protagonisti.  Eschilo, infatti, doveva  creare il guerriero forte, valoroso, intrepido, ma anche amaro e sarcastico; mentre Sofocle voleva che il suo Edipo apparisse personaggio umanissimo, vero padre dei suoi sudditi, e perciò gli fa pronunciare quell'espressione affettuosa "o figli" che sulle labbra di Eteocle avrebbe forse suonato male.

   Tuttavia derivazioni e riscontri di questo genere non sono quelli che importano di più.  Dobbiamo anzi considerarli naturali e comprensibili, quasi inevitabili, se pensiamo che Sofocle ha tenuto presente i Sette contro Tebe quando scriveva l’Edipo Re, come del resto ha tenuto presente altri drammi, sia eschilei che euripidei, quando gli argomenti di questi erano gli stessi di quelli che egli si accingeva a comporre.

Ben più importante, "essenziale", come la definisce il Perrotta (7), è un'altra derivazione: quella dei protagonisti sofoclei.  Essi derivano tutti dall'Eteocle dei Sette. “Hanno tutti l'animo risoluto e indomabile di Eteocle”, così come “l’asprezza, il linguaggio sarcastico, il pessimismo dell'eroe eschileo”.  Aiace e Antigone più degli altri senza dubbio, perché sono “più forti, più rigidi nel loro eroismo degli altri eroi delle altre tragedie più teneri e meno lontani dalla comune umanità”.  Quelli sono gli eroi che agiscono, che vogliono, dalla cui libera volontà l'evento drammatico è determinato; gli altri sono invece gli eroi che soffrono, che patiscono. Ma sono tutti, come Eteocle, appassionati di una sola passione, irrigiditi in essa, potenti ed elementari come forze della natura.  Solo che Sofocle, dando ad ogni dramma della trilogia un tema proprio ed in sé concluso, costruisce le sue tragedie tutte intorno ad un solo personaggio, il protagonista, che domina dal principio alla fine e intorno al quale ruota tutta l'azione. Gli altri personaggi, cioè, esistono in quanto sono in funzione del protagonista, trovano la loro ragione d'essere nel contrasto con esso.  Il protagonista no.  Egli vive autonomamente, vive per se stesso.

   Ne risulta che i protagonisti sofoclei sono innalzati come gigantesche figure marmoree, che lo spettatore può contemplare d'ogni parte a suo agio.  Questo perché l'oggetto di indagine di Sofocle è l’uomo, l'uomo singolo, l'individuo con le sue passioni gigantesche, con la sua volontà eroica, con la sua grande magnanimità, le sue indicibili sofferenze.  Eschilo invece, scrisse sempre trilogie ad argomento unico. Questo perché, a differenza di Sofocle, oggetto delle sue tragedie non è l'uomo preso singolarmente, che per lui non esiste in quanto tale, ma l'uomo come membro di un tutto unico, di una famiglia, inseparabile da questa e saldamente congiunto con gli altri.   

   E della famiglia, del ghenos , non tanto gli interessa questa o quella vicenda, ma il trasmettersi di padre in figlio, e molto spesso dal colpevole all'innocente, della maledizione che su di essa è piombata.

   Coi Sette contro Tebe siamo all'epilogo di una vicenda di tal genere: la maledizione abbattutasi su Laio, da questi attraverso il figlio Edipo trasmessasi ai nipoti, si compie con la estinzione completa della schiatta.

   Se si volesse enunciare sotto forma di verità generali, le conclusioni religiose che il poeta stesso tirava dalla leggenda e che voleva suggerire al suo pubblico, bisognerebbe, credo, riassumerle in queste tre affermazioni: che le colpe dei padri si ripercuotono sui loro discendenti di generazione in generazione; che la divinità è giusta in quanto punisce colpe sempre volontariamente commesse e non invidiosa dell'uomo; che la volontà degli dei finisce sempre per realizzarsi e, nonostante ciò, che l'uomo -è ferma convinzione di Eschilo- è libero di determinare autonomamente il proprio destino.

   Affermare, infatti, come ancora si continua a fare, che i Sette contro Tebe sono un dramma fatalistico, significa esprimere un giudizio privo completamente di ogni fondamento.  Nel secondo stasimo del dramma il poeta racconta l'origine dei mali della casa di Edipo. Apprendiamo così che per tre volte Apollo aveva ammonito Laio a rinunciare ad avere un figlio per salvare il suo stato.  Non si tratta di una profezia, di un oracolo, ma di un vero e proprio ammonimento della divinità al quale Laio disubbidisce volontariamente mettendo in questo modo in pericolo la città.  Di qui la giusta punizione.  Ma Apollo non punisce solo Laio, condanna anche la sua stirpe.  Fa sì che la sciagura, trasmettendosi di padre in figlio fino ai nipoti, faccia estinguere in breve tempo tutta la generazione.

   Che Eschilo condanni i figli a scontare le colpe dei padri non vuol dire che li privi della propria libertà.  Eschilo crede fermamente nella libertà umana, solo ritiene che vi siano delle famiglie che sono gravate dalla maledizione divina.  La quale maledizione non impedisce tuttavia che l'uomo greco si senta artefice del proprio destino, libero di foggiare autonomamente la sua vita e di affermarsi di fronte agli eventi esterni, perfino di fronte alla morte.

   Afferma il Pohlenz (8): “la credenza nello spirito di maledizione imperante su una casa poteva sì suggerire l'idea che l'uomo ne venisse influenzato nel suo agire, ma un popolo che ignorava ancora totalmente il problema del libero arbitrio, non si lasciava turbare nella propria consapevolezza dell'autodeterminazione dell'uomo neppure dalla cooperazione del demone.  Mai nell' uomo greco è affiorato il pensiero di essere guidato come una marionetta nelle sue idee e nelle sue azioni, per mezzo di fili invisibili.

   Se i personaggi eschilei sono liberi di decidere, non è men vero tuttavia, che la bilancia finisce di solito col traboccare nel senso conforme al volere dei fati; la volontà degli dei finisce sempre col realizzarsi.  Sul piano teorico la contraddizione c'è e rimane. Il contrasto tra volontà degli dei e libertà dell'uomo è inevitabile se noi continuiamo a porre la questione in termini nettamente antitetici: la responsabilità è dell'uomo o della divinità?  Lo stesso Perrotta (9) alla fine della seconda parte del suo esame delle tragedie eschilee fa notare la dicotomia quando afferma: “del libero arbitrio umano il poeta non dubita mai: egli sa che gli dei sono potenti, eppure non riduce mai gli uomini a semplici strumenti del loro volere.  Neppure l'eredità delle colpe, nella quale Eschilo crede, interrompe veramente la libertà umana.  Come poi l'onnipotenza divina e la libertà umana possano coesistere e conciliarsi, il poeta non si domanda". Ma subito aggiunge: "egli, come un credente comune dei nostri giorni, può accettare l'una o l'altra senza scoprirvi una contraddizione".  Nel momento stesso, cioè, in cui il problema è posto, è anche risolto.  Se Eschilo non scopre contraddizioni, non si preoccupa di conciliare le due alternative, è perché queste per lui non esistono.  Per lui la capacità dell'uomo di autodeterminarsi e la responsabilità che gliene deriva non s'annullano per l'intervento di potenze divine e demoniche. I suoi personaggi sono responsabili delle proprie azioni anche se vi è stata nel compimento di esse la cooperazione della divinità.

   La quale, si badi bene, non agisce mai per capriccio o, peggio, per invidia, ma sempre per punire una colpa.  Una colpa commessa, è ovvio, liberamente.

   Eschilo infatti è stato definito il poeta di diche, di una superiore giustizia divina che va soddisfatta interamente e senza eccezioni, sempre.  Una volta che l'immo si sia macchiato di liybris, che, cioè, abbia tentato di infrangere l'ordine che regna sia nel mondo naturale che in quello spirituale e morale, ecco intervenire la divinità che inflessibile punisce la colpa non solo nel colpevole ma anche nei discendenti.

   Che questo sia giusto, per noi moderni, è difficile ammetterlo.  Per Eschilo era giusto. Né Oreste né Eteocle protestano mai contro l'ingiustizia della sorte.

   Questa concezione della giustizia consistente nel fare scontare la colpa anche alla stirpe di colui che si era macchiato di hybris, possiamo capirla se pensiamo a quanto abbiamo accennato più su, che cioè, Eschilo sentiva fortemente, come un greco del suo tempo, l'individuo come    membro indivisibile del ghenos cui apparteneva.  E' naturale che in base a questa credenza i meriti, il valore, la virtù del singolo siano anche meriti, valore, virtù della famiglia dalla quale proviene, come è giusto che la colpa del singolo diventi colpa dell'intera famiglia.  Perché, come afferma Plutarco nel De sera numinis vindicta  (Perì tòn  hypò tou theìou bradèos timoroumènon), "la stirpe è qualcosa di unitario, di connesso, aderente ad una fondamentale essenza, che è una e continua a far scaturire forze determinate e un tipo comune, naturalmente coerente. Il generato non è come un'opera d'arte compiuta, distaccato dal generante; infatti proviene da questo, non ne è opera, e quindi ha e porta in sé una parte del suo essere, che viene punita o onorata in forza di tale appartenenza ".

   Eteocle, quindi, è libero e responsabile nel compiere le proprie azioni dall'inizio alla fine del dramma.  Hanno torto quei critici (Wilamowitz, Reinhardt, ecc.) che vedono nel protagonista dei Sette due Eteocli diversi, due distinte individualità che sarebbero derivate ad Eschilo da due diverse tradizioni epiche e parlano di una dualità di Eteocle: di un Eteocle della prima metà della tragedia che mostrerebbe di credere al libero arbitrio e che si comporterebbe così come un buon generale, un buon re preoccupato solo della difesa della sua città, dei suoi sudditi, consapevole dell'importanza dell'aiuto degli dei, se invocati con supplici preghiere, ma anche e soprattutto fiducioso nel valore suo e dei suoi guerrieri; e di un Eteocle della seconda metà della tragedia, gravato dalla maledizione paterna, cieco di odio ed ebbro di sangue, desideroso solo di scagliarsi contro il fratello perché assillato dall'Erinni paterna, dal demone della sua stirpe.

   In realtà Eteocle è sempre lo stesso nella prima come nella seconda parte del dramma, coerente sempre con se stesso, ubbidiente sempre e soltanto a quello che è il suo concetto dell' onore e soprattutto del dovere: sacrificare tutto e tutti per la propria città, la salvezza della propria patria.

   La sua decisione di andare contro il fratello, dunque, è volontaria.  Alla sfida di Polinice Eteocle non può rifiutarsi; glielo impediscono il suo sentimento dell'onore e del dovere. Sottrarsi al duello sarebbe vergognosa vigliaccheria, odiosa per lui quanto e più dello stesso battersi col fratello.

   “Sopportare un male senza vergogna, sia!  Ma ad un male accompagnato dalla vergogna tu non darai un bel nome".  Al coro che lo esorta a non versare il sangue fraterno, ribatte con queste parole, mostrando così la irrevocabilità della decisione presa.

   Certamente egli sa bene che così facendo realizzerà la maledizione paterna; è consapevole che con quel duello compirà il destino della casa di Laio; ma non ha incertezze, non esitazioni, non ripensamenti, solo tristezza e dolore, per la sua stirpe, per il fratello, per se stesso costretto a prendere una decisione così atroce.

   In questo modo un destino di maledizione e di rovina accettato e trasformato in libera scelta, volontario sacrificio, diventa mezzo di salvezza di una intera città, e la morte che avrebbe dovuto essere espiazione di una colpa, diventa un atto di suprema areté.

 

 

Note:

 

1)   cfr.  C. Robert, Oidipus, Berlino, 1915, pagg. 110 e sg.

2)   cfr.  M. Delcourt, Oedipe où la légende du conquérant, Liège, 1944, pagg. 44 e sgg.

3)   cfr. O. Longo, L’Edipo Re, Firenze, 1970, pag. 7.

4) Scrissero drammi su Edipo moltissimi altri poeti tragici come Acheo, Carcino, Diogene, Filocle, Nicomaco, Meleto, Teodeto, Senocle, dei quali non solo non possediamo le opere ma non sappiamo nient'altro che il nome.

5) cfr.  M. Pohlenz, Die Griechische Tragodie, Gottingen, 1954.  Trad. italiana col titolo La tragedia greca, di M. Bellincioni, Brescia, 196 1, vol. 1, pag. 244.

6)    cfr.  M. Pohlenz, op. cit., vol.  II, pag. 102.

7) cfr.  G. Perrotta, Sofocle, Messina, 1935, pag. 639.

8) cfr.  M. Pohlenz, op. cit., vol. I, pag. 109.

9)    cfr.  G. Perrotta, I tragici greci, Messina, 1931, pag. 49.

 

 

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