800: QUESTIONE MERIDIONALE

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Problematiche meridionali nell' Italia post-unitaria

- Problemi d’istruzione

Una delle cause dell’arretratezza del Sud, era l’analfabetismo: ma la mancanza d’istruzione era comune a tutta l’Italia. Nel 1861, su 25.000.000 di abitanti solo 600.000, cioè il 2% della popolazione, sapevano Insegnamentoparlare italiano. Gli altri usavano il dialetto della loro regione. Vi erano inoltre piccoli gruppi, numerosi soprattutto nell’Italia meridionale, che parlavano altre lingue, dall’albanese al greco: questi gruppi provenienti dalla penisola balcanica o da altre regioni d’Europa avevano infatti conservato per secoli la loro lingua perché si trattava di comunità contadine chiuse. Lo studio dell’italiano era privilegio di una minoranza benestante che aveva la possibilità di frequentare i migliori collegi. Infatti la situazione linguistica dell’Italia appena unificata rappresentava perfettamente le profonde differenze che nel corso dei secoli si erano create non solo tra regione e regione, ma anche tra le diverse classi sociali. Tutti gli stati italiani del periodo che va dalla Restaurazione, che iniziò nel 1815, alla proclamazione del Regno d’Italia, nessun governo aveva proclamato per legge l’obbligo di andare a scuola, almeno per imparare a leggere e a scrivere. Le scuole statali erano poche e mal organizzate: nel Ducato di Parma, era sufficiente conoscere l’ortografia per essere nominati maestri; nel Regno di Napoli si ammetteva che, in caso di necessità, le classi venissero affidate a maestre analfabete. I governi preferivano dare contributi agli ordini religiosi (in primo logo ai gesuiti) perché si occupassero dell’istruzione a tutti i livelli. Ma l’istruzione elementare per i figli del popolo era comunque considerata una forma di beneficenza. La frequentazione della scuola da parte dei bambini delle classi popolari era una rara eccezione. Diversa era la situazione dei figli di famiglie abbienti: educati in casa da un maestro privato fino a una certa età, potevano in seguito proseguire gli studi in collegi religiosi a pagamento e, talvolta, all’università, anch’essa gestita in generale da religiosi. Alla proclamazione del Regno d’Italia gli analfabeti fossero mediamente l’80% della popolazione, anche se con un divario profondo tra Nord (57%) e Sud (in Basilicata 91%). Persino alcuni consiglieri comunali firmavano con la croce; i sacerdoti in chiesa traducevano il Vangelo in dialetto, i negozianti e i proprietari non sapevano tenere i registri contabili. Per quanto riguarda la religione, gli italiani professavano quasi tutta la religione cattolica. Gli atri credi religiosi avevano sempre costituito una minoranza andata assottigliandosi anche in seguito alle persecuzioni religiose: i valdesi, che avevano aderito alla Riforma protestante, erano riusciti a sopravvivere solo in alcune vallate del Piemonte; gli ebrei erano poco più di 35.000.

Oltre al dialetto, alcuni italiani sapevano parlare la lingua letteraria, quella cioè usata dagli scrittori e basata sul dialetto toscano. Coloro che la utilizzavano abitualmente erano pochi: solo il 2,4% degli italiani e, escludendo la Toscana, la percentuale scendeva allo 0,5%. La divisione in tanti stati, lo scarso sviluppo economico, la mancanza di un’istruzione obbligatoria in tutte le regioni, tra cui tutta l’Italia meridionale, non avevano consentito la diffusione di una lingua comune. Mentre in Francia e in Inghilterra le lingue nazionali erano da secoli parlate da tutte le persone istruite e comprese dalla larga maggioranza della popolazione, in Italia il dialetto era usato, in quasi tutte le occasioni in cui occorreva comunicare oralmente, anche dalle persone istruite. D’altronde le persone istruite erano ben poche: nel 1861 su 23 milioni di abitanti, circa 17 erano analfabeti, con un sensibile divario tra Nord e Sud.

bambini analfabeti

Dopo l’unità, la lingua italiana cominciò ad essere compresa in tutte le regioni. Il servizio militare univa per cinque anni giovani di regioni diverse, costringendoli ad abbandonare il dialetto e ad utilizzare la lingua comune; l’istruzione gratuita e obbligatoria per almeno due anni, permise ad un maggior numero di bambini di apprendere la lingua italiana e l’unità politica favorì la diffusione tra le persone istruite di giornali scritti in italiano. Ancora all’inizio del Novecento, però, la larga maggioranza degli italiani parlava abitualmente in dialetto e molti continuavano a non conoscere l’italiano. Infatti, nonostante l’obbligo scolastico, non tutti i bambini andavano a scuola regolarmente: in particolare nelle zone di montagna e nel Sud, dove mancavano addirittura i locali da adibire a scuole e gli insegnanti, molti bambini andavano a scuola solo per brevi periodi, perché impegnati ad aiutare i genitori nei lavori dei campi. Perciò la differenza del livello di istruzione tra Nord e Sud, non si ridusse, ma anzi si aggravò: all’inizio del Novecento gli analfabeti erano il 60% nel Sud, il 15% nelle tre regioni industrializzate del Nord (Lombardia, Liguria, Piemonte).l’unica lingua insegnata fu l’italiano: questo favorì la scomparsa o almeno la progressiva riduzione delle minoranze linguistiche. La maggioranza degli italiani viveva in piccoli centri o in case isolate: le città, pur avendo una lunga tradizione storica, non avevano avuto negli ultimi secoli un grande sviluppo, a parte le capitali. Solo Milano e poche altre città italiane erano verso il 1860 importanti centri di vita economica. Le atre città di grandi dimensioni erano soprattutto centri amministrativi, cioè sedi di uffici dello stato. Dal 1861 al 1914 vi fu un forte aumento demografico nel sud, e più ancora nel Nord, dove le città si trasformavano in centri industriali. Le zone di alta montagna e quelle più povere, vennero abbandonate da un numero sempre maggiore di emigranti.

- L’emigrazione

Tra i più gravi problemi dell’Italia post – unitaria dobbiamo ricordare l’emigrazione. Si trattò, di un fenomeno che coinvolse tutta l’Europa, dalla quale nel secolo scorso, partirono ben trenta milioni di emigrato persone, i due terzi delle quali, si stabilirono nei paesi extraeuropei definitivamente, trattenuti da possibilità di lavoro e da condizioni di vita che nei loro Paesi erano inimmaginabili. Perché l’emigrazione è un grave problema? Innanzitutto perché per una nazione il non sapere offrire ai suoi cittadini i mezzi per un’esistenza civile è sinonimo di sconfitta; poi perché chi lascia le sue abitudini e il suo modo di vivere, per affrontarne un altro diverso, paga un prezzo altissimo. Per quanto riguarda l’Italia, l’emigrazione temporanea, era un fenomeno antico, dovuto allo squilibrio tra la popolazione sovrabbondante e le risorse limitate dell’economia. Fu soprattutto un’emigrazione stagionale di carpentieri, scalpellini, muratori, verso la Francia, la Svizzera, la Germania. Si formarono in quei Paesi nuclei consistenti di emigranti stabili. L’unità d’Italia coincise con un forte incremento demografico, che interessò tutta l’Europa. L’accrescimento della popolazione significava sovrabbondanza di braccia, soprattutto nel nostro paese, dove l’unica attività diffusa era l’agricoltura, e soprattutto nel Sud, dove anche l’agricoltura si trovava in condizioni arretrate. Oltre a queste cause, stimolavano l’emigrazione anche la volontà di sottrarsi allo sfruttamento dei padroni e la graduale diffusione di bisogni meno elementari.

emigrazione

Il flusso migratorio europeo era diretto principalmente verso l’America: il rapido processo di industrializzazione degli U.S.A. e la colonizzazione di vastissimi territori del Canada, Argentina, Brasile, costituirono anche per gli italiani una forte spinta a raggiungere questi Paesi. Alla fine del XIX secolo, in Argentina, il 47% della popolazione era di origine italiana. Nei primi anni dopo l’unità, partirono dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto anche lavoratori specializzati; più tardi fu soprattutto il Sud più povero ad allontanare i suoi abitanti, che non riusciva a sfamare. Nel 1876 emigrarono dall’Italia verso l’America 100.000 persone; nel 1888, 200.000; nel 1900, 350.000. Questo incremento vertiginoso, fu dovuto alla grave crisi economica generale del paese alla fine del secolo; ma anche il fatto che gli emigranti chiamavano a sé le famiglie e i compaesani allettandoli con le notizie del loro benessere. La vita oltreoceano era tutt’altro che rosea. Negli Stati Uniti, dove il fenomeno dell’immigrazione era antico, leggi severe rendevano drammatico l’inserimento. Gli U.S.A. respingevano donne senza marito e bambini soli, mendicanti, ammalati, Handicappati, persone con più di 50 anni. Entrare negli Stati Uniti, era facile solo per gli uomini adulti e sani, i quali venivano assunti nelle imprese costruttrici di linee ferroviarie come sterratori, o nelle miniere, oppure come manovali per i lavoratori più umili, mal pagati, o pericolosi, che gli Americani rifiutavano.

Ma le tradizioni italiane non vennero perse del tutto, anzi gli italiani fuori dalla patria, formarono comunità italiane che conservano i modi di parlare, di vestire, di mangiare, di comportarsi del paese d’origine. Succede anche che presso le comunità di emigrati le tradizioni si conservino più a lungo di quanto non avvenga in Italia. È famoso per esempio un grande quartiere di New York che prese il nome di “ Little Italy ”: tutti i negozi erano italiani, e nelle numerose pizzerie si sentivano musiche diLittle Italy mandolini e canzoni napoletane. Molto vivo era il senso della famiglia e della piccola comunità d’origine, mentre spesso si verificavano rivalità e litigi tra gli italiani provenienti da regioni diverse. Con molte difficoltà, gli emigranti riuscivano a risparmiare del denaro che mandavano in Italia per mantenere le loro famiglie: si trattava delle rimesse che per decenni costituirono una grande risorsa del nostro paese. Interi villaggi, specialmente nel Sud, vivevano del denaro che giungeva dall’America. Talvolta tornava dall’America un emigrante che si era arricchito, si comprava un negozio in paese e sistemava la sua famiglia. Le comunità italiane in America, come in altre parti del mondo, hanno continuato ad ingrandirsi nel nostro secolo, e oggi gli emigranti d’origine italiana, sparsi in tutto il modo, sono più numerosi dei residenti nella madrepatria.

Le grandi difficoltà incontrate dagli emigranti fecero nascere anche fenomeni negativi e nuove forme di delinquenza. I poveri contadini, accettavano facilmente le promesse di chi assicurava di difenderli e di trovare loro un lavoro. Ma queste promesse provenivano da un’organizzazione segreta fuorilegge, denominata Mano Nera che era presto sorta per opera di immigrati di origine siciliani: essi si proponevano di fronteggiare la concorrenza di altri immigrati, come irlandesi, greci, serbi, i quali a loro volta erano organizzati in analoghe società segrete. Per accaparrarsi certi settori dell’attività economica (commercio della frutta) gli scontri tra bande erano frequenti. Gli immigrati italiani, erano protetti dall’organizzazione, ma in cambio dovevano pagare un contributo, che non era elevato per i poveri, ma un diventava altissimo per chi avesse fatto fortuna. Per chi si rifiutava di pagare, la morte era assicurata. Con il tempo, la Mano Nera, si dedicò ad attività delinquenziali sempre più lucrative, come assalti alle banche o traffici illeciti. Solo agli inizi del XX secolo l’organizzazione cadde sotto il controllo della mafia siciliana, e da allora divenne un’organizzazione criminale internazionale sempre più temibile.

 

 

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