Didone (versi 1-30)
traduzione italiana
Ma la regina ormai colpita da una grave pena,
nutre una ferita d’amore nelle sue vene e un fuoco nascosto la divora.
Il grande valore di quell’uomo e la grande gloria di quella stirpe
Le ritornano in mente: si imprimono indelebili nel suo cuore il volto
e le parole e l’affanno non lascia nessun placido riposo alle sue membra.
L’aurora del giorno seguente illuminava con la lampada di Febo le terre
e disperdeva dal cielo l’umidare dell’ombra,
quando turbata si rivolge così alla concorde sorella:
“Anna, sorella mia, quali sogni paurosi mi tengono sospesa e mi atterriscono!
Che ospite strano è entrato nella nostra dimora,
come si mostra nell’aspetto, che forza di cuore e di armi!
Io credo davvero, e non è vana fiducia, che sia di generazione divina.
Il timore rivela i cuori vili. Ahimè, quale destini
non lo hanno tormentato, quali guerre sostenute narrava!
Se nel mio spirito non si radicasse la decisione fissa ed incrollabile
di non unirmi più a nessuno in matrimonio,
dopo che il primo amore mi tradì e mi abbandonò morendo,
se non avessi provato disgusto del letto e della fiaccola nuziale,
a questa sola colpa avrei potuto soccombere.
Anna, lo confesso dunque, dopo la morte dell’infelice Sicheo,
mio sposo, e dopo che i Penati sono stati imbrattati da fraterna strage,
solo costui ha piegato i miei sentimenti e ha colpito il mio animo
facendolo vacillare. Riconosco le tracce dell'antica fiamma.
Ma per me voglio piuttosto che la terra si apra dal suo fondo,
o che il padre onnipotente mi precipiti col suo fulmine nel regno di morte,
tra le pallide ombre dell’inferno, nella notte profonda
prima che ti violi, o Pudore, o che rescinda le tue leggi sacre.
Colui che per primo si congiunse a me rapì il mio amore;
egli lo abbia con sé e lo serbi nella tomba”.
Così detto inondò il seno di dirotte lacrime.
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Il temporale fatale e la malefica fama (160-197)
traduzione in italiano
Intanto il cielo inizia ad essere sconvolto da un grande fragore;
seguono immediatamente nubi miste a grandine:
e i Tirii compagni e i giovani Troiani
e il discendente di Dardano per la paura cercavano
rifugi diversi fra i campi; i torrenti precipitano dai monti.
Didone e il capo troiano giungono insieme
nella medesima grotta. Dapprima sia la Madre Terra sia la pronuba Giunone
danno un segno; i fuochi brillarono e il cielo testimonio
alle nozze e le Ninfe sulle vette le accompagnarono con il loro ululato.
Quel giorno fu il principio della morte e il principio di tutti i mali;
Didone non si cura delle apparenze né della fama
né d’altra parte pensa ad una amore che resti clandestino;
lo chiama matrimonio, con questo nome vela la colpa.
Subito la Fama va per le più grandi città della Libia,
la Fama, rispetto alla quale nessun altro male è più veloce:
con il movimento acquista vigore e trova le forze con l’andare;
piccola dapprima per il timore, in seguito si innalza nell’aria
e cammina sulla terra e nasconde la testa fra le nubi.
La Terra Madre, incitata dall’ira verso gli dei,
la generò, come dicono, ultima sorella di Ceo e di Encelado
veloce di passi e infaticabile d’ali,
mostro orrendo, immane, che quante piume ha sul corpo,
sotto ha altrettanti occhi vigili (incredibile a dirsi),
tante lingue, altrettante bocche risuonano, e drizza le orecchie.
Di notte vola tra il cielo e la terra nell’ombra
Stridendo e non chiude gli occhi al dolce sonno;
di giorno siede spiando sul culmine di un tetto,
o su alte torri, e continua a spaventare grandi città,
tenace messaggera tanto del falso e del malvagio quanto del vero.
Allora esultante riempiva le genti di molteplici dicerie
e annunziava ugualmente il vero e il falso:
era giunto Enea nato da sangue troiano,
a cui la bella Didone non disdegnava di unirsi;
ora passavano tutto l’inverno, quanto era lungo,
fra le mollezze, immemori dei loro regni e rapiti da una turpe passione.
Questo la malvagia dea spargeva sulla bocca degli uomini.
Subito rivolge il cammino verso il re Iarba
e con le parole gli accende l’animo e ne aumenta l’ira.
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L'ultimo colloquio (296-392)
traduzione in italiano
Ma la regina (chi può ingannare chi ama?)
presentì l’inganno e colse per prima ciò che accadeva,
temendo anche le cose sicure.
L'empia Fama svelò a lei furente che la flotta
era armata e pronta a partire. Fuori di sé
si scatena per tutta la città, come una Tiade eccitata
da moti sacri, quando le orge triennali la eccitano
dopo aver udito Bacco e il Citerone la chiama con clamore.
Infine affronta Enea per prima, così:
"Perfido, speravi di poter nascondere tanto male
e partire dalla mia terra in silenzio? Non ti trattiene il nostro amore,
la mano che una volta ti fu concessa, Didone che sta per morire di morte crudele?
Anzi, tu sotto le stelle invernali prepari la flotta
e ti affretti a solcare l'alto mare, tra i venti
terribili, o malvagio. Perché? Se corressi
non verso terre straniere, verso paesi che ignori,
ma fosse ancora in piedi l'antica Troia, andresti
a Troia con la flotta per l'ondoso mare? È me che fuggi?
Per questo mio pianto e per la tua mano, per gli Imenei incominciati
e per la nostra unione, se ho meritato di te in qualche modo,
se ci fu qualcosa di dolce per te, abbi pietà della casa che crolla,
elimina questo pensiero se c’è ancora posto per qualche preghiera.
A causa tua le genti di Libia e il tiranno dei Numidi mi odiano,
i Tiri mi sono diventati nemici; a causa tua il pudore e la fama precedente,
per la quale sola mi innalzavo alle stelle, sono morte.
Moribonda mi lasci, ospite?
(poiché solo questo nome resta di colui che chiamavo marito).
Che aspetto? Forse il fratello Pigmalione che distrugga le mie mura,
o il re Jarba che mi porti in Getulia schiava?
Oh, se prima della tua fuga avessi avuto almeno un figlio da te,
un piccolo Enea che per le sale giocasse e ti ricordasse almeno nell’ aspetto!
Oh, che allora, non mi parrebbe del tutto d'essere abbandonata
e d'essere stata ingannata!" Aveva detto così.
Ma lui per gli ammonimenti di Giove teneva immobili gli occhi
e con sforzo premeva dentro al cuore l'affanno.
Alla fine risponde con poche frasi: "Regina, non negherò
che hai tanti meriti quanti puoi contarne a parole,
e non mi scorderò di te finché mi ricorderò di me stesso, finché sarò vivo.
Per questo dirò poco. Io non sperai di nasconderti
questa fuga, credilo pure, e del resto mai ti tenni discorsi
di nozze o pensai di sposarti. Se i Fati permettessero
che conducessi la vita come vorrei, secondo i veri miei desideri,
sarei rimasto a Troia vicino alle dolci reliquie dei miei,
gli alti tetti di Priamo starebbero ancora in piedi
e con le mie mani avrei costruito ai vinti una nuova Pergamo.
Ma adesso Apollo grineo mi comanda di andare in Italia,
in Italia mi ordinano di andare gli oracoli di Licia:
questo è il mio amore, questa la mia patria.
Se tu che sei fenicia ami tanto le rocche di Cartagine,
questa tua bella città della Libia, perché
impedisci che i Teucri abbiano alfine riposo nella terra d'Italia?
È lecito anche a noi cercare lidi stranieri.
Tutte le volte che la notte circonda le terre di umide ombre,
tutte le volte che sorgono gli astri infuocati,
in sogno l'ombra del padre Anchise, turbata,
mi rimprovera e mi spaventa, con lui mi rimprovera Ascanio,
povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro,
poiché lo frodo del regno d'Esperia, dei campi fatali.
E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi,
mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite)
m'ha portato per l'aria rapida questo comando,
ho visto il Dio in una luce chiarissima entrare
per le mura e con queste mie orecchie ne ho sentito la voce.
Dunque cessa di infuocare me e te con questi lamenti,
io non vado in Italia di mia volontà.
" Mentre diceva così lei lo fissava bieca già da un poco,
volgendo gli occhi qua e là, misurandolo tutto con taciti sguardi;
alfine furente prorompe: "Tua madre non è una Dea,
la tua stirpe non viene da Dardano,
ma il Caucaso selvaggio aspro di rupi ti fece,
ircane tigri allattarono te da bambino. Ah, perché m'illudo,
che cosa mi aspetto più di questo? Lui forse s'è commosso al mio pianto?
Forse che i suoi occhi hanno pianto?
Ha emesso un sospiro o non ha avuto pietà dell'amante?
Che cosa immaginare di peggio?
Ormai nemmeno la grande Giunone
e il padre Saturnio guardano con giustizia a quanto avviene.
Non c'è più alcuna buonafede, in nessun posto.
Lo presi morto di fame, gettato sul lido dalla tempesta,
lo misi a parte del regno, pazza!
Strappai la sua flotta dispersa all'estrema rovina insieme ai suoi compagni.
Ah, che furia m'avvampa! Proprio adesso l'augure Apollo
e gli oracoli lici gli portano per l'aria questi ordini tremendi!
Certo è stato mandato da Giove in persona il fulmineo
messaggero dei Numi! Oh, davvero gli Dei non hanno da occuparsi d'altro,
se un tale pensiero turba la loro quiete! Ma non voglio ribattere le tue parole,
non voglio neppure trattenerti. Parti, va' via col vento in Italia,
cerca il tuo regno attraverso le onde. Io spero soltanto,
se i pietosi Celesti hanno qualche potere,
che me ne pagherai il fio tra gli scogli,
chiamando spesso a nome Didone. Didone!
Ma io lontana ti perseguiterò con i fuochi infernali:
e quando la fredda morte spoglierà delle membra l'anima,
in ogni luogo dove tu andrai ci sarò, pallido spettro,
fantasma venuto a turbarti. Sconterai la tua pena, empio,
ed io lo saprò: questa bella notizia mi giungerà tra le Ombre.
" Così dicendo tronca a mezzo il discorso,
affranta fugge la luce del giorno, scappa via
e si leva dagli occhi d'Enea, lasciandolo dubitante, pauroso,
desideroso di dirle molte cose. Le ancelle accorrono
e la portano al suo marmoreo talamo; svenuta, le membra rigide, la posano sulle coltri.
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