800: QUESTIONE MERIDIONALE

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Problematiche meridionali nell' Italia post-unitaria

- L’unificazione d’Italia

A Palermo il 4 aprile 1860 era scoppiata un’insurrezione popolare organizzata da patrioti mazziniani, che avrebbe dovuto fornire l’occasione per un’azione armata di ampia dimensione: il suo fallimento (costato la condanna a morte di tredici capi) non spense le attese, anzi, vari focolai insurrezionali si diffusero nelle campagne dell’isola. L’otto aprile Garibaldi accettò l’invito rivoltogli dai patrioti siciliani FrancescoFrancesco Crispi Crispi e Nino Bixio di muovere verso l’isola con una spedizione di volontari: i Mille. Salpati da Quarto, vicino a Genova (6 maggio 1860) su due piroscafi (il “Piemonte” e il “Lombardo”), dopo una sosta a Talamone per rifornirsi di armi i Mille sbarcarono a Marsala. Garibaldi sbarcato a Marsala, in Sicilia (11 maggio 1860), trovò terreno già preparato. Rinforzato da volontari locali e con l’appoggio popolare, l’esercito garibaldino sconfisse le truppe borboniche a Calatafimi (15 maggio 1860) e, alla fine del mese, liberò Palermo. Nel mese di giugno Garibaldi emanò un decreto che concedeva ai patrioti siciliani quote di beni demaniali, mentre Cavour inviò il rappresentante del governo sardo Giuseppe La Farina perché preparasse l’annessione della Sicilia al Piemonte. Nello stesso mese, nel tentativo estremo di salvare la corona, a Napoli il re Francesco II rimise in vigore la Costituzione che era stata concessa nel 1848; decretò l’amnistia per i prigionieri politici e aprì trattative con il regno sardo. Il 21 luglio, sconfitti i borbonici a Milazzo, Garibaldi aveva il controllo di tutta l’isola. Il generale istituì un governo provvisorio che prese importanti provvedimenti a favore dei contadini (sgravi fiscali, assegnazioni di terre ai combattenti), ottenendo in tal modo ambio consenso fra la popolazione. Tuttavia Garibaldi represse anche con durezza, alcune violente rivolte contadine contro i proprietari e i notabili, volendo mantenere l’ordine nell’isola e conservare le simpatie dei moderati. Così accadde, per esempio, a Bronte (come racconta la novella di Verga), un paese del catanese dove il generale garibaldino Nino Bixio soffocò nel sangue la rivolta popolare. Liberata la Sicilia, l’impresa dei mille proseguì vittoriosamente in Calabria e in Campania: il 7 settembre 1860 Garibaldi entrò in Napoli. La liberazione di Napoli, non significò la caduta dello stato borbonico, in quanto Francesco II, aveva conservato un nucleo dell’esercito (circa 50.000 soldati), che si era attestato sul Volturno e che si trovò di fronte i 25.000 uomini schierati da Garibaldi. La battaglia del Volturno (1-2 ottobre) segnò la sconfitta definitiva dell’esercito borbonico e il ritiro del re nelle fortezze di Capua e Gaeta.

Italia Al Nord vi era il Regno di Sardegna, allargato con i plebisciti a Lombardia, Toscana, Emilia. Al Centro, restava lo Stato pontificio, protetto da un contingente militare francese. Al Sud vi era il governo di Garibaldi, assunto in nome del sovrano piemontese ma caratterizzato da una forte presenza di elementi democratici repubblicani. Cavour temeva che la situazione si sviluppasse in senso democratico e repubblicano e che Garibaldi, puntando verso Roma come Mazzini voleva, suscitasse l’intervento dei sovrani europei. Si aprì perciò un duro scontro politico tra Cavour e Garibaldi, che giunse a rifiutare l’annessione della Sicilia allo stato sabaudo. Cavour agì allora con decisione: ottenuto l’assenso dall’Inghilterra e dalla Francia, inviò un esercito nello Stato pontificio; sconfisse le truppe del Papa a Castelfidardo (18 settembre 1860) occupò le Marche e l’Umbria (senza naturalmente coinvolgere Roma). Di qui puntò su Napoli: Garibaldi non volendo giungere ad una guerra con Vittorio Emanuele, cedette. Tra ottobre e novembre votarono l’annessione al Regno di Sardegna. Il 26 ottobre, nell’incontro a Teano, Garibaldi terminò la sua impresa consegnando il potere al re piemontese. Il 17 marzo del 1861 il parlamento nazionale acclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia. Per completare l’unificazione mancavano però ancora il Veneto e Roma.

Nel 1886, quando scoppiò la guerra tra la Prussia e l’Austria, l’Italia si alleò con la Prussia con la promessa che, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Veneto. In questa guerra, chiamata terza guerra d’indipendenza, l’Italia venne sconfitta militarmente sia per terra, a Custoza, sia per mare, a Lissa. Solo i volontari di Garibaldi vinsero a Bazzecca. L’Italia comunque approfittò della vittoria della Prussia e ottenne il Veneto, anche se in modo umiliante: l’Austria, infatti, lo consegnò a Napoleone III che lo “passò” al Regno d’Italia. Restava ancora aperta la questione romana, cioè il problema dello stato pontificio a Roma e nel Lazio. Cavour aveva progettato di risolvere la questione facendo rinunciare alla chiesa i suoi domini territoriali e continuando a svolgere liberamente la sua funzione religiosa e spirituale. Ma papa Pio IX rifiutò ogni trattativa con l’Italia; sostenuto dalla Francia: Napoleone III, infatti, voleva recuperare il consenso dei cattolici francesi e insieme continuare ad avere in capitolo nelle questioni italiane. Nel 1864 Pio IX pubblicò il Sillabo, un documento in cui si condannavano non solo le idee democratiche e socialiste, ma anche quelle liberali, e si rifiutava il principio cavouriano dell’autonomia dello stato della chiesa. Garibaldi tentò due volte di risolvere la questione romana con i suoi volontari: nel 1862 venne fermato e ferito in Aspromonte dall’esercito italiano che voleva impedire un conflitto con la Francia; nel 1867 fu sconfitto a Mentana dalle truppe francesi. Anche il governo italiano però si venne progressivamente orientando per una soluzione di forza, che, divenne possibile dopo la caduta di Napoleone III: nel 1870 un reggimento di bersaglieri entrò a Roma attraverso Porta Pia.
La capitale, che da Torino passò a Firenze (1865), venne trasferita a Roma: ma la questione romana era ben lontana dall’essere risolta. Il governo italiano approvò una serie di norme, la cosiddetta Legge delle guarentigie, destinate a regolare i rapporti fra stato e chiesa: si dava garanzia alla chiesa di poter svolgere autonomamente la propria funzione religiosa e si garantiva l’inviolabilità della Città del Vaticano. Pio IX respinse queste norme, che giudicava unilaterali e quindi inaccettabili, dichiarandosi prigioniero dello stato italiano e vietando ai cattolici qualsiasi partecipazione alla vita politica. Una nuova grave frattura, quella fra laici e cattolici, si apriva nel paese da poco unificato.

Il nuovo stato aveva davanti a sé gravi problemi amministrativi, economici e sociali. Innanzitutto, mancava un sistema di leggi unico: ognuno dei diversi territori che componevano l’Italia unificata e che prima appartenevano a diversi Stati aveva il proprio sistema amministrativo le proprie leggi. La nuova legge, uguale per tutti, diventò allora quella dello stato piemontese. Essa, però, era molto avanzata per le popolazioni meridionali, abituate a decenni di malgoverno e arretrata per la Lombardia e la Toscana. Era necessario quindi scrivere un corpo di leggi che fosse adeguato alla nuova realtà.


Problemi Sociali

Il governo, abolì le diverse dogane regionali e le sostituì con la tariffa doganale dello Stato Sabaudo. Era una scelta imposta dalla situazione, ma danneggiò le produzioni dei territori più arretrati, specialmente quelli meridionali. I prodotti meridionali, infatti, non furono in grado di reggere la concorrenza con quelli provenienti dall’estero. L’Italia, inoltre, non aveva una rete ferroviaria adeguata: si operò subito per realizzarla. Questo aggravò il bilancio statale già in cattivo stato e costrinse ad imporre nuove tasse, che colpirono soprattutto i ceti più poveri. L’Italia era governata dai rappresentanti dell’aristocrazia terriera e della borghesia terriera o industriale. Essi salvaguardavano i propri interessi a danno di quelli delle classi sociali più povere, che non potevano eleggere i propri rappresentanti. Le terre demaniali e i possedimenti ecclesiastici, promessi da Garibaldi ai contadini, finirono nelle mani della borghesia. La massa dei braccianti agricoli si vide pertanto tradita e per più oppressa da tasse crescenti. Un esempio: la tassa sul macinato decisa nel 1868; questa tassa fu imposta sul pane e sui cereali, base dell’alimentazione dei più poveri.

Morto Cavour, il parlamento italiano si trovò diviso in Destra e Sinistra. I due schieramenti non erano veri e propri partiti, bensì raggruppamenti che esprimevano diversi orientamenti politici. La loro base sociale ed economica era assai simile: entrambi gli schieramenti rappresentavano i proprietari terrieri e la borghesia delle fabbriche e dei commerci. Operai e contadini, invece, non potevano ancora votare e quindi non erano rappresentati in parlamento.

Gli uomini della Destra (definita Destra Storica), governarono l’Italia dal 1861 fino al 1876, con onestà e con grande dedizione per l’interesse pubblico. Fecero però una politica fortemente conservatrice, caratterizzata da un programma che poteva essere riassunto nei seguenti punti:
• Completamento dell’unificazione, con l’annessione dei territori italiani mancanti.
• Accentramento di tutte le funzioni amministrative dello Stato,da realizzare con l’istituzione dei prefetti nelle città più importanti e la designazione dei sindaci da parte del re.
• Approvazione in tempi rapidi di un nuovo codice di leggi, uguale per tutti.
• Politica economica basata sui princìpi del liberismo, quindi garanzia di massima libertà di iniziativa per gli imprenditori, senza interventi da parte dello stato.
• Forte aumento delle tasse sui consumi.
• Lotta contro i movimenti anarchici e socialisti, anche con il ricorso alla repressione armata.

Il programma della Destra fu contrastato dalla Sinistra, definita Sinistra costituzionale per distinguerla dell’estrema Sinistra repubblicana. Il programma politico della Sinistra, socialmente più avanzato, proponeva:
• Istituzione del suffragio universale maschile.
• Riduzione delle imposte indirette che colpivano soprattutto i poveri, perché applicate ai generi alimentari e di prima necessità.
• L’aumento delle imposte dirette, applicate al reddito e quindi proporzionali alla ricchezza.
• L’allargamento del sistema scolastico e il decentramento amministrativo, cioè la concessione di autonomia a comuni, province e regioni.

 

 

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