Rerum Naturae Exillandschaften Il colore Viola della natura Artriti
Fare spazio dal tempo Immerita laudatio D'aure pestifere


Rerum naturae
sull'opera di Luigi Viola 1973-1986

I

Norwid, una traccia biografica, un cenno dal quale far emergere un'esistenza possibile.
Un sogno è Norwid, poeta di cui si descrivono le lentissime abitudini, il reclinare del capo all'incedere della luce. Da quella finestra socchiusa, da quella fessura.

Indistinti corpi di cose, perché lo sguardo trema nello splendore che dirompe una silenziosa oscurità. Una finestra può essere pensata come la sommità
luminosa di un pozzo.
Al fondo del pozzo, Norwid, con le mani tende all'alto confine, ne sfiora i bordi, quasi accarezzando la chiarità di un corpo. "Come sei silenziosa ed inquietante Maria,
tu memoria del mondo immenso, che emergi ora e ti mostri, ti irradi
come febbre e fuoco nel sogno di Norwid" (Viola).

II

Risale al 1979-80 l'ultima performance di Luigi Viola, ispirata a Cyprian Kamil Norwid (1821-1883), poeta polacco del periodo post-romantico, quasi sconosciuto, che visse a Parigi in un isolamento totale cui lo relegava la sua lontananza dal gusto contemporaneo.
Dei suoi ultimi giorni, trascorsi all'ospizio polacco di S.Casimiro, Viola ricostruisce l'ipnotico vedere, con una tensione partecipativa che rende indistinguibile sapere quando sia Norwid a scrutare la stanza, e quando sia invece Viola ad incantarsi
per i monogrammi di luce registrati dal suo mezzo fotografico.

III

Che sia difficile, nell'operare artistico, dire dove inizia l'Io del poietés, è limpida consapevolezza dell'artista veneziano.
Si rivada alla breve presentazione del video Who is Luigi Viola? del 1976, dove l'autore definiva gli scambi di identità con alcune persone riprese nel tape un " ... gioco,
un sogno forse? ", e alla domanda "Ma chi è Luigi Viola?" rispondeva rifrangendosi nella molteplicità di cose ed atti e persone che lo circondavano. Egli è " l'uomo che prega, o quello che si rade la barba, quello che beve, o la ragazza che gioca a ping-pong? ".
Così in Norwid ciò che la soggettività del poietés attesta è una particolare condizione aperta dell' umano esperire, recepente quello che solo apparentemente si dà come alterità. L'omoíosis con il respiro di un'altra vita (quella del visionario di S.Casimiro)
rivela l'origine misterica e pitagorica del processo di assimilazione, ove l'anima
"entro di sé " accoglie l'állos mediante "epodé, (incantagione) e psicagoghía (evocazione delle anime) " (Untersteiner).

IV

Durante la piéce, tenuta al Centro UH! di Genova, Viola, seduto a terra, reggeva fra le mani una lastra di cristallo di forma circolare, illuminata da sotto e lateralmente da piccoli spots. Alle spalle del performer si formavano aree brevi di luce, intensi aloni, quasi nubi a decorare il vuoto della parete. Performance, Il sogno di Norwid, dunque un'actio che sottolinea la dimensione corporalmente attiva della poíesis. La performance come comprensione del profondo valore della kínesis, intesa qui nelle sue valenze produttive, di oper/azione che investe direttamente l'artista. Della kínesis è arché, la Physis, afferma Aristotele. Dobbiamo intendere il concetto di Physis non come una categoria sussumente una vastità altra da noi, ma come ciò che ci investe in prima persona, come ciò che incessantemente ci gioca.
Il performer esibendo non un'opera, ma esibendosi quale opera in atto, presentifica quella Physis, principio generativo, che non lasciando spazio alla mediatezza della rappresentazione, diviene accadimento im/mediato.

V

Scriveva Rossana Apicella nel 1973 riferendosi ai primi lavori performativi di Viola (Renaissance, In quibus membris corporis humani sacra religio): "... la gestualità (azione dello scrivere) si traduce in segno alfabetico, elemento verbale che diviene esplicativo e complementare di un elemento visivo (il corpo umano), ma questo corpo ha una movimentazione, una azione mimica, una dinamica di ininterrotta kínesis:
alla primitiva singlossia della Poesia Visiva (incrocio di elementi idosemantici e fonosemantici) si aggiunge un terzo strumento di discorso: il corpo vivente, nella sua motilità, nella sua dimensione cinetica". Viola animava l'alfabeto tracciandone le lettere su alcune parti del corpo. Così che in movimento l'alfabeto si modificasse, assumendo le diverse figurazioni che il corpo nel suo agire imprimeva. Idosemantica cinesi, scritta sulla superficie del sóma, sull'involucro epidermico. Un alfabeto affiorante, che muta con il mutare delle posture. Un alfabeto senza alcuna valenza rappresentativa, che non concede perciò alcun chorismós.
Incarnazione dei verba.

VI

("Pulchrum - secondo Erich Przywara, teologo e filosofo -, deriva dal greco polychroon. Polychroon esprime il poly della chróa, cioè la tessitura molteplice della pelle, la carne, il corpo, al modo in cui ciò viene esperito soprattutto nel contatto").

VII

In Video as no video del 1977-78, una telecamera riprendeva frontalmente una seconda telecamera per tutta la durata, circa tre minuti, del videotape. Viola, a mo' di introduzione, premetteva che la staticità assoluta che contraddistingueva il lavoro, cioè, "l'assenza di un'azione nel video non significava la sua negazione, al contrario, quanto minore spazio è concesso al movimento dell'immagine, tanto più largo è il movimento dell'immaginario".
Già in Voyage. Il viaggio come pretesto d'una ricerca all'interno della propria coscienza del 1976, Viola esprimeva l'ambivalenza del percorso accostando sincronicamente le modalità di svolgimento di un viaggio fra Venezia e Torino.
Con una descrizione che ricorda la secchezza analitica di un enunciato matematico,
( dati: un mezzo di locomozione - il treno -, una persona e i limiti del percorso - le due stazioni -, punti relati "nello spazio e nel tempo", quanti sono i possibili viaggi?).
Le fotografie e la registrazione magnetica che accompagnavano il lavoro descrivono
" in termini reali e quindi di verità oggettiva" la corsa di un treno e di alcuni passeggeri.
Al contempo però l'aspetto performativo del viaggio, rivela l'altro possibile percorrimento del tragitto fra due punti limite nello spazio e nel tempo.
Quello cioè, di "Alice attraverso il finestrino-specchio", un viaggio ove "cresce l'avventura e matura la scoperta".
Il "vissuto reale" disvela la sua "simbolicità vivente", l'actio imaginalis che lo attraversa.
Solo con la consapevolezza di questo duplice aspetto del viatico è forse possibile reintegrarsi "nella totalità dell'esperienza" (Viola).

VIII

Un doppio movimento dunque, di cui, paradigmaticamente, possiamo individuare le polarità nell'alfabeto, elemento statico, animato e trasformato dal corpo in azione
(In quibus membris corporis humani sacra religio), e nella telecamera, strumento che dovrebbe descrivere, seguendo, l'azione, inquadrata invece nella sua assoluta immobilità, (Video as no video). La rinuncia al movimento sappiamo però non dover essere intesa come negazione dell'azione ma, al contrario, come garanzia di poter agire per l'immaginario. Nessuna negazione insomma di quell'elemento cinetico che sostanzia
i lavori di Viola (la sua dichiarata e mai venuta meno attenzione per il mosso), ma condizione per un ulteriore approfondimento. Un tentativo in Video as no video di descensus lungo il pozzo oscuro dell'obiettivo della telecamera per tentare di toccare "l'anima dello strumento" (Viola).

IX

Norwid contempla l'omphalós di cristallo illuminato che regge fra le mani, ma non può vedere le immagini che la luce crea e modifica incessantemente sulla parete alle sue spalle. Norwid non vede l'accadere luminoso di cui egli è parte attiva (le sue mani che reggono il cristallo, il suo corpo leggermente inclinato,
lo sguardo che segue i microeventi di luce sulla trasparente superficie).
Egli è performer, incluso, partecipante all'evenire dell'actio.

X

"Theorós - dice H.G.Gadamer - ... è colui che prende parte ad una delegazione
inviata a una festa.
Chi partecipa a una delegazione di questo genere non ha altra qualificazione e funzione che di assistervi.
Il theorós è dunque lo spettatore nel senso autentico della parola, che prende parte agli atti della festa attraverso il fatto di assistervi e per ciò stesso acquista una qualificazione e dei diritti sacrali ..."
Ancora: "assistere significa, invece, partecipare" ed "essere spettatore è dunque un modo autentico di partecipare".
Si noti, dall'actio corporalis all'actio imaginalis in Viola.
Ma così come non vi è in questo passaggio caduta o negazione di azione, così diviene comprensibile l'assistere quale forma autentica di partecipazione.
M. Heidegger, limpidamente nel saggio Scienza e meditazione, afferma che per i Greci
si qualificava "un modo di vita (bíos) ... in base al theoreîn".
Ed era definito bíos theoretikós "il modo di vivere di colui che contempla, che guarda
in direzione del puro apparire delle cose presenti ". Da ciò si differenziava il bíos practikós, cioè la modalità dell'esistenza che implica essenzialmente l'agire.
Però, pur rimarcando tale differenza "... va tenuta costantemente presente una cosa:
per i Greci, il bíos theoretikós, la vita contemplativa, specialmente nella sua forma
più pura, è il supremo agire".

XI

Ora è fermo Norwid, guarda le immagini che il cristallo-pozzo, omphalós ed áxon fra le profondità ctonie e il cielo dello sguardo, ha prodotto. Egli non agisce, ha sospeso il suo movimento, non è più performer, per lasciar spazio (spatium, che, ricorda Heidegger, significa intervallo) all'actio del contemplare. Nel 1981-82 Viola presenta alla Galleria del Cavallino di Venezia e Unimedia di Genova, una serie di lavori dichiaratamente pittorici, nei quali l'origine fotografica (la ripresa delle macchie luminose prodotte sulla parete nella performance Il sogno di Norwid) è ormai difficilmente identificabile, data la sovrapposizione dei pigmenti colorati distribuiti con l'air-brush.

Viola si emancipa da quel medium a cui molto deve per il suo lavoro negli anni '70, senza però cedere ad alcuna post-concettuale ricusazione. (E come potrebbe, del resto, avendo il mezzo stesso registrato ciò che Norwid non poteva vedere; perché è quel mezzo, trascrittore di luminose grafie, a concedere a Norwid la sua integrità di theorós, partecipante e contemplante). Così vengono mostrati al pubblico i Fuochi in laguna e le visioni di una terra slabbrata dalla luce, di un'isola persa fra dorate acque generatrici: Paesaggio fantastico di Torcello.

XII

La performance Il sogno di Norwid, costituisce quel cardine, quella soglia attraverso la quale avviene il passaggio dalla fase di ascendenza fredda, concettuale, ad una fase più intensamente pittorica che contraddistingue il lavoro di Viola negli anni '80. Non vi è alcun rappel a l'ordre in questa scelta, soltanto un trascorrere per interna coerenza, da un medium ad un altro, senza che ciò sfoci in alcuna preclusione verso gli strumenti ieri usati; si vedano in proposito le dichiarazioni dell'artista riguardo un suo nuovo interessamento al video. Si avverte la convinzione in Viola che non tanto il mezzo in sè stesso, ma la necessità di ciò che con quel mezzo viene espresso sia sola, possibile dichiarazione di rigore poietico.

XIII

Noi stessi, medesimi a Norwid, incantati da luminosa vertigine, affacciati alla riva, guardiamo l'acqua, il sole sulla sua superficie. Le polimorfie dorate che si formano e sfanno continuamente. Si può riconoscere un volto in un'area dalle mobili geometrie, quando pensieri senza peso vengono vicini. Vi sono acque calme, che riposano fra conchiusi recinti di terra, canne, qualche albero. Acque dai fremiti brevi, l'emergere di un pesce, l'involo di un uccello. (Simboli del canto orfico, elementi della motilità cosmica nei regni turchini). Il lento espandersi delle onde circolari, come un lievissimo canto, una sillaba santa. Le acque interne della laguna, il vento che plasma la loro tersa epidermide.

XIV

Quest' acqua apparentemente immobile, subisce però una costante alterazione, come un respiro: la marea solleva, gonfia il corpo irregolare compreso fra margini terrestri, ne tende la superficie. A scansioni sempre uguali, ritmate, la marea, vastissimo pneúma, altera la calma delle acque, rivela la tensione sottocute che le pervade. Nessuna acqua, nemmeno quella quieta degli specchi interni della laguna ristà immobile. Ogni acqua è eraclitea, generatrice. Madre polimorfa dai molteplici parti, vaso, fons et origo, del possibile evenire. "Acqua, tu sei la fonte di tutte le cose e di ogni possibile esistenza" (Bhavisyottarapurna).

XV

Nel 1983-84 compiendo un deciso passo innanzi verso quell' immagine statica, luogo dell'actio imaginalis, Viola presenta una serie di grandi tele, ad olio ed acrilico:
le Maree.
La particolarità di questi lavori che richiamano la policroma e cangiante superficie di un'acqua biomorfa sfiorata dal sole, è di costituirsi come frammenti di un fluire che non ha in realtà alcuna soluzione.
I quadri, campi di un accadimento, sono circoscritti témenoi per lo sguardo contemplante una cosmogonica cinesi.
Non vi sono forme riconoscibili nelle Maree, (e questo comunque non comporta un esito astratto del lavoro), perchè ciò che avviene in queste superfici prepara, predispone l'ordito delle cose nasciture.
Le macchie sono elementi di un'organicità proliferante ed antichissima. "Principio dell'indifferenziato e del virtuale, fondamento di ogni manifestazione cosmica, ricettacolo di tutti i germi, le acque simboleggiano la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme, e alle quali tornano, per regressione o cataclisma.
Le acque furono al principio e tornano alla fine di ogni ciclo storico o cosmico; esisteranno sempre, però mai sole, perché le acque sono sempre germinative, e racchiudono nella loro unità indivisa le virtualità di tutte le forme.
Nella cosmogonia, nel mito, nel rituale, nell'iconografia, le Acque svolgono la stessa funzione, quale che sia la struttura dei complessi culturali entro cui si trovano: precedono ogni forma e sostengono ogni creazione" (Eliade).

XVI

Come le spugne di Yves Klein, autore al quale per molti versi (ad esempio la declinazione di un aspetto profondamente lirico della concettualità) si può accostare Viola, come le spugne del maestro del Nouveau Realisme, organismi assorbenti ciò che li circonda (trasparenti metafore dell'attività dell'artista, Porifero atto a ricevere qualsiasi cosa convenga alla trasformazione poietica), così le macchie biomorfe del veneziano.
Se Klein ripercorre un nuovo esito empedocleo dell'ordinamento elementare del cosmo, così Viola ad una Cosmogonie de la pluie può accostare l'azzurro profondo, l' "oro psichico" di una sua Marea.

XVII

"Non si sogna presso l'acqua senza formulare una dialettica del riflesso e della profondità.
E' come se dal fondo acquatico un'oscura materia salisse ad alimentare il riflesso.
Il limo è l'evento che rende l'acqua specchiante" (Bachelard).
Guardiamo una Marea, sulla pelle monocroma dell'acqua navigano sospese delle chiazze, delle macchie.
La materia che le compone è scura, densa, un affioramento del fondo acquatico.
Residui di microrganismi, ricettacoli di alghe, spore, diatomee.
Un'animazione non distinguibile di organici minimalia. E l'oro sull'oscurità limacciosa di queste emersioni risplende altissimo. Incoronamento, diadema, Sol Invictus che riscalda, che accompagna il lento vagare sull'acqua della vita prima.
"Come tutto è nuovo in un'acqua mattinale! Quale intensa vitalità deve possedere questo fiume-camaleonte per rispondere con tanta prontezza al caleidoscopio delle prime luci del giorno" (Bachelard).

XVIII

Del periodo concettuale, della sua atmosfera analitica, le Maree conservano la rigorosa serialità degli elementi che le costituiscono. Le macchie, disegnate con cura, quasi affioranti dal fondo ottenuto frequentemente con variazioni tonali di un' unica tinta, l'uso volutamente ricorrente dell'oro a coronamento del lavoro. Pochi elementi, una procedura minimalista che costituisce l'analitica, progettata costruzione di una sontuosa epidermide. Così il risultato, altamente lirico, di questi lavori che, con Crispolti, potremmo definire ipnografici, è in realtà sostenuto da una dichiarata organizzazione di pochi segni costitutivi.

XIX

Anche l'oro delle Maree è una di quelle tracce che rendono leggibile la coerenza del percorso di Viola. Lungamente preparato è esito di un'attenzione, di una cura, che l'artista veneziano ha sempre rivolto all'aperto apparire delle cose, al loro manifestarsi nella, o grazie alla, luce.
Si rivedano le finestre semiaperte nei lavori fotografici descriventi La camera di Norwid, o la serie di Immagini nelle quali brani del reale (piccoli cortili, ancora una finestra, delle piante, oggetti dimenticati fra l'erba), emergono da una soffusa oscurità, rischiarata appena da resti luminosi violacei, verdastri, ceneri di lontane deflagrazioni.
O le nubi, le folate di vento di "oro psichico" (la cui polvere dorata viene distribuita sul supporto con eleganti movimenti del pennello, mantenimento qui, nell'actio pingendi, di una irriducibile, per la poetica dell'autore, cinesi) che ornano il manto scuro della notte circondando un astro "quasi da luminaria" (Crispolti) nella serie dedicate alla Stella.
O, ancora, nei particolarissimi lavori fotografici chiamati Centri mistici, gli aloni azzurri e gialli che sembrano emanare da piccoli, comuni fiori, nei quali, con trasparente trasposizione su un piano simbolico, potremmo riconoscere dei Mandala.
Dunque una profonda tematica della luce percorre la produzione di Viola.
Luce pensata come condizione necessaria di quella meraviglia (tháuma) causata dall'imprevedibile irruzione delle cose, dal loro stupefacente giungere alla presenza. Perchè ciò che si manifesta è posto sotto l'egida di Phánes, il Risplendente, e di Pháos, la Luce, da cui il nome della cosa che appare phainómenon,
e del libero vagare del pensiero dell'uomo, phantasía.
Luce, comunque, non da pensarsi solo come un mezzo attraverso cui le cose si mostrano, cioè, aristotelicamente come diapháneia, ma anche e soprattutto, riferendosi ai lavori succitati, come proprietà interna dei corpi stessi. Depositari di una lux intima,
seme di una lux aeterna, scintilla di vita animante le creature.
E' questa luce che emerge, quale coniugazione della luce interiore che sale e della luce superna che pervade il mondo, facendo risplendere le epidermidi e dilatando i confini fisici dei corpi.
Non è senza significato, e Viola autore delle Maree ne è del tutto consapevole, che metafore esplicative dell' 'aura', "radicate nel fondo dell' "anima", siano
" la brezza e ... l'alone luminoso " (Zolla).
L'oro non può essere allora che l'evidenza iconografica di una poetica della luce lungamente elaborata nel corso della sua produzione.
Dalla fotografia, che dobbiamo intendere nel suo senso letterale di scrittura di luce,
all' "oro psichico" che circonda il sidereo luccicare di una Stella, fino al dorato bagliore del Sole che si specchia nelle acque ancestrali della Marea.

XX

Il mio regno
Solo potrei nell'eterno
dare realtà a quest'ansia
della bellezza completa.

Nell'eterno, dove non
ci fosse un suono o una luce
nè un sapore che dicessero
basta all'ala della vita.

(Dove il duplice mio fiume
del vivere e del sognare
variasse azzurro e oro).

J.R.Jimenez

Riccardo Caldura
Venezia, 1988, Kirchanschöring, 15 Giugno 1993
Il presente testo, col titolo di Sogni, Maree : note intorno all'opera di Luigi Viola, risale al 1988.
E' stato pubblicato nel 1993.


Exillandschaften
sull'opera di Luigi Viola 1980-1993

Nel lavoro di Luigi Viola si è andata precisando fin dagli anni Settanta una graduale transizione dalla poesia alla pittura per mezzo di varie esperienze che hanno toccato la poesia visiva, la performance, le installazioni, la videoarte e la fotografia. L'intento precipuo dell'artista è stato quello di allargare al massimo le possibilità espressive e linguistiche delle arti visive per cogliere gli aspetti più imponderabili della propria esperienza vissuta. La combinazione di vari media è sempre stata per Viola funzionale ad un allargamento dell'immagine dalla poesia alla pittura per un più intenso coinvolgimento emotivo e fantastico, dove le stesse suggestioni poetiche della parola approdano attraverso i diversi media alla pittura, mantenendone tuttavia - cosa piuttosto rara - il fascino iniziale e la propria autonomia espressiva. L'esercizio della memoria personale e l'attenzione per il proprio modo di sentire e di vedere, sono stati per Viola quasi i fondamenti di una strategia di distanziamento da un immaginario preconfezionato, cioè di falsificazione mass-mediale dell'immagine del mondo, credendo invece alla singolarità dell'esperienza soggettiva come momento centrale e quanto mai significativo dell'attività artistica. L'iniziale formazione classico-umanistica di Viola ha certamente alimentato la sua pittura, trovando, come abbiamo visto, un importante retroterra nella poesia: più precisamente una poesia che da parola (o immagine verbale) si fa immagine pittorica, segnando così il passaggio ad una autentica scrittura pittorica. Né sarebbe stata diversamente pensabile la tendenza neo-romantica che si è delineata nel lavoro dell'artista alla fine degli anni Settanta - in maniera esplicita e con qualche anticipazione rispetto ad altri artisti che hanno compiuto analoghe opzioni - senza incorrere in regressioni sempre in agguato, segnando invece un momento di crescita. Tre performances e installazioni indiziano per l'appunto la transizione di Viola dalla poesia alla pittura: Alice (1976-78), la serie dal Sogno di Norwid (1978-79) e Archetipi della notte (1980). Già nel 1980 si precisa in modo compiuto il passaggio dell'artista alla pittura: si veda il viraggio su tela Notturno con la luna a Mazzorbo (ovale, cm 60x38) cui seguono numerosi dipinti che sviluppano alcuni temi ricorrenti come le Albe, gli Archetipi della notte, i Cuori, le Finestre, le Stelle, iniziati in una fase di elaborazione molto ricca per Viola tra il 1980-81 e il 1983. Sono temi che riconducono ad aspetti del vissuto personale dell'artista, filtrati da una memoria distanziatrice, emotivamente legata ad un'estasi temporale dilatata fino all'assolutezza contemplativa dell'identificazione tra sè e il mondo. Ogni possibile drammatizzazione in queste opere di Viola viene riassorbita da un'attitudine lirica ed estatica che trova la sua misura nell'interiorizzazione dell'esperienza: l'artista attinge ad un proprio fondo che costella le emozioni in immagini colte nel loro farsi, cosicchè la pittura diventa uno strumento sensibile ai complessi accadimenti interiori.

Il fatto che la fotografia stia all'inizio del processo creativo di Viola - cogliendo quanto accade davanti ai suoi occhi - non infirma l'opzione volutamente soggettiva della pittura dell'artista, anzi essa costituisce la premessa ad una più flessibile manipolabilità dell'immagine, al fine di ritornare sulle cose per distanziarsene decisamente, usata come una pura traccia mnestica sulla quale lavorare prima che intervenga la sua cancellazione. Si potrebbe dire che il fotogramma serve a Viola per dimenticare la fattualità del dato e concentrarsi invece sull'amplificazione emozionale dell'esperienza. Ne viene una particolare ricchezza di assonanze interiori che solo l'immagine pittorica può decantare e rivelare. La pittura diventa per l'artista una sorta di sismografo sensibile al perpetuo farsi e disfarsi dell'immagine. Per quanto varie siano le strategie tecniche e linguistiche della pittura di Viola - come abbiamo notato di acendenza multimediale - si tratta pur sempre di un'accorta costruzione dell'immagine modellata su stimoli liminari rispetto alle percezioni coscienti dell'artista. In altri termini: un lungo cammino come una sorta di esercizio di 'sintonizzazione' con le risonanze di una eco interiore. La pittura non ne può costituire l'immagine speculare, ma l'autentica amplificazione, cioè la messa in opera, che diventa inevitabilmente altro da sè, un'esteriorizzazione che ha una propria pienezza evocativa, che va al di là delle scelte che ne hanno guidato il cammino. I Fuochi in laguna (1983-84) rappresentano un momento particolarmente alto di questa fase della pittura di Viola, come la serie complementare delle Maree, che non per caso si sviluppa contemporaneamente. Nelle Maree abbiamo le immagini nitide e distese delle acque lagunari di Venezia, ora specchianti, ora increspate consentendo agli aurei baluginii solari di rinfrangersi come puri riverberi di una luce metafisica. Le maree estendono e contraggono illimitate superfici acquee, lasciando intravvedere i bassi fondali alghiformi con i residui di sostanze inquinanti e i piccoli arcipelaghi delle barene lagunari, quando sprofondano nell'alta marea. Ma tra la profondità e la superficie solo la trasparenza riporta alla bidimensionalità del dipinto e rende incommensurabile la differenza tra l'una e l'altra, al punto che tutto è affidato al colore e alla sottigliezza dei trapassi cromatici, come uno sprofondamento nella rifrazione acquea della luce. Dopo questi dipinti Luigi Viola, pur avendo raggiunto una notevole compiutezza nella formulazione dell'immagine e nella perizia pittorica, non si attarda a replicare indefinitamente, giocando sulle varianti, un'esperienza riuscita, ma va invece spostando i suoi interessi, affrontando nuove questioni.

Da una natura interiorizzata che trova la sua intensificazione emotiva nell'immagine pittorica a un'idea di paesaggio come "sentimento complesso di appartenenza al mondo" e di "radicamento nella terra" (Viola) c'è sostanziale continuità nel lavoro dell'artista. Ma l'accentuazione non è più di ordine sottilmente psicologico, legata a rêveries attive, spostandosi piuttosto su una considerazione più attenta agli squarci dell'esperienza direttamente riconducibile alla natura "come contesto ambiguo" e complesso: un radicamento che rinvia alla opposta e complementare polarità dell'esilio. L'esilio come irreparabile perdita di una originaria idea di totalità e "tormentoso desiderio di rinascita" (Viola) che conduce al rischio mortale della rigenerazione.

Dalle opere più recenti di Viola è rilevabile una tensione verso quegli aspetti difficilmente afferrabili del nostro radicamento nella natura, che presenta carattere di oggettività e tuttavia risulta sfuggente, sia che lo si indaghi con una qualche metodologia scientifica, sia che diventi il tema della ricerca artistica. In entrambi i casi c'è un distacco che porta piuttosto nella posizione dell'esilio, ma il distanziamento dell'artista rivela pur sempre il sentimento di colui che sa di far parte di un insieme più vasto che lo include, una matrice emozionale che in Viola viene decantata nel cogliere una delle tante trame della natura naturata, intrecciando aspetti concettuali e cognitivi di una complessità che non si lascia ricomporre facilmente, ma resta inestricabilmente connessa all'immagine pittorica, tanto da costituirne in molti casi il tema effettivo. Si tratta delle opere più felici dell'artista. Certo, non tutto il processo è visualizzabile; vi sono aspetti non visibili, non mostrabili, che stanno al di qua e al di là della pittura: il pensiero che tenta di rifondarla la pone come momento essenziale della concettualizzazione che deve farsi immagine. Ma poi l'immagine può essere un momento di rimessa in questione delle assunzioni che ne stanno alla base, non tanto come esito dell'operazione artistica ma come un passaggio che sollecita lo sviluppo del pensiero sull'arte. Intorno al 1990 Viola elabora una serie di Aree di natura protetta: fitti intrecci di fili d'erba fotograficamente pre-levati da una porzione di prato per mostrare la trama di un ordine che è, come in ogni insieme disordinato, imprevedibile, quindi intelligentemente ripreso piuttosto che costruito. Lavorare pittoricamente su questa rilevazione, xerograficamente semplificata, è altra cosa dal momento particolare fissato dall'obiettivo (si direbbe dopo l'ultimo soffio di vento):
è estendere la percezione di un attimo, fermata dal cangiare dei singoli fili d'erba, portandola a un certo grado d'astrazione. La luce segna una sorta di grafismo ripetuto assai più vario di quanto la mano umana non possa fare attraverso automatismi più o meno calibrati. L'artista interviene poi con l'acquarello, quasi simulando un viraggio, attribuendo profondità e sericità ad una immagine pellicolare. In una di queste immagini (Area di natura protetta, 1990, laserxerox e acquarello, cm. 31x45) il rosso utilizzato in un'ampia gamma dall'arancio al vermiglio, alla lacca di garanza, si direbbe che recuperi
- in termini pittorici - l'improponibile naturalità verde nell'artificiosità del complementare rosso.

In un'altra Area di natura protetta (1990, laserxerox e acquarello, cm. 33x43) fili d'erba e foglie secche di un intenso blu violaceo hanno lo splendore notturno proprio alla calante luminosità dell'imbrunire. L'aureo intreccio di una terza Area di natura protetta (1990, laserxerox e acquarello, cm. 33,5x43,5) presenta un'ostensione di orditure circolari che simulano perfettamente una trama complessa graficamente costruita, rilevando i vari piani dell'intreccio, dal massimo di luminosità all'oscurità del fondo, che poi è quella stessa terra da cui germoglia anche la più semplice vita vegetale. Ed in esemplare continuità troviamo altre due Aree di natura protetta completamente aride, in cui la superficie screpolata suggerisce siccità, sterilità e totale mancanza di vita.

Ma è interessante vedere come nelle successive opere dallo stesso titolo la natura fotografata finisca gradatamente per simulare la pittura e la pittura a sua volta possa simulare l'ordine imprevedibile della natura, in un tentativo di penetrante identificazione, sicchè l'artista fa quasi coincidere la variabilità fenomenica del vedere con l'elaborazione immaginativa della visione. Tale processo culmina in un'opera su carta in sedici comparti rettangolari rinserrati da una cornice in ferro che nel medesimo tempo li delimita frammentandoli e li chiude in un insieme unico (Area di natura protetta, 1992, pastelli su laserxerox e ferro, cm 140x 180, riprodotta in: Punti cardinali dell'arte, catalogo della XLV Biennale Internazionale d'Arte di Venezia, Marsilio, 1993, pag. 1001).

La natura risulta qui protetta dallo sguardo del pittore, ma diventa contemporaneamente altra cosa: un'idea dell'essente che l'artista ci mostra. Detto altrimenti: uno squarcio di natura che dapprima appare de-totalizzato dall'insieme più vasto (non-visibile) che lo include, ma dove tale de-totalizzazione a sua volta, nel farsi immagine, non può che rinviare alla totalità di cui è parte. E in questo caso si tratta di una parte che sta perfettamente a sé, poiché, non si dà idea dell'essente nella sua individualità senza un'immanente totalità che è dentro l'immmagine e, quindi, nel caso in esame non può essere al di là dell'opera. La stessa suddivisione in sedici comparti di un'immagine complessiva rende evidente tale circolarità Attraverso successive Aree di natura protetta, sempre del 1990, da un prelievo dapprima fotografico, al riporto e al viraggio xerografico, va prevalendo sempre più l'elaborazione pittorica mediante l'uso della vernis noir e, come in precedenti esperienze, Viola va disancorandosi dallo spunto fotografico, elaborando una serie di dipinti interamente costruiti con mezzi pittorici. In un'Area di natura protetta (1990, laserxerox e vernis noir, cm. 33x33) i fili d'erba appaiono disseccati non per effetto dell'immagine xerografica, ma per una cromia ramata, verdognola e violacea che ne dissolve la grafia luminosa, muovendo verso una notturna indistinzione.

Da siffatto processo vengono le Morte nature, quasi il rinsecchito residuo di rigogliose fioriture. Si consideri ad esempio il Trittico del 1991 (olio su tela, ferro, cm.120x197) con le oblique e saettanti lingue di fuoco baluginanti in un fondo di tenebra e i residui bruciati e disseccati di combustioni vegetali, dove il calore del dipinto a tre ante si contrappone alla corniciatura metallica di ciascun riquadro, che divide e rinserra interrompendone la continuità, raffreddando l'andamento dinamico del dipinto improntato alla diagonale ascendente. Trasparenza e opacità, materialità e immaterialità sono messe in un gioco di alternanze e rovesciamenti indefinitamente sospesi, eppure legati a ciò che cade sotto il nostro sguardo quando si costituisce un autentico processo di visione del mondo. In un dipinto dello stesso anno (Morta natura, olio su tela, ferro, cm.115x115) la trama delle pennellate segue lo stesso andamento diagonale, ma l'immagine pellicolare elaborata dall'artista ha la parvenza di una superficie molto mossa, quasi fosse variamente rigonfia e incavata dalle pieghe del quadro. L'immagine mantiene una notevole trasparenza pur nella tendenziale monocromia di un viola apparentabile al rosso magenta, che nasce da una ricca gamma di cromie luminose, più o meno sature, sviluppando una trama smagliata da alcuni risucchi più scuri. L'immmagine pellicolare sembra sospendere lo scorrimento di una superficie magmatica, quasi lavica, come se l'elaborazione pittorica si approssimasse ad una ripresa col video di una colata vulcanica che non si ferma mai, mentre tuttavia nell'immagine pittorica tutto ciò resta invece fissato e perfettamente inscritto nel quadrato dinamico del dipinto. Ma questa trasparenza viene meno in dipinti che accentuano la componente oscura, per sottrazione di luce, come in un'altra Morta natura (1993, olio su tela, legno dipinto, cm.90x120) dove regna un forte contrasto tra luce e ombra, pittoricamente rappresentato dal giallo e dal blu, che non possono amalgamarsi, ma generano una dinamica oppositiva che non si compone affatto, dispiegandosi entro una trama stridente che diventa l'elaborata immagine pittorica di uno scontro.

La tematica procede nell'artista con altre Morte nature (come ad esempio quella del 1991, olio su tela, ferro, cm.115x115 part two) ove l'immagine sprofonda in un'insondabile oscurità, che presenta pochi riverberi di luminescenze ultraviolette le quali percorrono meteoricamente il dipinto, come frammenti di una luce che si spegne e muore. I Paesaggi dell'esilio (Exillandschaften) attraversano un territorio ulteriore: quello di una natura negata all'artista, come agli altri uomini, ed impossibile alleata, dove vige la caduta di continuità tra il nostro esistere e il radicamento in essa, che ancora i dipinti che abbiamo appena visto testimoniavano, sia pure esclusivamente come impossibile sentimento di quel radicamento. Ricompaiono i materiali freddi a cominciare dai due trittici Exillandschaft del 1991 (ferro, rame, patina, bitume, cm.125x197), partiti ognuno in tre superfici di rame trattate con carta abrasiva, in modo che i sottilissimi solchi verticali rifrangano la luce ambientale in maniera disomogenea, mentre tre partizioni rettangolari interne ad ogni superficie, dipinte in bitume o patinate in azzurrino siano sorde ad ogni riverbero luminoso. I due trittici si giovano di una tecnologia che è nitida e precisa ed insieme trattata in modo volutamente imperfetto. I dipinti risucchiano l'immagine, non la restituiscono più e quasi la suprematizzano nei termini del linguaggio pittorico attuale.

Un ulteriore passaggio è in due Exillandschaft (l'uno del 1991, fibre di carbonio, kevrak, rame, cm.300x200; l'altro del 1992, fibre di vetro, kevrak, rame, cm. 200x180, Venezia, Fondazione Scientifica Querini Stampalia): teleri divisi esattamente a metà nel senso verticale da due tessuti dalla fattura assai composita, le cui textures sono ordite da fili verticali e orizzontali molto diversi per sostanza e colore, regolarmente disposti a costituire una mini-struttura ripetibile all'infinito. Nelle due opere c'è uno scarto molto forte tra percezione ravvicinata e quella a distanza. Il minimalismo di questi due lavori corrisponde ad un percorso dell'artista che va dalla ricerca dei materiali di fattura industriale, la cui complessità è esibita in tutta la loro predisposta artificiosità, fino al dimensionamento in opere che attuano precise condizioni estetiche, ove lo spazio non implode ma diventa riconoscibile. La complessità delle premesse dell'artista e l'estrema semplicità dell'effetto prodotto coincidono allora con l'assolutezza dell'opera.

Da questo punto estremo, per riprendere il cammino di Viola, dobbiamo tornare su alcune sperimentazioni precedenti e precisamente a tre Morte nature del 1990, che rielaborano la ripresa fotografica dall'alto di una porzione di prato, ricca di diverse pianticelle, ottenendo, mediante viraggi di colore al laser, tinte solo approssimativamente definibili come naturali (1990, laserxerox, rame e vernis noir, cm.30x42), e pervenendo in altri due passaggi a colori puramente artificiali (1990, lasexerox, rame, bitume, cm.30x42). Il processo sottolinea una più generale tendenza dell'artista del nostro tempo a vedere attraverso le potenzialità offerte dai mezzi meccanici ed elettronici, costruendo un'immagine che sradica completamente ogni nesso sia con la cosa sia con la datità della cosa fotografata. Di qui all'assunzione della totale artificiosità del prodotto industriale il passo è breve. Viola, infatti, in cinque opere intitolate Exillandschaft (tutte del 1991, in lamé intelato, ferro, cm. 115x115) , riprende stoffe di lamé, dai disegni stilizzati con colori particolarmente intensi, e le dispone sopra la tela come se la pelle del dipinto fosse effettivamente il prezioso disegno stampato in lamé, con le sue iridescenze e le sue raffinatissime irregolarità perfettamente riproducibili in serie. L'artista ha trovato questi scampoli di stoffa nei luoghi più impensati (e persino nei mercatini di consumo di massa) ma il loro uso consueto è tale da renderli irriconoscibili - nessun dejà vu, quindi - nel loro trasmigrare da un vestito alla pelle della pittura: così Viola invita a vederli per la prima volta. Passiamo dal primo dipinto, dalle forme sinuose di foglie e fiori stilizzate, cromaticamente organizzate a fascie verticali, ai fiori dai sottilissimi petali (margherite?) stampati in turchese o in un rosso tra il vermiglio e il cinese, fino ad un'opera che simula perfettamente la tissularità di una pittura astratta del trentennio trascorso, simile a un'aggregazione molecolare, di grande freschezza pittorica.

In maniera affine Viola elabora nel 1990 le quattro Costellazioni d'autunno, d'inverno, di primavera e d'estate, consegnando ogni effetto notturno a un velluto grigio scuro o nero come nella Costellazione d'inverno (velluto, filo d'argento, legno dipinto, cm. 100x144), dove troviamo ricamate le stelle col filo d'argento, composte secondo un rapporto instabile tra ordine e disordine: la forma stessa che la complessità può assumere nel precario costituirsi dell'opera, senza infirmarne la singolarità e l'eventuale assolutezza. Tre opere intitolate Exillandschaft mit Blumen del 1992 (impermeabile, rame, ricamo, cm. 180x120) riprendono la bipartizione verticale delle due opere del 1991 più sopra commentate, unendo due tele impermeabili le cui tinte hanno componenti non facilmente definibili, ma contrastanti, perseguendo in una linea fredda di elaborazione dell'immagine, rigorosamente predisposta per un effetto di distanziamento rispetto al riguardante. La compensazione tra la parte destra dei tre teleri, bluastra o violacea, e la parte sinistra di una tonalità chiara beige o madreperla, viene attuata dall'artista attraverso l'esecuzione di una più piccola campitura rettangolare contenente un ramoscello di fiori desumibile da tappezzerie dal gusto moderatamente kitsch, preciso richiamo a un naturalismo domestico affatto artificioso. Natura esiliata, spaesata quasi dall'immagine familiare di un accostamento insperato e insieme richiamo a un raggelato sentimentalismo, tuttavia perfettamente composto e risolto entro la misura dell'immagine, completata e opportunamente isolata da una lineare corniciatura in rame. La secchezza di queste più recenti formulazioni (le tre opere descritte sono esposte nella mostra Insulae & Insulae attualmente in corso a Venezia a Ca' Giustinian, patrocinata dalla XLV Esposizione Biennale Internazionale d'Arte) è per l'artista l'approdo di un ritrovato artificio nel quale l'Exillandschaft è anche il risultato di un lungo confronto ideativo ed esecutivo con i più diversi materiali, dimostrando che la naturalità della terra e del mondo sono intravvedibili e sono mostrabili soltanto attraverso il nostro esilio, mediante appunto il più rigoroso artificio. L'artista mette in gioco la sua stessa insularità, che talora può essere anche un tentativo di eccepirsi dal mondo, per ritrovare assonanze inattese entro quell'oceano che nutre e attornia ogni insula come ogni sua opera.

Giorgio Nonveiller
1993


Il colore viola della natura

Un semplice rovesciamento di posizione tra aggettivo e sostantivo tramuta la "natura morta" da genere artistico, tipico dell'arte moderna, in figura emblematica della nostra cultura postmoderna: "morta natura" è titolo che definisce un numero cospicuo di opere recenti di Luigi Viola. Nell'ambito di questa serie, dedicata al tema delle irreversibili mutazioni avvenute nel nostro tempo, un'opera mi pare assolutamente fondamentale, Area di natura protetta.
Cercherò di dimostrare come essa sia pertinente alla cultura attuale e come essa sia, soprattutto, significativa dell'intera produzione dell'artista.
L'eterogenea e complessa ricerca di Luigi Viola comprende esperienze fotografiche, videdo arte, performance, installazioni, body - art, "pura" pittura, contaminazione tra pittura e fotografia, uso minimalista di materiali tecnologici, poesia visiva, scrittura critica.
Non prenderò in esame questo insieme di avventure, la cui analisi è stata puntualmente affrontata, con grande acutezza, da alcuni dei suoi ultimi interpreti, da Massimo Donà, a proposito del suo coinvolgimento nella recente mostra alla Biennale di Venezia (Insulae. L'arte dell'esilio), da Giorgio Nonveiller e da Riccardo Caldura, ma mi limiterò, come ho detto, ad alcune osservazioni particolari, inerenti al rapporto tra l'artista e il nostro tempo, cercando di confutare alcuni luoghi comuni, che potrebbero portare ad una lettura totalmente pessimistica del momento che stiamo attraversando, certamente difficile per le arti, ma non per questo meno energetico e propulsivo.

L'opera che ho indicato, Area di natura protetta, si presta, per l'appunto, ad aprire alcune osservazioni, che ci permettano di dimostrare come l'artista riesca a cogliere e a rappresentare alcuni paradossi della nostra epoca, caratterizzata da una cultura di tipo spettacolare, fondata essenzialmente sulle immagini, ma incapace di ridare a tali immagini nè una valenza provocatoria e critica nè, tantomeno, una cifra enigmatica.
Se dovessimo scegliere un colore per la nostra epoca, indicherei il rosa, una pallida degradazione del rosso, rosa che è il colore della superficialità e della pelle; colore dello spettacolo e del maquillage, del trucco e del decoro.
Ma, non a caso, un colore inesistente nella tavolozza odierna dell'arte, che ha compreso che la sua sopravvivenza, o almeno una delle sue possibilità, è strettamente legata ad una scelta dura e coraggiosa, che va nella direzione di produrre nuovamente sostanza di riflessione e di enigmaticità all'interno di un mondo ormai saturo di immagini estetiche e di comportamenti anestetizzati.
E' dunque impossibile trovare questo colore nelle opere di Viola, il quale predilige opposte lunghezze d'onda, nella banda che va verso i raggi X : verso cioè quell'energia che permette di di attraversare la pelle delle cose e di far vedere l'interno, il celato, il profondo.
Metafora, per l'appunto, di una possibile funzione dell'arte.

Area di natura protetta consiste, dunque, in un'immagine fotografica, riproducente una superficie erbosa: l'opera è suddivisa in sedici quadranti, ognuno dei quali è autonomamente incorniciato in una pesante intelaiatura di ferro, che il tempo progressivamente ossiderà, fino a farle assumere un colore molto simile a quello dell'immagine, un viraggio cromatico tendente al bruno rugginoso.
Impossibile stabilire a quale stagione appartengano questi fili d'erba: la natura è stata colta nella sua sostanza perennemente peritura, al di là della sua superficie cromaticamente illusiva e felice.
Questa cornice, che lentamente tramuterà il suo aspetto inorganico, metallico e lucente in una sorta di sostanza organica, opaca e scabrosa, diventa così elemento essenziale dell'opera: confondendosi gradualmente con il colore dell'immagine, è destinata a confondere sempre più il bordo che separa l'opera dell'arte dalla realtà in mutazione, da questa natura non più innocente.

L'opera va ricomposta a terra, componendo a piacere i tasselli di un puzzle che non ammette soluzione: nessuna rappresentazione è più possibile, irreversibile è la freccia del tempo, che non ammette che il disordine possa produrre di nuovo quell'ordine che è stato spezzato.
I frammenti raccolti e ricomposti possono solo alludere, dire, ma non più rappresentare.
Opera tuttavia frattalica, che in ognuno dei suoi frammenti rivela l'insieme. In ognuno dei quadri tutto il mondo è alluso nel suo caos. Nessun elemento è isola, ognuno rimanda all'infinità dei possibili.
Niente, in questo mondo, in questa cultura, è isolato e isolabile, neppure l'arte, neppure l'artista, dalla rete della complessità di cui fa parte e a cui sempre rimanda.

"Morta natura" è dunque davvero la prima rappresentazione possibile di una "natura morta", di una natura vista nella sua morte non naturale, ma filosofica. La natura è oggi per la prima volta salva, salvata proprio dal suo contrario, salvata dalla sua tecnologia. l'odierna metamorfosi tecnologica della natura deride ogni residuo romanticismo goethiano.

Natura è solo un insieme di frammenti, di parchi, tra loro collegati e ricomposti da processi strutturali di spettacolarizzazione, che conquistano per la prima volta il pianeta nella sua interezza, superando quei luoghi comuni che fino ad ieri volevano contrapposte natura e industria, natura e città: nessuna nostalgia, se non nei programmi dei tour operators, dei luoghi incontaminati, di una geografia dell'avventura e del viaggio di scoperta.
La scomparsa di culture umane e di specie animali e vegetali è solo ora in qualche modo risolta: nello spettacolo. Comparse che recitano la loro scomparsa attuano fino in fondo il processo di irreversibile tecnologizzazione della vita e del mondo e attestano l'avvenuta mutazione.
Non sarebbe altrimenti pensabile la realtà incontrastata del paesaggio, lento ma inesorabile, dell'uomo dall'era biologica all'era tecnologica, che già comincia a ridimensionare la nostra vita.
In questa accezione; e non in quella riduttiva dell'uso di macchine virtuali, il senso della progressiva artificializzazione della realtà. Da questo punto l'avvio della vera ecologia della mente.

L'opera, sopra citata di Viola, è dunque pertinente al nostro discorso. Opera che mette in forma l'artificialità del mondo e della natura attraverso un procedimento doppiamente simulativo e, quindi, cortocircuitasnte: finge insieme l'immagine naturale e quella pittorica, mettendo a nudo il processo che proietta l'artificio nell'arte e l'arte nell'artificio. Mettendo, dunque, a nudo il trucco.
Qui certamente, come spesso ho scritto, la resistenza dell'arte all'artificio. Qui davvero la vera ultima lotta. Una lotta che non è più diretta, come nell'arte moderna, verso il mondo, per anteporvi quello dell'immaginazione e della fantasia, ma verso questa globale artificializzazione del mondo trasformato in immagini e dominato da una esteticità diffusa, che deve essere in qualche modo oscurata, "contraddetta".
Riportare l'oscurità nel mondo, trovare rifugio da questo eccesso di luce e di trasparenza: questo è il nuovo compito. Riacquistare la cecità. Rovesciare gli occhi all'interno.

Comprendo la fatale attrazione dei sentieri interrotti, la mortale metafora delle isole e la romantica nostalgia dell'esilio.
Ma nessuna di queste figure invera l'opera dopo l'epoca della modernità, nell'attuale cultura della simulazione e dell'artificiale.
Nessun sentiero si perde nell'immagine postmoderna della natura, nessun luogo è incomunicante, nessuna patria richiama. Nessuna patria per il mutante: la trasformazione dell'uomo in protesi della macchina informatica costruisce uno spazio senza terra, una infografia senza confini. Geografia delle immagini. Morfologia dell'immateriale.
Siamo tutti equidistanti dal nulla, dal nessun luogo. Legati dallo stesso destino, comunichiamo l'un l'altro attraverso una serie di protesi, dic legami elettronici, di fili invisibili, che ci impediscono di isolarci e di perderci: di naufragare.

L'esilio è impossibile in una società che ha sostituito l'informazione telematica e la virtualità alla comunicazione diretta, verbale, fisica, tra gli uomini; siamo in ogni luogo, pur non possedendo alcun luogo.
L'utopia del moderno si è trasformata nell'atopia del contemporaneo: doppio gioco di parole, proprio nel senso che nel contemporaneo tutto è contemporaneo. Simul è radice. Simulazione e simultaneità convivono. Il fatto che tutto oggi sia contemporaneo, significa, tuttavia, la fine della contemporaneità, vale a dire la fine di quella categoria della storia che sembrava offrire alla produzione del presente una codificazione all'interno di una concezione evolutiva degli eventi e dei fenomeni.
In questa accezione, l'opera contemporanea non era vista in quanto priva di passato, ma conseguente al suo passato. In questa accezione l'opera era sempre debitrice della storia. Il tempo della modernità dominava questa evoluzione, ponendo una relazione tra la lezione del passato, l'esperienza nel presente e il progetto del futuro. Il tempo attuale è stato sostituito dalla velocità e dalla simultaneità: una sorta di effetto futuro. Un futuro rovesciato sul presente. Una cultura che ha perso il progetto moderno del futuro e che guarda alla fantascienza, al "futuro realizzato artisticamente", per ispirare il presente. In una civiltà dell'informazione globale non vi è luogo di possibile esilio; nella simultanea simulazione di tutti i luoghi possiamo solo dire che possiamo sentirci tutti esiliati dal luogo del presente. Di un presente senza più monumenti, vale a dire segnali che facciano rivenire alla mente la memoria, la storia.
Solo in questa interpretazione "politica" è possibile utopizzare l'occupazione di "zone temporaneamente autonome", di isole di attività, da cui saper rapinosamente e piratescamente saccheggiare la grande nave che vicino agli scogli sommersi rallenta per un poco la sua corsa. A suivre.

E. L. Francalanci
1994


Artriti

Cosa cerca Viola nelle stratigrafie assiali computerizzate delle sue anse cerebrali, se non la rappresentazione dell'ossessione, il luogo in cui si cela l'angoscia della "malattia mortale" che è il corpo.
Autoritratto dell'artista nella poetica del memento mori, scaramantica formula di augurio di immortalità. La morte infatti non uccide il pensiero, diffondendolo nel mondo come un virus. Il pensiero contamina e trasforma la vita che resta.
La vita è una questione di testa: il segnale piatto dell'elettroencefalogramma dichiara solo l'inizio di una nuova avventura. di un transito, di un passaggio, ad altri pensieri. Il pensiero è qualcosa di alieno rispetto al corpo e forse alla vita stessa del pianeta (d'altronde, la logica non è forse solo logica della logica ..?).

L'arte, anche a prescindere da Duchamp, è solo una questione di testa. Anzi di cervello. Meglio ancora, di una sola delle sue parti.
Proprio la "malattia mortale" del corpo, che è il corpo, permette all'uomo di esprimere la certezza dell'eterno sopravvivere nel mondo del suo doppio, che è quanto ha lasciato come eredità di sapienza. Al di là della supposta fine dei fondamenti.
Sulla tomba del corpo si innalza, ben solido, il monumento dell'arte. La macchina radiografica metaforizza la capacità ultravisiva dell'artista

E. L. Francalanci
1994


Fare spazio dal tempo

T. Toniato: Dietro l'opera di Viola c'è un'operazione che è prevalentemente concettuale, in quanto Viola usa i termini della pittura, della figurazione, spostandoli, togliendoli da quella che è l'esibizione pastosa, produttiva, dell'operazione pittorica che conduce. L'operazione pittorica condotta da Viola si dà per quello che è,
negandosi per quello che è.
Si dà cioè in una maniera che non chiede opposizione, ma solo negazione. E sa che, soltanto attraverso questa sua negazione, il tempo può farsi tempo dell'immagine - altrimenti le immagini potrebbero apparire facilmente leggibili nel loro significato emblematico. Si pensi alla stella, da Viola usata in queste opere, essa ha qui ridondanze e risonanze incredibili.
Anche da questo punto di vista c'è una sottrazione - sottrazione sempre della coscienza derl tempo della propria esperienza. Ed è proprio il tempo dell'opera che chiede questa cancellazione, questa negazione. Perchè?
Perchè anche da questo punto di vista Luigi Viola tende a darci, attraverso dei segni, attraverso una materia, attraverso alcuni emblemi molto labili, alcuni richiami anche molto espliciti (che apparentemente potrebbero essere quelli della memoria, del "Grund"), l'esperienza del sottrarsi al tempo dell'esperienza, per istituire piuttosto una dimensione che è quella del tempo dell'eternità - che è poi il tempo dell'opera.
Allora, in questo senso va intesa l'impossibilità di un "Grund". E in tal senso questi viaggi - viaggi apparentemente lungo la memoria - che potrebbero essere distraenti, vanno ricondotti alla loro dimensione autentica, al senso più profondo del pensiero che si riflette nell'opera: il tempo del pensiero, non il tempo dell'esperienza. Anzi il tempo del pensiero che pensa l'immortalità, che pensa la fine di un'epoca in cui sulla fine si è fatta molta elegia letteraria. Ma quale idea della fine è presente in un tempo che pensa l'eternità?

M. Donà: Oggi la questione del tempo va posta in termini completamente diversi dal passato, perchè l'arte contemporanea ci costringe a fare i conti con un'idea del tempo che è negazione radicale di una temporalità lineare, ed instaura l'idea di una eternità che va intesa letteralmente come "negazione del tempo", di quel tempo lineare di cui si è detto.
Mi sembra perciò che si tratti anzitutto di rovesciare completamente l'idea aristotelica del tempo - il tempo come misura del movimento, il tempo che ha come métron sempre lo spazio; ma non solo per il fatto che viene rappresentato spazialmente.

Probabilmente è giunto il tempo di rovesciare tutto ciò e prendere coscienza che è vero piuttosto che lo spazio ha come unità di misura il tempo.
Ma che significa tutto ciò e in che senso anche l'opera di Viola ci consentirebbe di pensare a questa questione in modo sempre più radicale?
Se lo spazio ha come sua unità di misura il tempo - il che vuol dire: in realtà lo spazio è la dimensione che si costituisce in quanto tale nella forma della temporalità, cioè lo spazio esiste "temporalmente" (perchè lo spazio si costituisce grazie e solamente al costituirsi del tempo, ossia esso è l'immaginarsi del tempo, l'effetto del tempo che si immagina, e che non può che immaginarsi dandosi una forma spaziale) - in che senso le opere di Viola ci consente di pensare questa idea del tempo fino in fondo? Nella produzione di Viola, come diceva Toniato, a dominare è l'elemento della sottrazione. Io direi: l'elemento della "negazione" come suo elemento costitutivo.
A me pare infatti che lo spazio, che si fa leggere come il costituirsi nella forma dello spazio da parte del tempo, si mostri nelle opere di Luigi Viola, attraverso una assolutizzazione dell'immagine spaziale. Qui l'immagine spaziale è iconicamente assoluta. Si tratta di forme spaziali che si stagliano al di là di qualsiasi vibrazione temporale. ma come?
Allora siamo forse in un campo che vale come negazione del tempo, e che ci fa tornare per ciò stesso alla questione dello spazio?
No. Nelle opere di Viola lo spazio è talmente assoluto dal punto di vista iconico da non avere più alcuna relazione con il tempo - neppure quella relazione che l'aveva sempre fatto essere come la dimensione della stabilità "nel" tempo.
Prima lo spazio valeva come la stabilità, il permanente, ma era tale in quanto si rapportava al tempo - qui invece lo spazio nega assolutamente qualsiasi riferimento ad una qualche attribuzione di temporalità, finendo per incorporare in sè, nella forma più assoluta, il tempo. Infatti il tempo, anche dal punto di vista delle metafore utilizzate nelle ultime opere di Viola, viene fissato nel suo essersi tutto consumato nella sua immagine.
Da ciò il costituirsi di immagini che dicono un tempo che è assolutamente passato in quanto è nella forma di ciò che non è assolutamente più. Come se, solo nel suo non-esser più, il tempo potesse trovare la propria rappresentazione perfetta ed assoluta. Dicendo così il "non-più-assoluto", alla luce del quale, solo, il tempo può esser dato.

Massimo Donà e Toni Toniato
1996


Immerita laudatio

"E lo stesso spettacolo della nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l'anima del lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa e della propria disperazione ... e l'anima riceve vita dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria"
G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 4 ottobre 1820

"Materica geometria": così vorrei definire l'ultima produzione di Luigi Viola - ché in essa sembra davvero definirsi un inedito significato di quelle che da tempo valgono per l'Occidente come due categorie 'chiave' per l'interpretazione di tutta la realtà: "materia" e "forma". Quasi che non di un loro scontro - incontro si trattasse, ma piuttosto di un inedito ed originario loro 'separarsi' nell'opera.
l'imponenza e la monumentalità del prodotto artistico in questione, infatti, rimandano immediatamente ad una qualità fabbrile che è tanto decisa e perentoria da riuscire, solo per ciò, a sopportare il naufragio finale: quello per cui nulla è lasciato trasparire delle dinamiche produttive da esso comunque presupposte.
Nulla del polemos che ogni quiete custodisce come il proprio quintessenziale passato. Nell' opera di Viola tale 'passato' è infatti davvero conforme al proprio autentico significato - quello che di ogni passato dice l' essere perfectum. Qui, davvero, il 'passato' è tutto perfectum - ossia non è più. Essendo per l'appunto risolto in una quidditas in cui 'forma' non è più distinto da 'materia' e viceversa.
La lotta - perciò davvero mortale - è consumata in un qualcosa che può solo rammemorarla (o farcela rammemorare); e che dunque rispetto ad essa assume necessariamente le sembianze di urla funerarie.
Grandi portali oltre i quali nulla è visibile - materia e forma, innanzitutto sono dunque di là da essi. Ossia, non- sono; e perciò rendono l'ente, quello presente nella forma dell'opera, 'perfettamente esistente'. Dove, la perfezione riguarda allora in primo luogo il non-esserci-più dell'opposizione materia-e-forma; ma anche e soprattutto la purezza di una presenza in cui tutto è ugualmente 'positivo'. Nonostante le opposizioni consapevolmente volute e ricercate, sia pur ad un livello di mera simmetria, nell'opera di Viola vige infatti una sorta di statuto che impedisce di rinvenirvi il trionfo prometeico della forma sul corpo resistente di una materia puramente indeterminata. In questo senso, dunque, l'esserci è un vero esser-presente.
Di che cosa? Del semplice e puro esser presente. Chè tutto ciò che in tali opere si costituisce come presenza determinata, simbolica od oggettuale che sia, davvero, semplicemente 'è'. Non "significa", non "allude" - ma mostra il proprio assoluto mostrarsi, secondo quanto già per Hegel valeva come il 'proprio' dell'opera d'arte.
Insomma, a strutturarsi è ciò che mai nelle determinatezze quotidiane riesce davvero a mostrarsi: l'essenza; il più proprio dell'ente in quanto tale, ossia di ogni ente. Ciò che in ogni ente è il medesimo, senza per ciò esser condannato a ritrarsi in un qualche substratum inaccessibile. Ed è proprio l'opera del fare artistico che può mostrarlo; può mostrare cioè quel mostrarsi che in ogni presenza determinata invero si manifesta, sia pur nell'equivoco che lo fa valere sempre come il mostrarsi di qualcosa ... di questo, di quello. Di tanto è capace l'opera di Viola - da ciò, anche, la sua straordinaria imponenza ed attitudine a stare tutta su di sè. Essa non genera rinvii, svolazzi della mente e della fantasia - essa è tutto ciò che può essere, e, nulla di più di ciò che già è, può concederci. Perciò parlavo di monumentalità - in essa tutto è già stato, 'perfetto' in quanto immobile, ossia ultimativamente dato, e dunque dissolto nell'autentica e preziosa insensatezza che tanto "dura" appariva al sensibile animus leopardiano. In questa direzione è dunque anche possibile - pur sembrando paradossale - parlare di una perfetta 'naturalità' di tali individualitò artistiche. Autentica 'naturalità', si badi bene - nulla a che vedere, cioè, con il supposto naturalismo di tanti prodotti artistici che pensano di potersi volgere alla natura imitando le sue forme esteriori, i suoi flussi più o meno ordinati, le sue manifestazioni comunque sempre già 'ordinate' da un supposto atto interpretante. Nulla di tutto ciò, dunque; d'altra parte i materiali lo confermano, la loro natura industriale o comunque artificiale è persino sfacciata.
Quale natura, dunque, vivrebbe in tali opere? Quella che nessun gesto mimetico potrebbe proporsi di incontrare. Quella che non può essere rappresentata, perchè ogni rappresentazione sarebbe ineludibilmente destinata a falsificarla e dunque a tradirla. La natura che non corrisponde a nessuna intenzionalità semantica, e che per ciò stesso non può corrispondere a nessuna richiesta di senso, innanzittutto in quanto non sta di contro alla domanda di senso con un senso suo proprio, di cui ci si possa proporre il rilevamento e la giusta definizione. La natura che solo all'arte è dato di essere, lì dove, come nelle opere di Viola, appunto, essa sappia rinunciare ad attivare un mero commercio di significati. Lì dove essa sappia custodire tutto il suo possibile senso in ciò che essa 'è' - di là dalla stessa distinzione, tutta già intellettuale, di qualcosa come forma da qualcos'altro come materia.
Dove finalmente il puro esserci dice davvero tutto ciò che può dire. Nessuna rassicurazione da essa ci si può dunque attendere; così come Leopardi nessuna rassicurazione si attendeva dalla physis e dalla sua perfetta indifferenza. Essa può solo essere cantata - e cosìfa anche Viola, cantandola senza riferirvisi. Cantandola così come l'usignolo canta per sè, di là da ogni intenzione astrattamente comunicativa, di là da ogni volontà di verità, nella forma di una immerita laudatio; perchè in ciò consiste il suo esser presente secondo i modi che competono al presentarsi di quella determinata presenza che in esso si fa presente.
Anche Viola, infatti, canta, di là da ogni proposito od utilità specifica, assecondando una necessità che è perfettamente naturale in quanto perfettamente inutile ed insensata.
Dando vita così a quella straordinarietà che troppo raramente l'uomo sa percepire in quanto tale nel rapportarsi a ciò che esiste - quella del semplice esser presente della presenza (ciò che tutte le determinatezze presentano come loro essenza, secondo quanto già dicevamo). Tautologico costituirsi in cui ogni volere è destinato a naufragare - sospensione di un modo dell'esistere cui l'Occidente (e spesso anche la sua arte) è stato costretto da una ipostatizzazione del proprio anelito conoscitivo. Questo accade nell'offrirsi allo sguardo del viandante da parte dei monumenti che lo stesso Viola può solo ri-conoscere post-factum quali liberatorie lapidi di un senso che in esse è davvero 'concluso'.

In esse è concluso il senso, è conclusa la lotta che del vivere è la quintessenza, e così è conclusa la stessa quintessenza polemica del vivere - ed ha luogo un inedito senso di quella 'morte' che la scienza ha sempre rimosso, o meglio tematizzato per allontanarne l'evento. La morte diventa infatti in tali scritture una provvida soluzione - che peraltro non va attesa o rimossa, o al limite allontanata. La morte si fa qui 'presenza' - attuale dimora di ogni lotta e di ogni ricerca di senso che solo in essa (nella morte) acquistano finalmente il loro vero volto. realissimo Grund: quello in cui consiste la loro radicale negazione - la stessa che ogni 'non-più' rende possibile, e disegna quale luogo naturale, appunto, dell'esperienza tout-court.
In ciò la morte sa mostrare il proprio esser-fondamento; in tale 'negatività', peraltro, è morte in quanto le forme determinate del fenomenico, del manifesto - ciò che intellettualmente riusciamo a concepire del mondo ed a farlo valere come suo, come modus del suo esistere e manifestarsi -, vi sono definitivamente 'negate'. E per ciò davvero 'separate': in questo senso allora è possibile comprendere appieno in che senso all'inizio dicevamo che materia e forma nella perfectio dell'opera di Viola finalmente si 'separano', si distinguono assolutamente. Sì che la loro ineliminabile relazione sussista solo nella forma del suo ultimativo esser-negata. Se una forma è senz'altro rilevabile in tale prodotto, essa non appare comunque come forma di-una materia, quasi che la materia si mostrasse nel suo esser trattenuta dalla forma; nessuna stella, nessun complesso floreale qui rilevabili è davvero fatto di bitume, di rame o di materiale fotoimpressionabile. Qui davvero il bitume 'è' stella - ma perciò è ultimativamente separato dal suo esser-stella. In quanto 'stella', il bitume 'non-è-bitume'. Nel suo esser stella, il bitume non-è-bitume - è separato innanzitutto da se stesso. E solo questo può sopportare una relazione di tipo assolutamente 'negativo' con la stella. E' stella non essendo bitume - separandosi, cioè, irrevocabilmente, dal proprio esser-bitume.

E, si badi bene, non si tratta di un discorso irreparabilmente astratto - distante e insensibile alla corporeità ed alla visibilità dell'opera. Assolutamente. Ciò che qui si intende mettere a fuoco è proprio il percipi che dell'opera di Viola fa un monumento alla morte rigeneratrice. A quella morte che non ci attende come un sicario alla fine della via, ma piuttosto ci accompagna quotidianamente come altra possibilità dell'esistere attuale in cui siamo comunque gettati.
Al 'negativo' insomma. Ad un negativo che sappia resistere all'eterna tentazione di trasfigurarsi in altra positività (così d'altra parte quasi sempre l'Occidente ha finito per pensare il 'negativo' ... da Eraclito sino a Kant il ritornello è rimasto immutato).
Chè, davvero, riteniamo, nell'opera di Viola - di là dai molteplici percorsi ermeneutici che la critica potrebbe costruire, tutti legittimi, degni di attenzione, ma mai rivolti disinteressatamente all'opera ... sempre spinti cioè alla ricerca di un senso, e dunque disposti al commercio dei significati di cui dicevamo poco sopra - qualcosa di straordinario accade, nel suo semplice mostrarsi all'occhio del fruitore.
Il senso si offre esso stesso come radicalmente negato in quell'esserci puro e immemoriale (e che perciò ci sorprende, costrringendo ad un totale arresto di tutte le normali funzioni coscienziali con cui inevitabilmente ci accostiamo anche ad essa) che fa la sua incontaminata monumentalità - si cerchi pure una qualche forma ... la si troverà inevitabilmente in un puro esserci materico che si impone e si rivela di là da qualsiasi sua formale de-finizione; si cerchi pure il materiale ... il tatto offrirà forme determinate in cui il materiale s'è già da sempre negato come nel suo più proprio pertugio; come se solo in esse quello esistesse da sempre.
In modo che di fronte all'opera nel suo complesso, ed allo sguardo unitario di chi decida finalmente di rinunciare ad ogni vana ricerca, ad apparire possa finalmente essere nient'altro che la perfetta in-determinatezza del mostrarsi che sempre e solamente ci riguarda.
E dunque è senz'altro rilevabile come, per tutto questo, il percorso artistico di Viola sia giunto ormai ad una resa dei conti tanto radicale quanto difficile da sostenere - eppur necessaria e rigorosa - con il suo passato. Con quell'evocatività di stampo prettamente romantico di cui ancora parlavano certe sue precedenti "finestre sul mondo" - ossia tutte quelle opere che alla condizione attuale già aspiravano, di fatto, ma mai si sarebbero potute spingere sintantochè il 'processo' all'incondizionato non si fosse (come ormai sembra esser accaduto)risolto nella sospensione di qualsivoglia processualità.
Ma ciò appunto non sarebbe potuto accadere se non a condizione di decidersi a vedere ciò che si vede, a comprendere ciò che va compreso; ossia che la perfectio propria dell'incondizionato (dell'infinito già ad-teso dai grandi romantici) non è mai di là da venire (che se così fosse, mai potrebbe davvero venire), ma piuttosto abita sempre, inflessibile eppur troppo spesso ignorata, in ogni frammento di quell'esistenza che tutti tenderebbe a spingere fuori di sè, fuori del già raggiunto, proprio perchè abitarla significa paradossalmente 'negarla'.
Una decisione che Viola, d'altra parte, non avrebbe potuto prendere che ora, l'eccedenza semantica da cui l'arte è comunque sempre 'anche costituita' - perlomeno per il fatto che la sua sostanziale 'inutilità' non si dà come sottrazione di senso rispetto al 'quotidiano', ma anzi come straordinaria ricchezza di un 'possibile' altrove assolutamente impensabile -, essendosi dovuta appunto opportunamente consumare.
e ciò poteva accadere solo al termine di un attrqaversamento complessivo e radicale della stessa - non a caso la simplicitas è sempre stata concepita, da Platone in poi, come 'difficilissimo' risultato di un percorso irto di difficoltà e durissime prove, al cui interno 'tutto' il molteplice sia stato adeguatamente messo in gioco.
Solo per questo habitus, allora, le stesse disjecta membra di un corpo, quale quello dell'artista, possono rilucere di uno spettrale e proprio per ciò definitivo 'significato', se poste alla luce di quell'attuale negazione loro propria - quella che una penetrazione interiore può attingere negando la mortuaria negatività ad esse simbolicamente da sempre assegnata, e riconsegnandole alla scheletrica ed immobile fissità dell'autentico presente.
D'altronde solo all'artista è dato perseguire - per il fare della sua inimitabile pratica - una tale condizione; che è essa, davvero, a valere come archetipica, e dunque aionica, 'naturalità'. Di contro al modo in cui quest'ultima è sempre stata fraintesa, nell'esser fatta valere come luogo di una incessante, ossia delirante, dinamica vitalistica.

Massimo Donà
1996


D'aure pestifere

Inquietante nella inesorabile fermezza compositiva appare la grande opera di Luigi Viola, che ha risolto il tema in un contesto di modalità formali e soprattutto di assunti concettuali caratteristici di questa sua recente fase di ricerca espressiva culminante con una riflessione radicale sugli aspetti cruciali di un pensiero lucido che sempre deve abitare l'immagine.
Di questo sono senso le fenomenologie stilistiche della sua rappresentazione che, anche nell'opera attuale, investono con rigore meditativo la realtà dell'esistenza e della nostra storia con cui l'artista focalizza il suo rispecchiamento sul mondo delle cose e sulla loro forza di rappresentazione. L'opera oggi diventa per lui il luogo di un memento mori, esprimendo essa la materia stessa del tempo della consunzione che assume in questo caso l'intensità concettuale di una sua ultima immagine.
Come figurare la morte, il suo evento luttuoso, nel corpo indicibile di una sua iconografica visibilità, se non attraverso la forma di una compiuta assenza, di un distacco tragico dal mondo stesso delle cose quale "segno" della loro incessante e incolmabile perdita?
D'aure pestifere. Primo pensiero di Santa Tecla, è il titolo del lavoro che Viola ha realizzato, richiamandosi a un particolare della pala tiepolesca di Este. Un quadro quest'ultimo dai richiami complessi, sia dal punto di vista religioso che da quello dei significati simbolici e formali. Il particolare utilizzato da Viola delle storie di santa Tecla che scaccia la peste da Este inquadra soprattutto una scena di dolore e di pietà.
Nell'opera di Viola quel particolare si trasforma in un inserto visivo che però rovescia, all'opposto, il significato di quella invocazione che la santa rivolge affinché giunga la misericordia divina a debellare il flagello della peste dalla città.
Lo scandalo del male, la sofferenza della condizione umana che lo patisce, vengono tradotti nella rispecchiante puntualizzazione di Viola che riprende tale pretesto citativo per capovolgerne il senso. O meglio l'elemento citato, pur nella frontalità della sua riprodotta evidenza, si presta a inverarsi in uno sguardo obliquo che ne cattura l'episodico riscontro per rinforzare poi l'imperante scritta che si staglia su un altro piano di questa grande tela di Viola e che precisa in modo suggestivo il suo intento, la sua profondità di riflessione insieme filosofica e stilistica.
D'aure pestifere l'impuro dolore trionfi: diversa è dunque l'invocazione che l'opera di Viola solleva alla coscienza di uno sguardo drammaticamente impietoso.
Dovrà trionfare allora l'impuro dolore perchè, se non il riscatto, la redenzione nel compimento finale traguardi invece lo stesso limite umano. Soltanto dentro questo orrendo abisso si potrà allora compiere quella necessità di trascendimento che risulta profondamente radicata nella visione di quest'opera. Essa visibilmente non dà tregua, ma ci viene incontro con spietata fissità, dove la scritta ha la durezza muta di una lapide che arresta ogni pensiero umano di fronte a quella suprema irrevocabilità.
Quale oltre si spalanca dietro il nulla che presiede l'umana esistenza, quale voce ci parla in questo decisivo momento che scuote la stessa vacuità di ogni azione umana,se non quella di concedersi all'acclamante invocazione di un puro silenzio e di un'assoluta ineludibile domanda? Di tale condizione è segnata l'esperienza speculativa che pervade il lavoro dell'artista e non soltanto nel verso di una sua soggettiva posizione che pure potrebbe spiegare il senso di quella chiamata e legittimarne comunque l'enunciato D'aure pestifere l'impuro dolore trionfi - quel primo pensiero di santa Tecla è qui ribaltato perchè vi è riflesso non solo un qualche insuperabile dramma esistenziale, bensì l'ineluttabile e tremenda presa di coscienza che sconvolge e travolge ogni umano esito della natura nella vita.
Viola chiama il primo pensiero di santa Tecla a far trionfare l'impuro dolore di aure pestifere; non più dunque un'invocata liberazione, bensì l'assunzione di un destino estremo, di uno sprofondamento sconfinante dentro il nulla più oscuro.
Da qui sorge davvero l'intera significazione della pietas che diversamente e in modo terribilmente più vero Viola esprime con la concezione dell'opera. Un'opera costruita tramite un'elaborazione tecnica e formale piuttosto complessa. La superficie del lavoro è infatti costituita da una doppia pellicola e sopra il piano della tela vi è sovrapposto un altro piano fatto di fibra di vetro, una sorta di sottile lastra trasparente che produce effetti trascoloranti, alterando e modificando l'impatto percettivo di chi guarda.
L'artificiosità della luce risulta perciò accentuata, anzi esasperata come se quella materia di immagine fosse intessuta da interni leds fosforescenti che infrangono l'esattezza del prospetto visivo, rimuovendo e movimentando l'intera raffigurazione. Nella ripartizione geometrica dello spazio, articolato per misure quasi auree, si imprime potentemente una grande massa di grafite che forma la superficie pellicolare del corpo dell'immagine, dove si installa, nella parte alta, la rappresentazione citativa degli appestati, ottenuta tramite una riproduzione fotomeccanica del particolare tiepolesco, mentre sulla parte successiva, sotto, al centro, domina a caratteri cubitali la frase che dichiara l'azione del dolore piegato a farsi strumento che deve trasformare la disperazione umana nel bisogno di una ascesi purificatoria.
Nessun rimedio può infatti mascherare il dolore e la perdita incolmabile, anzi la stessa santità del martirio dovrà avverarsi dentro la medesima impurità del male affinchè il suo trionfo sia il mezzo della piena liberazione. L'esortazione tende piuttosto a non lasciarsi ingannare dalla pietà, poichè nulla si nasconde dietro il velo delle apparenze. Eppure, allo stesso tempo, vi è nell'immagine di Viola una sacralità misteriosa, quella che risiede nel senso stesso della creeatività.
L'opposizione concettuale che Viola riflette nell'ideazione di quest'opera lo porta poi a incatenare lo spazio dell'immagine dentro una prigione di sembianze formali e di spostamenti di senso, con ordinate misure strutturali, con un rigoroso controllo di acute razionalità costruttive che consentono all'artista di equilibrare l'impianto compositivo attraverso la stesura di colori quasi innaturali, espressi su gamme di viola e di rosa, come virate, a produrre gelide luminosità, trasparenze artificiose.
Queste atmosfere stranite accrescono l'inquietudine per un'imminente catastrofe. Viola riesce a consegnarci con la sua opera le tracce avvertite e presaghe di un'ineluttabilità di qualcosa - della vita e della storia - che si è già compiuto. L'artista ne esprime, con l'implacabilità di un giudizio sulla pietra, una sua immagine estrema, un'immagine ultima.

Toni Toniato
1997








For more information please

Luigi Viola

© Copyright All Rights Reserved : Luigi Viola 1997