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VISITA AL WORKSHOP DELLO SCULTORE PITTORE

GIOVANNI DI COSTANZO

   Il sole deve ancora percorrere un bell’arco di cielo prima di tramontare quando arriviamo (sono in compagnia di un amico). È pomeriggio avanzato ma fa ancora caldo. Tutt’intorno non si sente altro rumore che il rapidissimo e assordante mitragliare di un martello pneumatico. Dopo aver bussato inutilmente ci guardiamo contrariati. Poi un vicino si accorge di noi e si incarica di farci entrare. Ci apre il portone non senza approfittare dell’occasione per lamentarsi bonariamente del fastidio che provoca quel continuo martellare prolungato per ore e ore.

   In un ampio cortile, all’ombra di un fico, vestito in modo trasandato, da manovale edile, Giovanni Di Costanzo sta lavorando ad un blocco di granito. Accortosi di noi, ci fa con la testa un leggero cenno di saluto senza smettere di girare intorno alla pietra che sta sbozzando con quel suo scalpello automatico.

   Mi guardo intorno: in un angolo, allineati uno dietro l’altro, grossi basoli sembrano aspettare pazienti il loro turno. Poi fisso il mio sguardo sul blocco di granito cui Giovanni Di Costanzo, dimentico della nostra presenza, continua a lavorare.

   Ha già assunto aspetto e forme umane, ma ancora indistinte, indecifrabili. Capisco di che si tratta solo quando vedo su un ripiano il modellino in creta le sembianze, le forme, la vita e l’anima del quale dovranno essere trasfuse nella pietra. Perché tutte le sculture di Di Costanzo nascono così: prima plasmate nella creta e poi scolpite nella pietra.

   Due figure avvinghiate, avviluppate in un abbraccio spiraliforme quasi volessero compenetrarsi l’una nell’altra.

   “L’amore?” gli grido.

   Non mi risponde. Non ha sentito.

   Finalmente smette. Si toglie dei tappi di plastica dalle orecchie (“altrimenti diventerei sordo”, dice sorridendo), poi prende il modellino di creta per entrare in casa.

   Gli rifaccio la domanda: “È l’amore?” gli chiedo accennando al modello.

   “No. Madre e figlio” risponde, senza aggiungere altro.

   È avaro di parole di Costanzo: quello che ha da dire preferisce dirlo con lo scalpello e i pennelli. È schivo, riservato; però ascolta molto e con attenzione, anche il primo venuto che un minuto dopo aver visto le sue opere assuma atteggiamenti da critico ed emetta giudizi e sputi sentenze.

   Percorriamo un breve vialetto ai lati del quale ci sono moltissime statue. I soggetti in genere sono tratti dalla vita quotidiana: si tratta di animali domestici, gatti e cavalli in modo particolare, donne, uomini, popolani dai volti ritratti in una loro immobile  arcaica fissità, quasi ottusità starei per dire, teste dal ghigno maligno e beffardo somiglianti, per il taglio delle labbra e degli occhi, a mandorla, dalle orbite spesse e prominenti, a kuroi greci o turms etruschi anteriori al quinto secolo avanti Cristo. Per converso i cavalli, dai colli protesi, ma coi piedi fissi inchiodati per terra, suggeriscono invece un accostamento a uno scultore moderno, al Marini, quello delle varie redazioni del Cavallo e del Cavallo e cavaliere.

   Ma per quanto il modo di esprimersi e di interpretare la realtà a lui più congeniale sia quello plastico, volumetrico (plasmare la creta, scolpire la pietra, o anche, tentando tecniche e moduli creativi più moderni, realizzare sculture in cemento o in saldature di ferro, -molto bella e suggestiva quella intitolata Asceta che si trova al comune di Barano-), Giovanni Di Costanzo ama esprimersi anche per mezzo di tele e pennelli, linee e colori.

   Entriamo in casa. Il workshop pittorico è composto di due stanze di cui una sola è lo studio vero e proprio. Vi regna una ordinata confusione: ci sono quadri dappertutto: appesi alle pareti fin quasi sotto al soffitto, ammucchiati negli angoli, sistemati perfino nel bagno, che ha dovuto rinunciare alla sua funzione per assumere quella, senz’altro insolita, ma molto più nobile, di sui generis pinacoteca. Un angolo è riservato ai modellini in creta delle sculture che, firmati e datati, sono cotti e tutti conservati. Alla parete, dichiarazione esplicita dei gusti di Di Costanzo, fa bella mostra di sé una riproduzione di Guernica,  il capolavoro picassiano dipinto sotto l’emozione della guerra civile spagnola e lirica prefigurazione dei disastri della guerra.

   I quadri più che su tela sono dipinti su tavola. Qualcuno anche su vetro. (Uno è un autoritratto dalla malinconica espressione del quale l’autore ci dice che non si priverebbe neanche se glielo pagassero a peso d’oro).

   Autoritratti, nature morte, paesaggi ischitani costituiscono per la maggior parte il repertorio di Di Costanzo pittore.

   Nei primi, come è stato esattamente notato (Michele Longobardo) c’è una totale libertà d’espressione: si riprende in atteggiamenti stravaganti, malinconici, sornioni, talora allegri.

   Nelle nature morte, composizioni di umili oggetti casalinghi quali bottiglie, brocche, vasi di fiori, frutta, o anche più umili verdure come i carciofi, l’effetto nasce dall’accordo tonale che ordina e disciplina l’intensità delle note cromatiche.

   I paesaggi, siano essi tranquille marine o verdi campagne, spiagge assolate o paesetti dalle case multicolori, riproducono magnificamente l’intensità coloristica, la vivezza, la limpidità e lo splendore di analoghi paesaggi mediterranei cantati dai poeti greci e latini di più di venti secoli fa.

   Intanto che ammiriamo i quadri beviamo pure il vino, schietto e limpido come i cieli di alcuni suoi paesaggi, che Di Costanzo ci ha offerto.

   Poi è il momento di andar via. Siamo stati con lui più di quattro ore. Salutatici, usciamo.

   Sono d’accordo col mio amico quando afferma che oggi abbiamo visto molte cose interessanti ma soprattutto belle. Perché non le dimentichi dovrò scriverne qualcosa stasera stessa.

   Eccolo!

 

In: Ischia Oggi, Anno X, n. 2, 25 feb. – 24 marzo 1979.

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